I segreti della luce degli asteroidi – IYL2015 – Domenico Licchelli

Un mucchio di sassi rotanti disseminati nello spazio tra Marte e Giove, laddove sarebbe stato meglio che ci fosse un bel pianeta. Punti luminosi con la pessima abitudine di rovinare le fotografie a lunga posa con le loro tracce, senza peraltro fornire alcuna utile informazione, a parte l’evidente e fastidioso segno del loro percorso in cielo. Questo sono stati considerati per lungo tempo gli asteroidi, corpi celesti troppo poco interessanti per giustificare importanti programmi di ricerca loro dedicati.

Comparative imagery of nine asteroids. With a diameter of about 330 miles (530 kilometers), Vesta dwarfs all of these small bodies. Many scientists think it's a protoplanet left over from the solar system's first few million years. Credit: NASA/JPL-Caltech/JAXA/ESA

Comparative imagery of nine asteroids. With a diameter of about 330 miles (530 kilometers), Vesta dwarfs all of these small bodies. Many scientists think it’s a protoplanet left over from the solar system’s first few million years.
Credit: NASA/JPL-Caltech/JAXA/ESA

Negli ultimi decenni ci si è resi conto che si trattava, invece, di tasselli fondamentali per capire l’origine del nostro Sistema Solare e, in ultima istanza, di noi stessi. Perché una rivoluzione così radicale potesse avvenire, erano però necessarie idee molto forti, di quelle che in qualche modo segnano un prima e un dopo. Nel caso in questione si è trattato di due distinte prese di coscienza, legate rispettivamente alla vita e alla morte, una sorta di Eros e Thanatos su scala planetaria.

Da sempre l’uomo si chiede quale sia stata l’origine dell’Universo. Alcuni secoli di ricerche scientifiche non hanno ancora fornito risposte definitive, ammesso che ciò sia possibile. Tuttavia, hanno permesso di definire con sufficiente grado di precisione le caratteristiche principali del grande affresco cosmico. Restano però bisognose di ulteriori ed approfondite indagini alcune questioni cruciali, una delle quali ci interessa direttamente. Come si è formato il Sistema Solare ed in particolare il bel pianeta blu che ci ospita? Si potrebbe pensare che per venirne a capo, basti studiare in maniera accurata lo straordinario campionario di strutture geologiche disseminate sul globo terracqueo, la sua correlazione con le immani forze che ancora oggi agiscono all’interno del pianeta e l’interazione con gli elementi atmosferici e marini che ne hanno modellato il paesaggio per miliardi di anni. Tutto ciò è molto sensato, ed in effetti è quanto tentano di fare, con ottimi risultati, schiere di geologi, oceanografi e meteorologi. Ma la descrizione, per quanto dettagliata, deve inevitabilmente arrestarsi davanti ad una sorta di piccolo orizzonte degli eventi terrestre, costituito dal momento in cui l’intero pianeta era poco più di una massa fusa in continua trasformazione. All’interno dell’immensa sfera infuocata, sconvolgimenti di straordinaria potenza rimescolavano da cima a fondo tutta la materia, facendo così perdere quasi completamente le informazioni riguardanti il materiale primigenio da cui tutto aveva preso forma. Fine della storia e delle nostre ricerche? Fortunatamente no.

Un raffinato lampadario di vetro di Murano ci dice poco della sua origine, ma se guardandoci attorno troviamo pezzi di vetro semifuso, una fornace ancora accesa, un mucchietto di silice ed un pizzico di soda in un sacchetto, forse possiamo ancora ricostruire la sequenza delle trasformazioni che l’hanno portato ad essere quel che è. Su scala planetaria, il mucchietto di sabbia con i resti di fusione è rappresentato dagli asteroidi e dalle comete, corpi le cui caratteristiche chimiche e isotopiche sono state poco o punto modificate da processi di differenziazione e di evoluzione termica su larga scala e che conservano ancora oggi al loro interno preziosissime informazioni relative alla composizione della nebulosa primordiale. Avanzi, certo, di uno dei più straordinari processi di costruzione di nuovi mondi che si possa immaginare, ma al contempo, preziosi scrigni ricolmi di gioielli e, secondo alcuni, perfino diretti portatori della vita sulla Terra, un gesto degno di un magnifico Eros cosmico.

E Thanatos? In una notte calma e senza vento dirigiamo il nostro fidato telescopio verso il primo quarto di luna. Nell’oculare balza subito all’occhio il grande bacino circolare del Mare Serenitatis interamente ricoperto di lava, nonostante i quasi 700 km di diametro.

Luna_08_08_08In direzione opposta, verso il polo sud lunare, un’incredibile selva di crateri di tutte le dimensioni ricopre completamente la regione. Aumentando gli ingrandimenti, anche quelle zone che in precedenza sembravano lisce, si rivelano essere una moltitudine di piccoli crateri addossati gli uni agli altri. I più antichi sono stati quasi del tutto demoliti dai nuovi arrivati che hanno saturato completamente ogni spazio disponibile, distruggendo gli originali terrazzamenti e riempiendo a forza le platee, quasi vigesse una sorta di horror vacui che richiama alla mente certe architetture barocche leccesi o siciliane.

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Terminatore lunare nei pressi del cratere Ticho – 2004

Oggi sappiamo che questi crateri sono stati generati da impatti di un gran numero di asteroidi e di meteoriti con la superficie del nostro satellite, soprattutto nelle prime fasi dell’evoluzione del Sistema Solare. Anzi, la Luna stessa si è con molta probabilità formata dalla collisione con la giovane Terra di un planetoide delle dimensioni di Marte. Anche il nostro pianeta ha sicuramente sperimentato questa fase di bombardamento cosmico dalle conseguenze più o meno catastrofiche che, seppur diradandosi progressivamente col passare del tempo, non è mai cessato del tutto.

Almeno in un caso, circa 65 milioni di anni fa, si ha ormai la quasi certezza che la caduta di un asteroide di qualche chilometro di diametro abbia portato ad una delle più grandi estinzioni di massa nella storia evolutiva della biosfera, la ben nota scomparsa dei dinosauri. Per la verità, secondo autorevoli studiosi, i mammiferi, compresi noialtri, devono la loro esistenza proprio all’immane catastrofe che seguì l’impatto e che spazzò via, in un colpo solo, i giganteschi rettili che avevano regnato incontrastati fino a quel momento. Tuttavia, lo stesso meccanismo che ha forse permesso la nostra esistenza potrebbe un giorno, si spera mai, portare alla nostra estinzione.

Ed ecco la seconda idea fondamentale. Gli asteroidi possono essere una grave minaccia per la sopravvivenza della nostra specie. In particolare, è diventato evidente che è di vitale importanza individuare tutti quei corpi che, per le loro caratteristiche dinamiche, possono entrare in rotta di collisione con la Terra, i cosiddetti PHAs (Potential Hazardous Asteroids, al 27 Gennaio 2015 sono 1541 quelli noti) e studiarne le caratteristiche, soprattutto la struttura interna e la loro composizione chimica e mineralogica, al fine di poter approntare le eventuali contromisure con cognizione di causa. Un impatto di un asteroide metallico avrebbe, infatti, conseguenze ben più catastrofiche di quello di un analogo roccioso, costituito da un aggregato incoerente di frammenti tenuti assieme dalla gravità.

I PHAs sono una piccolissima frazione della più numerosa famiglia dei NEO (Near Earth Object), costituita da una popolazione piuttosto eterogenea di corpi minori comprendente asteroidi, comete attive ed estinte e corpi progenitori di alcune classi di meteoriti. Provengono da tutte le regioni del Sistema Solare e sono caratterizzati dall’avere orbite caotiche e instabili che, nel volgere di pochi milioni di anni, concludono la loro esistenza cadendo sul Sole o impattando uno dei pianeti interni, se non sono finiti nel frattempo su orbite che li portano ad essere espulsi dal Sistema Solare.

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An image mapping the orbits of all the potentially hazardous asteroids (PHAs) known. Image Credit: NASA/JPL-Caltech

La loro breve esistenza, su tempi scala cosmici, implica che la popolazione di NEO che osserviamo ai giorni nostri, non può certamente essere la stessa di quella che avremmo trovato anche solo qualche centinaio di milioni di anni fa. Deve perciò esistere un qualche meccanismo che rifornisce continuamente la popolazione dei NEO, compensandone le perdite e mantenendo relativamente alta nel tempo la probabilità che uno di essi finisca col prenderci di mira. Sono state individuate varie sorgenti che possono iniettare questi oggetti verso il Sistema Solare interno, portandoli ad intersecare o quantomeno ad avvicinarsi all’orbita terrestre. La parte del leone sembra svolta dalle potenti risonanze esistenti nella Fascia Principale, in particolare quelle con Giove, e dagli incontri ravvicinati con Marte. Per valutare correttamente le probabilità di un eventuale impatto è fondamentale conoscere con grande precisione i parametri orbitali.

Se sulla base di accurate misure astrometriche sembra che il rischio di collisione non sia trascurabile, osservazioni condotte con potenti radiotelescopi possono indicare le reali possibilità. Il fascio ad alta potenza emesso da un radar, 1Megawatt nel caso del radiotelescopio di 305 metri di Arecibo, è estremamente coerente, cosicché la fase dell’onda elettromagnetica è la stessa su tutto il fronte d’onda. Sfruttando la tecnica del time-delay, ossia della misura del tempo che intercorre tra l’emissione del fascio e la ricezione dell’eco, è possibile determinare la distanza del target con una precisione attorno ai cento metri e stimare la componente della velocità lungo la linea di vista, con un margine d’errore dell’ordine del millimetro al secondo, come dire che si potrebbe ricostruire il moto di una formica che si arrampica su un muro. L’analisi dell’eco permette anche di determinare le proprietà fisiche della superficie dell’asteroide. La rugosità superficiale influenza il modo in cui l’onda radar è riflessa: una superficie liscia tende a mantenere la coerenza del fascio al contrario di una scabra, mentre una metallica riflette molto più intensamente di una rocciosa coperta da regolite. Inoltre, siccome l’oggetto è in moto, la frequenza dell’onda riflessa è diversa da quella incidente, per effetto Doppler. Un’accurata analisi di queste variazioni consente di ricostruire la forma dell’asteroide con sorprendente precisione, ottenendo una sorta di fotografia, tanto più dettagliata quanto più l’oggetto è vicino. La potenza dell’eco ricevuta è, infatti, inversamente proporzionale alla quarta potenza della distanza dell’oggetto, il che spiega come mai i NEO, transitando in certi casi a distanza inferiore a quella Terra-Luna, sono i candidati ideali per questo tipo di indagini.

Proprio ieri, 26 Gennaio 2015, gli scienziati della NASA, sfruttando l’antenna di 70m di Goldstone, hanno ricostruito le immagini radar dell’asteroide 2004 BL86 che stava transitando a circa 1.2 milioni di chilometri dalla Terra, e che ha riservato una gradita sorpresa: è un asteroide di circa 325metri con una piccola luna di 70 metri che gli orbita attorno.

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This GIF shows asteroid 2004 BL86, which safely flew past Earth on Jan. 26, 2015. Image Credit: NASA/JPL-Caltech

Solo di recente si è iniziato a studiare anche gli oggetti della Fascia Principale. La prima osservazione di questo tipo è stata quella di (216) Kleopatra, un asteroide lungo circa 217 km e largo 94 km, dalla caratteristica forma ad osso. Le osservazioni sono state condotte ad Arecibo, quando l’asteroide si trovava ad oltre 170 milioni di km di distanza da Terra; il fascio radar impiegava circa 19 minuti per raggiungerlo e tornare al ricevitore.

Ricostruzione radar della forma dell’asteroide 216 Kleopatra ottenuta col grande radiotelescopio di Arecibo, sfruttando la tecnica del Doppler imaging. Da notare la notevole finezza dei dettagli superficiali, soprattutto in considerazione del fatto che, al momento dell’osservazione, l’asteroide si trovava ad oltre 170 milioni di km di distanza.

Ricostruzione radar della forma dell’asteroide (216) Kleopatra ottenuta col grande radiotelescopio di Arecibo, sfruttando la tecnica del Doppler imaging. Da notare la notevole finezza dei dettagli superficiali, soprattutto in considerazione del fatto che, al momento dell’osservazione, l’asteroide si trovava ad oltre 170 milioni di km di distanza.

Il grande limite delle misure radar sta nel fatto che è possibile studiare un numero molto limitato di oggetti, almeno con gli attuali strumenti a disposizione. Viceversa, i planetologi vorrebbero poterne osservare il più grande numero possibile, per poter poi applicare considerazioni di tipo statistico, inevitabili quando si tratta di caratterizzare una popolazione che, verosimilmente, è composta di parecchi milioni di oggetti. Nell’attesa dei dati della missione spaziale GAIA, che si ripromette di rivoluzionare per quantità e qualità le conoscenze sugli asteroidi, le osservazioni fotometriche condotte da Terra continuano ad essere, da questo punto di vista, uno strumento fondamentale, poiché permettono di ottenere un discreto numero di informazioni, tutto sommato in maniera relativamente semplice anche con strumentazione commerciale.

Gli asteroidi hanno forme più o meno allungate e più o meno stravaganti, conseguenza il più delle volte di complicate esistenze dominate da violente collisioni reciproche. Se nelle prime fasi della formazione del Sistema Solare i detriti collidevano a velocità relativamente basse, favorendo in questo modo il progressivo accrescimento e la formazione di corpi di grandi dimensioni, la successiva evoluzione delle orbite, soprattutto di quelle caratterizzate da alte eccentricità ed inclinazioni, ha fatto sì che le collisioni avvenissero a velocità comprese tra i 5 ed i 20 km/s conferendo alle collisioni un carattere distruttivo. Spesso la violenza degli impatti è stata tale da sbriciolare letteralmente i corpi coinvolti. In alcuni casi dalle collisioni sono emerse le cosiddette famiglie dinamiche, costituite da piccoli e grandi oggetti con elementi propri e proprietà fisiche simili a quelle del corpo genitore.

Accurate simulazioni numeriche hanno dimostrato, per esempio, che le famiglie di Eunomia e Koronis hanno avuto un’origine di questo tipo e che tutti gli oggetti di dimensioni maggiori sono probabilmente costituiti di aggregati di frammenti debolmente legati tra loro (rubble-pile), tenuti assieme dalla gravità e dalle forze di stato solido. Un altro sottoprodotto di questo tipo di evento è la formazione di satelliti attorno al corpo principale. Attualmente sono stati individuati satelliti di asteroidi nella Fascia Principale, tra i NEO e tra i transnettuniani. E’ di qualche anno fa la scoperta di un asteroide triplo, (87) Sylvia, un oggetto di 280km di diametro con due piccole lune, rispettivamente a 710 e 1360km di distanza, che ruotano attorno ad esso su orbite equatoriali, circolari e prograde il che suggerisce con forza un’origine comune. In genere i satelliti sono piccoli rispetto ai corpi principali, ma a volte, come nel caso di (90) Antiope, le dimensioni sono confrontabili, tanto che, più correttamente, si deve parlare di asteroidi doppi.

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VLT observations of the double asteroid (90) Antiope during 2004. The adaptive optics NACO instrument was used, allowing the astronomers to perfectly distinguish the two components and so, precisely determine the orbit. The two objects are separated by 171 km, and they perform their celestial dance in 16.5 hours.

Il grande interesse per gli asteroidi binari o multipli deriva dal fatto che dallo studio dell’orbita dei componenti è possibile determinare la loro massa tramite le leggi di Keplero e, se si dispone anche di una stima delle dimensioni, di ricavare la densità, parametro fondamentale per capire la struttura interna dell’oggetto. (87) Sylvia, per esempio, è sicuramente un rubble-pile con una significativa percentuale di spazi vuoti al suo interno. L’importanza di questo dato risiede nel comportamento di questi corpi in caso di collisioni successive. La presenza di molti vuoti e giunzioni al loro interno fa sì che riescano ad assorbire in maniera molto efficiente l’energia dell’impatto, con la produzione di coltri di ejecta e notevoli quantità di regolite come nel caso di (433) Eros o, addirittura, la formazione di crateri di dimensioni confrontabili con quelle dell’asteroide stesso, senza distruggerlo. Emblematico in questo senso è (253) Mathilde, la cui superficie è dominata da grandi crateri da impatto di diametro superiore al raggio medio dell’asteroide.

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From fifty kilometers above asteroid Eros, the surface inside one of its largest craters appears covered with an unusual substance: regolith. The thickness and composition of the surface dust that is regolith remains a topic of much research. Much of the regolith on (433) Eros was probably created by numerous small impacts during its long history.

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An image of Asteroid (253) Mathilde taken by the space probe NEAR Shoemaker on 27 June 1997 from a distance of 2400 km. It is lit up by the sun from the top right. The part of the Asteroid visible in the picture has Dimensions of 59 km x 47 km. On the surface, numerous large craters are visible, like the Large Crater in the Center, named Karoo, which is more than 30 km wide. Most of it is shaded in the picture.

Un notevole salto di qualità nello studio fotometrico degli asteroidi si è avuto, come per tutti i settori dell’Astrofisica, con l’introduzione dei sensori a stato solido, i cosiddetti dispositivi ad accoppiamento di carica o CCD. Attualmente con un telescopio di 20 cm di diametro è possibile studiare asteroidi di 14-esima magnitudine con un buon grado di precisione ed affidabilità laddove, prima dell’avvento dei CCD, sarebbe stato necessario uno strumento di apertura nettamente maggiore.

Tutte le curve di luce a colori riportate di seguito sono state ottenute ormai una decina di anni fa presso l’Osservatorio Astrofisico R.P.Feynman con un Dall-Kirkham di 21cm di apertura nell’ambito dell’ALP (Asteroid Lightcurve Program) che avevo attivato in quegli anni.

(721)Tabora

In un ideale passaggio di consegne generazionale e tecnologico ecco la curva di luce di (721) Tabora il cui periodo di rotazione stimato da Zappalà et al. nel 1989 era di 8 ore (Rotational properties of outer belt asteroids, Based on observations performed mainly at the European Southern Observatory, ESO, La Silla, Chile. Icarus 82, 354-368.) e che riuscii a rifinire in 7.982 ± 0.001 ore

Dall’analisi della curva di luce si ricava innanzitutto il periodo di rotazione dell’asteroide che, in genere, ruota attorno ad un asse fisso, mostrando all’osservatore le superfici di area massima e minima in maniera ciclica.

Images of 433 Eros from NEAR Shoemaker. Courtesy of JHU/APL Two days after NEAR Shoemaker began its orbit of Eros, the spacecraft captured this rotation movie as it moved closer to the asteroid. The movie shows a full rotation on February 16, 2000, as viewed from a range of about 340 kilometers

Images of (433) Eros from NEAR Shoemaker.
Courtesy of JHU/APL. Two days after NEAR Shoemaker began its orbit of Eros, the spacecraft captured this rotation movie as it moved closer to the asteroid. The movie shows a full rotation on February 16, 2000, as viewed from a range of about 340 kilometers

Un sufficiente numero di curve di luce, ottenute con osservazioni a diverse longitudini eclittiche e distribuite nell’arco di tre o quattro apparizioni, consente di determinare la direzione dell’asse di rotazione. Inoltre, permette la costruzione di un modello tridimensionale abbastanza dettagliato della struttura su larga scala dell’asteroide mediante la tecnica matematica dell’inversione delle curve di luce.

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Tre curve di luce dell’asteroide (43) Ariadne affiancate dal modello tridimensionale ottenuto con la tecnica matematica dell’inversione di un cospicuo numero di curve di luce, acquisite in epoche differenti. La diversa forma e ampiezza delle curve è dovuta al cambiamento delle condizioni di illuminazione durante ogni apparizione. (Kaasalainen et al. Icarus 159 (2002) mod.)

Il motivo per cui è necessario osservare l’oggetto sotto diverse prospettive è che in questo modo l’illuminazione laterale e radente mette in evidenza, grazie al gioco di luci e di ombre, anche le eventuali irregolarità nella forma, almeno su scala macroscopica. Un asteroide sferico non mostra alcuna variazione significativa nella curva di luce nel corso della sua rotazione, ma anche un oggetto fortemente elongato esibisce un comportamento analogo se osservato in direzione del suo polo. Ma, mentre nel primo caso non ci sono variazioni di sorta nemmeno se la visione è equatoriale, nel secondo si ha un’alternanza evidentissima di massimi e minimi, dovuta alla grande differenza nell’estensione dell’oggetto lungo gli assi perpendicolari a quello di rotazione. Non è raro, in questo caso, riscontrare ampiezze nella curva di luce anche di una magnitudine che, nel caso di asteroide approssimabile nella forma ad un ellissoide di Jacobi, implica un rapporto di circa 5/2 tra i due assi principali.

In linea di principio per ottenere una buona curva di luce è sufficiente un centinaio di punti ben distribuiti lungo il periodo. Tuttavia, un numero maggiore è sicuramente preferibile, sia per evidenziare eventuali irregolarità morfologiche, sia per minimizzare gli errori nelle misure dovuti, per esempio, a peggioramento delle condizioni meteo durante le osservazioni. La maggior parte degli asteroidi ruota con periodi compresi tra 6 e 12 ore perciò un paio di notti di misure, almeno durante l’inverno, sono sufficienti per determinare in maniera accurata il periodo. E’ opportuno però aggiungere una terza sessione a distanza di qualche giorno per ottenere una maggiore precisione.

(573)Recha

Generalmente la curva di luce ha un andamento di tipo sinusoidale con due massimi e due minimi, spesso di altezza e profondità differenti. Un esempio è la curva di luce di (1459) Magnya; quest’oggetto era stato scelto come obiettivo della prima osservazione interferometrica di un asteroide con il VLTI dell’ESO, con l’intento di ricavarne il diametro per via diretta. La curva di luce, oltre a permettere di rifinire il periodo di rotazione, è stata utile anche per individuare in quale fase si trovava l’asteroide al momento delle osservazioni interferometriche.

(1459)Magnya

Curva di luce di (1459) Magnya, raro asteroide della zona esterna della Fascia principale con una crosta basaltica e target della prima osservazione interferometrica col VLTI dell’ESO (Delbò et al. “MIDI observations of (1459) Magnya: First attempt of interferometric observations of asteroids with the VLTI”, Icarus, vol. 181, pp. 618-622 (2006)

Analoghe considerazioni valgono quando lo studio fotometrico è contemporaneo alle osservazioni radar, soprattutto se di oggetti non ancora ben caratterizzati. Alcuni asteroidi di dimensioni abbastanza contenute e monolitici hanno periodi di rotazione di poche ore o addirittura di pochi minuti. Se fossero di tipo rubble-pile, sarebbero rapidamente disgregati dalla forza centrifuga. La barriera tra i due tipi sembra collocarsi attorno alle 2.25 ore, ma ulteriori osservazioni possono migliorare in modo rilevante la statistica relativa. Esistono anche asteroidi con periodi di rotazione di giorni e perfino di mesi ed altri per i quali questo dato non è univocamente determinabile, come i cosiddetti asteroidi ubriachi. Si tratta di oggetti che non ruotano attorno a nessuno degli assi principali d’inerzia, ed anzi la direzione dell’asse di rotazione è continuamente variabile nel tempo. Celebre è il caso di (4179) Toutatis, un asteroide costituito da due corpi irregolari di 2.5 e 4 chilometri, praticamente a contatto, la cui rotazione è il risultato di due diversi tipi di moto, con periodi di 5.4 e 7.3 giorni terrestri, che si combinano in maniera tale che l’orientazione nello spazio di questo asteroide, non si ripete mai con le stesse modalità. Si tratta di una sorta di relitto che testimonia la grande complessità della dinamica collisionale nelle prime fasi della formazione del Sistema Solare. A causa degli attriti e delle tensioni interne, che dissipano grandi quantità di energia, queste rotazioni ubriache tendono a regolarizzarsi su tempi scala dell’ordine di qualche decina di milioni di anni, in maniera tanto più rapida quanto più la rotazione è veloce per una data dimensione dell’asteroide, ma Toutatis ruota così lentamente che il tempo necessario perché questo processo di stabilizzazione diventi effettivo è più lungo di quello trascorso dalla formazione del Sistema Solare.

Anche quando la rotazione non è “ubriaca”, la determinazione del periodo, a volte, è un vero rompicapo e sono necessarie diverse notti di misure per risolvere il problema. Può succedere, infatti, che l’asteroide sia binario, cosicché nella curva di luce si sovrappongono periodi differenti e perfino eclissi. Un campanello d’allarme può essere la presenza di un numero maggiore dei canonici due estremi per ciclo. Un asteroide nella lista dei sospetti binari, che esibisce ben quattro massimi e minimi, è (2346) Lilio. Potrebbe anche trattarsi di un oggetto singolo di tipo ellissoidale, ma molto deformato.

Curva di luce di 2346 Lilio. La presenza di ben quattro massimi e minimi fa pensare che forse potrebbe trattarsi di un asteroide binario, ma non è da escludersi la possibilità che si tratti solo di un oggetto dalla complicata morfologia.

Curva di luce di (2346) Lilio. La presenza di ben quattro massimi e minimi fa pensare che forse potrebbe trattarsi di un asteroide binario, ma non è da escludersi la possibilità che si tratti solo di un oggetto dalla complicata morfologia.

Irregolarità macroscopiche nella forma sono evidenti anche nel caso di (126) Velleda. Sarà sicuramente interessante tornare a studiare questi oggetti durante le prossime apparizioni, quando le differenti condizioni geometriche di illuminazione potranno evidenziare o anche nascondere alcune delle caratteristiche presenti nelle curve di luce e quindi fornire ulteriori indicazioni sulla loro morfologia.

(126)Velleda

Curva di Luce di (126) Velleda, un asteroide caratterizzato da una morfologia piuttosto accidentata, dovuta probabilmente ad una tumultuosa esistenza, con frequenti collisioni con altri suoi simili.

Ha un certo fascino iniziare a misurare un asteroide di cui non se ne sa assolutamente niente. E’ come intraprendere l’esplorazione di un’isola che fino a quel momento era solo un punto su una mappa. E non è detto che non celi un piccolo tesoro.

Domenico Licchelli – 2015

Approfondimento

Mentre la determinazione del periodo di rotazione è normalmente cosa rapida e facile (una volta bastava un buon fotometro fotoelettrico, oggi un buon CCD), più complicata è la determinazione della forma e dell’asse di rotazione. In questo articolo voglio raccontarvi uno dei vari metodi, quello che ho usato più spesso (in quanto messo a punto proprio da … me) e che risulta anche il più semplice da spiegare geometricamente e senza utilizzare formule più o meno complicate.
L’ipotesi fondamentale che bisogna fare per poter arrivare a un risultato accettabile è che la forma dell’asteroide sia assimilabile a un ellissoide a tre assi (a>b>c), rotante attorno al semiasse minore c. Attenzione! Questo non vuol dire che tutti gli asteroidi siano forme di equilibrio, ma solo che, come tutti i frammenti collisionali, hanno forme più o meno allungate e non simmetriche. La rotazione intorno all’asse minore è comprovata dalla teoria e dalla casistica, e si lega a condizioni che si riferiscono al momento angolare.
Le forme a tre assi sono più che giustificabili, guardando i sassi di una spiaggia ciottolosa in cui il mare abbia smussato gli angoli delle pietre (Fig. 2).

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Ammettiamo, quindi, che il nostro asteroide si presenti come un ellissoide a tre assi, rotante attorno all’asse minore. Magnifico. Tuttavia, noi continuiamo a vedere, da terra, solo un punto luminoso e quindi l’ellissoide può essere orientato in qualsiasi modo nella sua posizione celeste.
La sua prima curva di luce, in genere, ci aiuta già a capire la forma grossolana: se l’ampiezza, ossia la differenza tra massimi e minimi, è abbastanza rilevante vuol dire che l’ellissoide è piuttosto allungato. Come mai? Presto detto. Prendiamo ad esempio un oggetto che abbia l’asse di rotazione perfettamente perpendicolare alla linea di vista. In Fig. 3, nella parte alta, vi è l’ellissoide visto dal polo (e quindi l’ellisse mostra proprio gli assi maggiori a e b), mentre le due rappresentazioni sottostanti si riferiscono a vari istanti.

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Figura 3. In alto un ellissoide a tre assi visto dalla direzione dell’asse polare. Durante la sua rotazione l’area rimane costante. Se, invece, viene visto dalle posizioni 1, 2, 3, 4 l’area cambia continuamente e passa da un minimo a un massimo. Come conseguenza, durante un intero periodo di rotazione d’identificano due massimi e due minimi di luce.

In particolare, l’area della superficie ellittica vista da terra passa da un minimo (1) quando si vede l’asse intermedio b (πbc) a un massimo (2) (dopo novanta gradi di rotazione) quando si vede l’asse maggiore a (πac). Poi, dopo altri 90°, di nuovo πbc (3), seguita da πac (4), per concludersi, infine, nuovamente con πbc (1). L’asse minore c si vede sempre, proprio perché l’asse di rotazione è perpendicolare alla linea di vista.

In questo caso così favorevole si potrebbe immediatamente risalire al rapporto tra gli assi maggiori dell’ellissoide (a/b), scrivendo la formula:

m2 – m1 = – 2.5 log (Imax/Imin) = – 2.5 log (Amax/Amin) = – 2.5 log (πac/ πbc) = – 2.5 log (a/b)

notando che m2 – m1 è proprio l’ampiezza della curva di luce in quanto è la differenza di magnitudine tra massimo e minimo, mentre l’intensità luminosa che entra nel logaritmo è, nel caso di luce riflessa, proporzionale solo all’area apparente vista dall’osservatore. In altre parole, più uno “specchio” è grande e più luce riflette.
Se fossimo sicuri di essere nelle condizioni della Fig. 3 avremmo già ottenuto un risultato importante. Purtroppo, esso è solo un caso fortunato, che, però, si verifica sempre (prima o poi) per qualsiasi asteroide e per qualsiasi orientazione del suo asse di rotazione. Basta avere pazienza. Ora vi mostro perché…
Consideriamo due casi estremamente particolari, ma molto indicativi. L’asteroide si trova su un’orbita circolare e complanare con quella terrestre. La direzione del suo asse di rotazione è perpendicolare all’orbita stessa (Fig. 4).

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Figura 4. Asteroide e Terra rivolvono su orbite complanari e l’asse di rotazione è perpendicolare al piano orbitale.

Le mutue posizioni Terra-asteroide sono mostrate per 4 particolari opposizioni. In realtà, sarebbe stato inutile, in quanto l’angolo tra asse di rotazione e linea di vista rimane sempre uguale a 90° (visione equatoriale). In qualsiasi opposizione si osservi, si ricade nel caso di Fig. 3 (in basso). Otteniamo sempre la stessa ampiezza di curva di luce.

Già dalla prima curva di luce, si ricava subito il rapporto tra gli assi maggiori a/b, ma nessuna informazione sul rapporto a/c o b/c. Sappiamo anche la direzione dell’asse di rotazione (non variando l’ampiezza nelle varie opposizioni l’asse deve essere perpendicolare). Se facciamo un diagramma dove in ascissa mettiamo, ad esempio, la longitudine dell’asteroide e in ordinata l’ampiezza della curva di luce, otteniamo dei punti perfettamente allineati lungo una parallela all’asse delle ascisse.
Altrettanto peculiare, ma più interessante, il caso mostrato nella Fig. 5.

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Figura 5. Come la Figura 4, ma l’asse di rotazione giace sul piano orbitale.

In questo caso le orbite sono sempre complanari, ma l’asse di rotazione giace sul piano orbitale (un po’ come Urano). Vi è allora un punto in cui la Terra vede l’asteroide proprio lungo l’asse di rotazione (posizione a destra), ossia l’osservatore non rileva nessuna variazione luminosa durante il periodo di rotazione dell’oggetto celeste (visione polare). Siamo, infatti, nel caso mostrato in alto nella Fig. 3. Per un opposizione che cada a 90° da questa si ha, invece, un angolo tra asse di rotazione e linea di vista uguale a 90° (come in Fig. 3, in basso) e quindi l’ampiezza della curva raggiunge il suo valore massimo (visione equatoriale). Dopo altri 90° ricadiamo nella visione polare (anche se si vede il polo opposto) e poi ancora nella visione equatoriale.

Nelle configurazioni intermedie tra questi quattro casi peculiari, l’asse di rotazione dell’asteroide forma un angolo variabile tra 0° e 90°, che prende il nome di angolo di aspetto A. In realtà l’angolo andrebbe da 0° a 180° o da – 90° a + 90°, a seconda di come si misuri. Questo fatto ha poca importanza (per adesso, ma ne parleremo più avanti), dato che abbiamo assunto come forma dell’asteroide quella di un ellissoide perfetto, la cui luminosità dipende solo dall’area apparente mostrata all’osservatore.
Al variare dell’angolo di aspetto, l’ampiezza assume valori intermedi tra il valore minimo, uguale a zero (visione polare), e il valore massimo (visione equatoriale). Osservazioni eseguite in varie opposizioni permettono di costruire la curva ampiezza-longitudine. Questa volta non è più una retta parallela all’asse delle ascisse, ma una curva continua che assomiglia, in qualche modo, a una curva di luce. Il valore massimo è sicuramente la visione equatoriale e quindi ci permette di conoscere nuovamente a/b. Inoltre, la posizione in cui l’ampiezza diventa zero, indica proprio la longitudine del polo.
In questo caso peculiare, sappiamo anche che la latitudine della direzione dell’asse di rotazione è zero, dato che l’ampiezza minima è nulla e quindi l’asse deve giacere sul piano orbitale dell’asteroide. Calcolando, infine, la differenza di magnitudine tra la visione polare (valore costante durante l’intera rotazione) e quella della visione equatoriale al massimo della curva di luce, si ottiene subito anche il rapporto tra b e c. Si usa la solita formula:

mP – mE = – 2.5 log (A(polare)/Amax(equatoriale)) = – 2.5 log (πab/ πac) = – 2.5 log (b/c)

Il “caso” è risolto completamente.
Come già detto, però, questa è una situazione del tutto peculiare, molto didattica, ma poco realistica. La situazione “normale” è decisamente più complicata. Ciò che capita è quanto raffigurato in Fig. 6.

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Figura 6. Come Figura 5, ma questa volta l’asse forma un angolo qualsiasi col piano orbitale.

L’inclinazione del’asse di rotazione sul piano orbitale è diversa da 0° e da 90° (o, se preferite, la latitudine, nel caso di orbita complanare con quella dell’eclittica). Tuttavia, dobbiamo notare due cose importanti. Anche in questo caso realistico, prima o poi, si avrà un’opposizione con una visione equatoriale (angolo di aspetto A uguale a 90°).

Se questa asserzione vi lascia un po’ dubbiosi, pensate alle stagioni terrestri. Esistono sempre due punti in cui l’asse di rotazione della Terra è perpendicolare al piano dell’eclittica e questi sono gli equinozi. Essi vi sono comunque, indipendentemente da quanto vale l’angolo tra asse ed eclittica. La visione polare è invece impossibile da ottenere e si ha soltanto un valore minimo di ampiezza, in corrispondenza, però, della posizione a 90° dalla visione equatoriale. In altre parole, il minimo della curva ampiezza-longitudine indica, ancora una volta, la longitudine del polo dell’asteroide. Nel caso terrestre questi sono i punti dei solstizi. Alcuni esempi di curve ampiezza-longitudine sono riportate nella Fig. 7.

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Figura 7. Alcune curve ampiezza-longitudine. Qualsiasi asteroide raggiunge sempre il massimo di ampiezza (visione equatoriale). Il minimo, invece, può essere più alto o più basso, Indica comunque abbastanza bene la longitudine del polo.

Possiamo calcolare, come al solito, il rapporto a/b, sfruttando l’ampiezza misurata nella visione equatoriale (che si ha sempre, ripeto). Resta più problematica la determinazione del rapporto b/c e della latitudine del polo. Ci aiuta la Fig. 8 che riporta la situazione per un’opposizione e per un orientamento qualsiasi dell’asse di rotazione. L’osservatore vede, in realtà, una proiezione dell’asteroide-ellissoide su un piano perpendicolare alla linea di vista. Essa si ottiene, visivamente, come la sezione perpendicolare di un cilindro ellittico che abbia la direzione Terra-asteroide come asse e che sia tangente all’asteroide.

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Figura 8

L’angolo tra asse del cilindro e asse di rotazione è proprio l’angolo di aspetto A. La proiezione è anch’essa un’ellisse, ovviamente, ma i suoi assi sono, momento per momento, delle funzioni abbastanza semplici che legano angolo di aspetto e rapporti tra i semi-asse dell’asteroide.

Particolare rilevanza hanno, ovviamente, quelli relativi al massimo e al minimo della curva di luce. Non intendo sviluppare le formule, in quanto approfittano di un po’ di trigonometria e di qualche passaggio più o meno noioso, ma posso assicurarvi che esiste una soluzione che dona sia la forma che i rapporti tra gli assi.
Abbiamo fatto qualche ipotesi restrittiva, ma le applicazioni ai casi reali confermano che l’approccio è più che sufficiente per una determinazione abbastanza accurata. I risultati ottenuti per Eros, Kleopatra e Vesta (anche se in modo più elaborato) sono perfettamente in accordo con quanto osservato “in loco” (Eros e Vesta) o attraverso le immagini radar (Kleopatra).
La determinazione dell’asse di rotazione resta, comunque, un po’ ambigua. In altre parole, esistono quasi sempre due soluzioni altrettanto valide. Questo fatto si può notare nella Fig. 9.

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Figura 9. Si vedrebbe la stessa superficie apparente per qualsiasi posizione dell’asse lungo il cono con centro nella posizione dell’asteroide e ampiezza uguale all’angolo di aspetto.

Qualsiasi sia la configurazione dell’asteroide nello spazio, la curva di luce non cambia se l’asse di rotazione descrive un cono circolare, di ampiezza uguale all’angolo di aspetto A.
Fortunatamente, questa enorme ambiguità si ha solo per una singola opposizione. Se ne abbiamo altre e raffiguriamo, nel piano longitudine-latitudine celeste, le circonferenze che hanno centro nella posizione dell’asteroide e raggio uguale all’angolo di aspetto, esse hanno due soli punti in comune (Fig. 10).

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Figura 10. Se l’orbita non è inclinata ed è circolare, l’ambiguità tra i due poli non non può essere risolta.

La loro longitudine e latitudine sono i possibili valori del polo dell’asteroide. In modo analitico questo fatto si traduce dicendo che l’angolo di aspetto è calcolato solo in valore assoluto (ossia può essere sia positivo che negativo, come già accennato in precedenza).
Per risolvere l’ambiguità, è necessario che l’orbita non sia complanare con l’eclittica e, magari, che sia anche piuttosto ellittica. In questi casi vi è una piccola differenza tra le due soluzioni: una delle due intersezioni è meno “buona” dell’altra.
Tuttavia, dato che gli errori sono molti (macchie di albedo, forma non assimilabile completamente a un ellissoide a tre assi, rugosità superficiale, effetto dell’angolo di fase solare sulla luminosità della superficie esposta all’osservatore (ossia l’ombra su una superficie convessa), ecc.), l’ambiguità è difficilmente risolta e le differenze riscontrate negli errori stimati per le due soluzioni sono comparabili o minori di quelli introdotti da altre cause.
In ogni modo, si ottengono valori più che accettabili per lavori di tipo statistico e anche per pianificare missioni spaziali dirette agli asteroidi, per le quali è necessario avere una stima dell’asse di rotazione e della forma.

Vincenzo Zappalà

Astronomiæ Pars Optica – Livio Ruggiero

Breve storia dell’ottica (astronomica) antica, ma non solo

Giorgio Abetti nella sua Storia dell’Astronomia del 1949 scrive:

“La storia dell’Astronomia si può ordinare in grandi periodi legati alla storia e alla civiltà dei diversi popoli della terra, essi possono prendere il nome di astronomia antica, medioevale e moderna, intendendo che fra le ultime due ha avuto luogo una fondamentale riforma dopo la quale l’astronomia moderna in circa quattro secoli ha fatto, fino al giorno d’oggi, enormi progressi quali, nei precedenti periodi, non si sarebbero mai potuti immaginare.”

L’astronomia antica può farsi risalire probabilmente a circa 4000 anni prima di Cristo, ad opera di popolazioni dell’Asia centrale, dalle quali si sarebbe poi diffusa, nel giro di un migliaio di anni, agli Egiziani e agli Indiani, per passare poi ai Babilonesi e agli Ebrei fino ad Alessandro Magno.

Solo con i Greci, però, si può dire che l’Astronomia acquisti le caratteristiche di una disciplina scientifica, grazie a personaggi come Talete, Anassimandro, Pitagora, Platone e Aristotele, per raggiungere il maggior fulgore nella Magna Grecia con Archimede e alla Scuola di Alessandria con Aristarco da Samo, Eratostene ed Ipparco, che può essere considerato il più grande astronomo dell’antichità, i cui lavori sono stati tramandati e completati da Tolomeo, tre secoli dopo. L’Almagesto, la famosa opera in tredici libri di Tolomeo, contiene praticamente tutte le conoscenze astronomiche sviluppatesi da Ipparco in poi arricchite soprattutto dai metodi matematici e geometrici usati da Tolomeo.

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La Scuola di Atene di Raffaello Sanzio. L’uomo di spalle, con la corona, che regge un globo terracqueo in mano è Claudio Tolomeo

Secondo Schiaparelli il periodo dell’Astronomia antica si può considerare concluso intorno al 650 dopo Cristo.

L’Astronomia medievale copre il periodo che va dal 500 al 1500 dopo Cristo, con un praticamente nullo contributo dei romani e con un fondamentale apporto degli Arabi, ma fino a Copernico il contributo di tutti è sostanzialmente una ripetizione dell’Almagesto di Tolomeo.

Aspetti particolari della storia dell’Astronomia sono costituiti dalle ricche tradizioni assiro-babilonesi ed egiziane, da quelle di scarso livello, per motivi religiosi, degli Ebrei e dei Fenici, da quelle essenzialmente leggendarie di Indù e Cinesi e da quelle sorprendenti dei Maya e di altre popolazioni dell’America Centrale.

Con Copernico, considerato il continuatore della scuola greca, Tycho Brahe, Keplero, Galileo e Newton comincia la nuova era che può essere ritenuta a buon diritto quella della riforma dell’Astronomia.

Fino all’invenzione del cannocchiale di Galileo gli strumenti utilizzati per l’Astronomia furono essenzialmente le sfere armillari, l’astrolabio e il quadrante. Con questi strumenti, noti già ai Greci e perfezionati nel Medioevo soprattutto dagli Arabi, si misuravano la posizione delle stelle, le ore del levare e del tramontare del sole e delle stelle ed altre grandezze legate alla struttura del cielo, alcune determinanti per le osservazioni astrologiche.

Dopo Newton si può fissare l’inizio dell’era moderna, in cui, grazie agli sviluppi delle tecnologie osservative (cannocchiale, telescopio) e delle idee fondamentali della Fisica (legge di gravitazione universale) l’Astronomia muoverà passi da gigante nella conoscenza dell’Universo, che conosceranno un ulteriore fondamentale incremento con la scoperta dell’analisi spettrale (Kirchhoff, 1859), che ha permesso di avviare lo studio della costituzione chimica dei corpi celesti.

Il 24 agosto del 1609 Galileo scrisse una lettera al Doge Leonardo Donato presentando il cannocchiale che aveva realizzato perfezionando un “occhiale” realizzato in Olanda, che permetteva di vedere ingrandite le cose lontane come se fossero vicine. Si trattò dell’evento che diede il via al meraviglioso sviluppo dell’Astronomia, ma fu anche l’inizio del miglioramento tecnologico delle lenti, che avrebbe portato alla costruzione di strumenti ottici sempre più perfezionati, consentendo lo sviluppo altrettanto meraviglioso delle altre scienze, e al miglioramento degli occhiali, tanto importanti per risolvere i problemi della visione.

Fin dall’antichità filosofi e scienziati hanno cercato di rispondere alle domande: perché vediamo? come avviene il processo che ci mette in relazione con il mondo esterno attraverso i nostri occhi?

Nell’antica Grecia e negli ambienti culturali che gravitavano attorno ai suoi uomini di pensiero vennero elaborate alcune teorie, che oggi ci fanno sorridere ma che furono in auge, anche se con qualche aggiustamento, fino a quando, solo pochi secoli fa, non cominciarono a migliorare le conoscenze sulla natura della luce, sul suo modo di propagarsi nello spazio e nei mezzi materiali e sul funzionamento fisico-fisio-psicologico del sistema occhio-cervello. Le teorie principali furono tre, legate alle grandi scuole di pensiero dell’epoca: la teoria delle eidole, la teoria dei raggi visuali, la teoria platonica.

Teoria delle eidole – Dall’oggetto osservato si staccano delle immagini (eidole) che vanno verso l’occhio, rimpicciolendosi man mano in modo da poter entrare nella pupilla, portando alla psiche le informazioni sulla forma e i colori degli oggetti. Questa teoria nacque nell’ambito della scuola atomistica fondata da Leucippo (V secolo a.C.), che ebbe Democrito tra i suoi seguaci più illustri.

Teoria delle eidole

Teoria delle eidole

Teoria dei raggi visuali  – Dall’occhio partono dei raggi che vanno ad analizzare l’oggetto osservato e ritornano nell’occhio portando le informazioni raccolte. Questa teoria nacque nell’ambito della scuola fondata da Pitagora (V secolo a. C.).

Teoria dei raggi visuali

Teoria dei raggi visuali

Teoria platonica Dall’occhio e dall’oggetto partono due fluidi che incontrandosi danno luogo alla visione. Secondo Platone (427 a. C. – ca. 347 a. C.) dagli oggetti parte un fluido speciale, che egli chiama “fuoco”, che si incontra con la “mite luce del giorno” che parte dai nostri occhi. Solo se i due fluidi, incontrandosi, si “uniscono strettamente” si ha la sensazione visiva.

Teoria platonica

Teoria platonica

Contemporaneamente a quello della conoscenza dei meccanismi della visione altri problemi, senz’altro più gravi per la gente comune, richiedevano delle soluzioni: quelli posti dai difetti visivi, che si potevano acquisire dalla nascita o per l’avanzare dell’età, escludendo naturalmente la cecità.

Per la soluzione di questi problemi si sarebbe dovuto attendere quando negli ultimi secoli del primo millennio dopo Cristo, forse casualmente, qualcuno alle prese con la fabbricazione dei dischi di vetro che, collegati tra loro con un nastro di piombo, erano utilizzati nelle finestre, si accorse che attraverso alcuni di essi, abbastanza trasparenti, si potevano vedere ingranditi gli oggetti retrostanti. I dischi di vetro venivano prodotti prelevando con il cannello da soffiatore una massa di vetro fuso che veniva trasformata in disco ruotando energicamente il cannello. Lo spessore del disco era massimo al centro, per la connessione con il cannello, e diminuiva verso il bordo.

Era nata la lente!

Pare che la denominazione di lente derivi dal popolare lentecchia, che sta per lenticchia, legume che è proprio “a forma di lente”.

In realtà c’è da chiedersi come mai si sia atteso tanto per intravedere la soluzione, dal momento che già da tempo si conosceva la proprietà di ingrandimento dell’acqua e di sostanze trasparenti come il cristallo di rocca o varie pietre preziose. Basti pensare che nel I secolo dopo Cristo il filosofo Lucio Anneo Seneca scriveva:

“…le lettere, anche piccole e confuse, appaiono ingrandite e chiare attraverso un globo pieno di acqua.”

Comunque siano andate le cose si pensa che solo intorno al 1286 siano stati inventati gli occhiali per correggere con lenti convesse la presbiopia, che affligge le persone anziane, mentre si dovette aspettare ancora per quasi due secoli per poter correggere con lenti concave la miopia, che affligge anche i giovani.

Anche se qualcuno attribuisce erroneamente al fiorentino Salvino degli Armati l’invenzione degli occhiali, fino ad oggi è stato possibile solo definire che la data dell’invenzione deve essere posta intorno al 1286, non si può però non tener conto che il filosofo e scienziato inglese Ruggero Bacone (1214-1292) debba essere considerato quasi certamente come il primo ad aver scritto della possibilità di correggere con le lenti i difetti della visione:

“Se un uomo guarda le lettere o altre cose minute per mezzo di un cristallo o di un vetro o di altro perspicuo sovrapposto alle lettere, e sia minore della sfera la parte la cui convessità è rivolta verso l’occhio, e l’occhio sia in aria, vedrà le lettere molto meglio e gli appariranno maggiori … E perciò questo strumento è utile ai vecchi e a quelli che hanno la vista debole, perché essi possono vedere la lettera, per quanto piccola, di sufficiente grandezza.”

La storia degli occhiali è una storia molto tormentata, perché tormentata è la storia delle lenti, la cui fabbricazione avveniva levigando a mano dei pezzi di vetro di qualità molto scadente, per cui il loro uso, pur risolvendo in parte i problemi posti dai difetti visivi, era reso difficoltoso dalle aberrazioni, che distorcevano le immagini colorandone inoltre i bordi con tutti i colori dell’arcobaleno.

I primi occhiali erano costituiti da due lenti unite da una montatura inizialmente snodata e poi “a stringinaso”, di metallo, di cuoio o di osso. Gli occhiali, le cui due lenti difficilmente potevano avere esattamente le stesse caratteristiche, non erano prescritti da un medico dopo l’analisi della vista e non erano venduti da negozi specializzati, tutte cose di là da venire, ma venivano acquistati al mercato, scegliendo sulla bancarella del venditore di occhiali quelli che meglio si adattavano alla vista dell’acquirente.

Fino all’avvento del Rinascimento le lenti, per il fatto di fornire una visione distorta degli oggetti, furono per così dire “snobbate” dagli scienziati, che le consideravano “ingannevoli e fallaci”, anche se alcuni di essi dovettero adattarsi all’uso degli occhiali. Ecco cosa scrissero di esse due studiosi molto famosi:

Girolamo Fracastoro (1478-1553) “Le lenti per gli occhi sono fabbricate, alcune in modo da far apparire volti deformi, altri ironici, altri di aspetto più turpe; ce ne sono alcune che fanno apparire ogni cosa colorata, altre di un anello posto nel mezzo di un banco mostrano una dozzina di cerchi, così uguali che, se uno vuole individuare quello vero, si inganna, con grande divertimento dei presenti.”

Girolamo Cardano (1501-1576) “… gli specchi piani, concavi e convessi e le lenti rimandano immagini false.”

Ma era tanto l’entusiasmo dei “non scienziati” per uno strumento che, nonostante i suoi difetti, attenuava i problemi di una vista difettosa, che spesso gli artisti lo inserirono in situazioni storicamente o fisicamente impossibili. In un quadro del 1472 di M. Schongauer rappresentante la morte della Madonna uno dei discepoli usa un paio di occhiali, in un ritratto, dipinto nel 1518 da L. van Leyden, S. Girolamo porta gli occhiali pur essendo morto otto secoli prima della loro invenzione e in un quadro rinascimentale raffigurante la pesca dei coralli i pescatori si immergono portando sul naso gli occhiali a stringinaso, che sarebbero stati di nessun giovamento sott’acqua.

Death of the Virgin, M. Schongauer

Ci furono però anche studiosi che indagarono a fondo sul comportamento della luce attraverso le lenti, riconoscendone l’utilità per la correzione dei difetti visivi, gettando le basi per lo studio scientifico del loro funzionamento.

Di particolare importanza sono i contributi dati da Leonardo da Vinci, Francesco Maurolico, Giovan Battista Della Porta, Giovanni Kepler. Leonardo da Vinci (1452-1519) diede fondamentali contributi allo sviluppo dell’ottica e pare abbia fabbricato personalmente delle lenti, con l’intenzione di costruire degli occhiali “da vedere la luna grande”. Il benedettino Francesco Maurolico (1494-1575) si interessò in maniera molto approfondita delle lenti, sottolineandone l’importanza per correggere i difetti della vista. I suoi scritti sono forse i primi in cui vengano trattate le lenti divergenti:

“… i raggi visivi fatti passare attraverso un corpo trasparente convesso da ambedue le parti convergono presto in un piccolo spazio; così passando attraverso un corpo trasparente concavo da ambedue le parti divergono …”

Giovan Battista Della Porta (1535-1615), dalla personalità fantasiosa e sempre preoccupato di mettersi in mostra, fu il primo a tentare di costruire una teoria organica sulle lenti:

“La trattazione delle lenti è cosa difficile, meravigliosa, utile, piacevole, mai da alcuno finora tentata: è immenso il beneficio di coloro che sono quasi privi della vista e che, per mezzo delle lenti, allungano la vista a distanza grandissima, di tutto ciò non conoscendo la causa. Noi, essendoci procurata questa conoscenza, abbiamo raggiunto effetti così meravigliosi da poter distinguere anche cose minutissime portate a notevole distanza.”

Quando Galileo rese pubblica la descrizione del suo cannocchiale, Della Porta, in una lettera al presidente dell’Accademia dei Lincei Federico Cesi, lo accusò immediatamente di avergli rubato l’idea, prendendola da uno dei suoi libri.

La storia del cannocchiale è piuttosto tormentata, la sua invenzione non può essere attribuita interamente a Galileo, dal momento che le idee di uno strumento per vedere gli oggetti lontani sono databili fin dal XIII secolo (Ruggero Bacone) e alcuni suggerimenti per realizzarlo si trovano già a metà del Cinquecento in scritti di studiosi italiani (Giovan Battista Della Porta, fra Paolo Sarpi, Ettore Ausonio) e inglesi (John Dee, Thomas Digges, William Bourne).

Il primo cannocchiale presentato da Galileo al Senato Veneto nell’estate del 1609, con un potere di ingrandimento di 9 volte, era il miglioramento di un “occhiale” olandese, con solo tre ingrandimenti, che era pervenuto a Galileo l’anno precedente.

Galileo presenta al Doge e al Senato Veneto il suo cannocchiale. Affresco di Luigi Sabatelli.

Galileo presenta al Doge e al Senato Veneto il suo cannocchiale. Affresco di Luigi Sabatelli.

D’altro canto pare che lo strumento olandese fosse in realtà una copia di uno inventato in Italia nel 1590 e poi arrivato in Francia. Contemporaneamente in Inghilterra Thomas Harriott utilizzava un cannocchiale da sei ingrandimenti.

Ma qual è allora l’importanza del ruolo svolto in tutta la storia da Galileo, che oltretutto non era neanche, per fortuna, uno studioso di ottica? Il “per fortuna” si deve agli storici della Scienza (per es. Vasco Ronchi), per i quali Galileo poté costruire e utilizzare il suo cannocchiale senza essere impedito dai preconcetti e dalle prevenzioni che erano propri di tutti gli studiosi di ottica del tempo. Preconcetti e prevenzioni che non avrebbero mai portato alla realizzazione dello strumento e, soprattutto, non avrebbero mai consentito di dare valore scientifico alle osservazioni fatte con esso.

Galileo affrontò quelli che erano i problemi centrali della costruzione dello strumento: la qualità del vetro e la fabbricazione di lenti con ridotte aberrazioni e sufficiente potere di ingrandimento. Galileo stimolò le vetrerie di Venezia e di Firenze a realizzare vetri migliori e curò personalmente la fabbricazione delle lenti, con l’aiuto anche del suo grande allievo Evangelista Torricelli. Alla fine del 1609 Galileo realizzò un cannocchiale con un potere di ingrandimento di 20 volte, che gli consentì di “allungare lo sguardo” ben al di là della Luna.

Era iniziata un’era di spettacolari progressi non solo nell’Astronomia ma in tutte le scienze.

Nel marzo 1610 Galileo pubblicò il Sidereus nuncius, che può essere considerato lo scritto fondante dell’Astronomia moderna. L’opera si apre con la descrizione dell’invenzione del cannocchiale, cui fanno seguito le prime scoperte meravigliose effettuate mediante il suo uso.

sidereus nuncius

All’osservazione della superficie lunare e a quelle della costellazione di Orione e delle Pleiadi, fanno seguito quelle della Via Lattea e delle nebulose. Ma la più meravigliosa delle scoperte, fatta con l’ausilio dell’affascinante strumento, è quella dei quattro satelliti di Giove, quattro punti luminosi che Galileo chiamò “Pianeti Medicei”, in onore della famiglia di Cosimo II.

M24, la grande nube stellare immersa nella Via Lattea col suo contorno di nebulose ed ammassi stellari

M24, la grande nube stellare immersa nella Via Lattea col suo contorno di nebulose ed ammassi stellari

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La Luna attorno al primo quarto

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La pubblicazione del Sidereus nuncius ebbe l’effetto di un grosso sasso lanciato in uno stagno (quello dell’Ottica) in quiete da 20 secoli. Nel giro di poche settimane circolarono tra le Corti, le Ambasciate e gli ambienti universitari di tutta Europa decine e decine di lettere, poche a favore di quanto scriveva Galileo e molte, anche con toni violenti e decisamente offensivi, contro le meraviglie che egli descriveva di aver visto attraverso il suo cannocchiale, qualificate come illusioni e inganni visivi causati da uno strumento che, molti dicevano, era stato da lui copiato da altri costruiti in precedenza. Un fatto sorprendente considerando il tempo che occorreva all’epoca perché quelle lettere, spesso addirittura stampate in più esemplari, viaggiassero non solo tra Venezia, Firenze, Roma, Padova, Perugia, Pisa e Napoli, ma anche tra Italia, Francia, Germania, Polonia, Paesi Bassi e Inghilterra.

Questo esemplare è uno degli unici due cannocchiali esistenti certamente di Galileo.

Questo esemplare è uno degli unici due cannocchiali esistenti certamente di Galileo. Rivestito in pelle con dorature impresse a caldo, lo strumento fu donato a Cosimo II subito dopo la pubblicazione del Sidereus Nuncius (19 marzo 1610). Vetro, legno, pelle; lunghezza 92 cm, diametro 6 cm
Firenze, Istituto e Museo di Storia della Scienza

Per conoscere in maniera avvincente e dettagliata il “polverone” suscitato da Galileo negli ambienti scientifici e filosofici dell’epoca si può leggere il bel libro di Vasco Ronchi “Galileo e il suo cannocchiale” (Einaudi, 1964).

Il vero contributo allo sviluppo dell’ottica moderna dato da Galileo con il suo cannocchiale è stato l’aver affermato e provato che quanto si vedeva attraverso di esso era reale, spazzando così via tutti i preconcetti e le prevenzioni sull’uso delle lenti, che costituivano la caratteristica saliente dell’ottica che si era consolidata fino ad allora.

Con il cannocchiale di Galileo si apre l’era dell’uso delle tecnologie ottiche per la costruzione di strumenti per uso scientifico.

L’Astronomia compie un balzo in avanti, che verrà potenziato ulteriormente dal telescopio di Newton, ma sono anche le Scienze Naturali e le Scienze Mediche ad imboccare, con la costruzione del microscopio, una strada che le porterà nel giro di due secoli agli sviluppi che conosciamo.

Giovanni Keplero (1571-1630), oltre che astronomo, fu uno studioso profondo di ottica, i cui contributi allo sviluppo di questa scienza sono ancora validi oggi. Partecipò in modo determinante al dibattito sulle scoperte di Galileo e sull’uso del suo cannocchiale, in modo critico all’inizio ma sviluppando la teoria scientifica dello strumento decretando alla fine la piena vittoria del Fiorentino sulle idee del passato. A lui si deve la denominazione di “fuoco”, per il punto in cui converge un fascio di raggi paralleli che attraversi una sfera di vetro, e lo studio della combinazione di più lenti, che lo portò a ideare un cannocchiale che, a differenza di quello di Galileo, fornisce immagini rovesciate.

Il cannocchiale di Keplero pare sia stato costruito da Christoph Scheiner nel 1630, ma la priorità della sua costruzione fu rivendicata dal napoletano Francesco Fontana (1580 ca.-1656), che affermò di esser giunto alla sua realizzazione nel 1608. Ma le sue considerazioni sono contenute in uno scritto apparso solo nel 1645, un po’ tardi per avvalorare il diritto di priorità!

I cannocchiali costruiti da Galileo rimasero i migliori per i venti anni successivi alla pubblicazione del Sidereus Nuncius. La qualità venne rapidamente migliorando raggiungendo livelli molto elevati ad opera del già citato Francesco Fontana, i cui cannocchiali pare suscitassero la gelosia di Torricelli, che aveva ricevuto direttamente dal suo maestro i consigli per la lavorazione delle lenti, che gli avevano consentito di costruire ottimi strumenti. Iniziarono rapidamente a migliorare le tecniche di fabbricazione delle lenti, utilizzando macchine sempre più raffinate e vetro sempre più omogeneo ed esente da bolle d’aria.

Gli occhiali furono senz’altro i primi strumenti a beneficiare di questa rivoluzione tecnologica, che già nella seconda metà del Settecento vedrà l’invenzione degli occhiali bifocali ad opera di Beniamino Franklin (1706 – 1790), uomo politico e scienziato di grande fama. Si dovrà aspettare, però, fino alla metà dell’Ottocento perché la medicina oculistica diventi pienamente l’unico mezzo per determinarne l’uso scientificamente corretto. L’ultimo “grido” in fatto di lenti saranno le lenti a contatto, realizzate nel Novecento.

Ai cannocchiali di Galileo e di Keplero, utilizzati in una grande varietà di strumenti ottici, si aggiunse un secolo dopo il telescopio di Newton, spalancando all’Uomo una finestra sull’Universo che si sarebbe rapidamente ampliata, arrivando in 300 anni a portare il punto di osservazione fuori dalla Terra con i telescopi spaziali.

Telescopio in configurazione Newton utilizzato principalmente per ricerche fotometriche

Telescopio in configurazione Newton utilizzato principalmente per ricerche fotometriche

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Il telescopio spaziale Hubble

Insieme alla possibilità di lanciare lo sguardo molto lontano cominciò a svilupparsi contemporaneamente anche quella di dirigerlo verso oggetti tanto piccoli da dover essere avvicinati a distanze “impossibili” per l’occhio. Si deve forse allo stesso Galileo la costruzione di un “occhialino” per vedere ingrandite le cose piccole, ma si ritiene che i primi efficaci “microscopi semplici”, costituiti cioè da una sola lente, siano stati costruiti da Antoni van Leeuwenhoek (1632-1723).

A differenza di cannocchiali e telescopi, che ebbero un perfezionamento a partire dal Settecento, il microscopio dovette attendere fino all’inizio dell’Ottocento per veder migliorate le sue prestazioni, ma da quel momento il miglioramento fu vertiginoso, fino ad arrivare, nel secolo successivo all’invenzione del microscopio elettronico, che invece della luce utilizza fasci di elettroni, e del microscopio a forza atomica che permette di localizzare le molecole e gli atomi.

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Sezione longitudinale di un apice vegetativo in falsi colori ripresa al microscopio ottico. L’apice appuntito mostra numerose cellule in attiva divisione. Le strutture a mezzaluna sono abbozzi fogliari. I due nuclei tondi ai lati al centro sono primordi di gemme ascellari.

Non si può parlare di sviluppo tecnologico dell’ottica senza considerare un altro strumento di fondamentale importanza anche dal punto di vista sociale: la macchina fotografica.

La si può considerare la pronipote della camera oscura, una stanza buia con un piccolo foro in una parete attraverso il quale la luce va a formare, sulla parete opposta, un’immagine capovolta del paesaggio esterno, che può essere trasferita col disegno su un foglio di carta. Il fenomeno pare fosse noto fin dai tempi di Aristotele, che doveva aver capito che le macchie luminose che si vedono a terra sotto un albero sono le immagini del sole, formate dalla luce che filtra attraverso gli interstizi tra le foglie.

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Lo studio della camera oscura da parte di scienziati arabi ed europei condusse alla realizzazione anche di strumenti portatili, il cui funzionamento fu migliorato inserendo nel foro una lente convessa. Nella prima metà dell’Ottocento l’immagine fu fissata su un supporto mediante un processo chimico (dagherrotipia) e nella seconda metà vennero costruiti i primi apparecchi con pellicola, che diventarono rapidamente le macchine fotografiche che conosciamo. La sostituzione della pellicola con supporti informatici per la registrazione dell’immagine ha aperto la recentissima era della fotografia digitale.

Livio Ruggiero – 2014

Per saperne di più:

  • G. Abetti, Storia dell’Astronomia, Vallecchi 1949
  • V. Ronchi, Galileo e il suo cannocchiale, Boringhieri 1964
  • V. Ronchi, Storia della Luce. Da Euclide a Einstein, Laterza 1983
  • C. Abati, E. Borchi, A. de Cola, Storia dell’Ottica per immagini, Fabiano Editore 1997

10^30 – Domenico Licchelli

Quasi fosse una sorta di mantra da ripetere periodicamente, quando uno scienziato è chiamato ad esprimersi sulle motivazioni che lo hanno spinto a scegliere quel mestiere, è molto probabile che ci si senta rispondere che, all’origine di tutto, c’è stata una qualche forma di Bellezza che l’ha impressionato in un certo momento della sua infanzia o adolescenza. Di solito, questa affermazione lascia alquanto sconcertati, soprattutto in quei casi in cui vengono citati improbabili, così sembra ai non addetti ai lavori, fenomeni fisici, equazioni matematiche e via discorrendo. Finchè non si posseggono i giusti strumenti mentali è, in effetti, difficile riuscire a condividere certi entusiasmi. Tuttavia, madre Natura ha inventato un sistema straordinario per permettere a tutti quantomeno di cominciare a diventare consapevoli dell’eccezionalità dello spettacolo che fluisce initerrottamente sotto ai nostri sensi. Potremmo definirla la Bellezza di scala, ossia quella particolare combinazione di forme, colori, dimensioni, significati profondi, che permea tutto il nostro Universo, a qualunque livello, dall’atomo ai super-ammassi di galassie, passando per gli organismi viventi. 10^30 è circa l’ordine di grandezza che intercorre tra un batterio e l’ammasso di galassie della Vergine. E’ un numero assolutamente folle ed inconcepibile secondo il nostro metro quotidiano, ma diventa comprensibile e perfino gestibile, se ci si dota di una visione scientifica e degli strumenti che la Scienza ha messo a disposizione.

Ciò che faremo in questo blog è proprio un esperimento volto a mostrare per immagini, mentali e fotografiche, la Bellezza che ci circonda, con l’auspicio che possa aprire nuovi orizzonti, a noi che lo elaboriamo ed eseguiamo e a voi che pazientemente ci leggete.

Visione in falsi colori al microscopio elettronico a scansione, della struttura ordinata dei cristalli di Carbonato di Calcio

Visione in falsi colori al microscopio elettronico a scansione, della struttura ordinata dei cristalli di Carbonato di Calcio che compongono le pareti di una Ampullinopsis crassatina, una conchiglia marina estinta che, nonostante la veneranda età (l’esemplare in questione è datato a circa 25 milioni di anni, nel periodo Oligocenico), conserva ancora tracce del colore originario.

Bolle di Ossigeno prodotte da una reazione chimica su un tessuto trattato con Blu di Metilene, viste al microscopio ottico

Bolle di Ossigeno prodotte da una reazione chimica su un tessuto trattato con Blu di Metilene, viste al microscopio ottico. Il fenomeno, apparentemente caotico, si sviluppa, invece, in maniera tale da creare una struttura ordinata e coerente

Cristalli osservati al microscopio ottico in luce polarizzata.

Cristalli osservati al microscopio ottico in luce polarizzata. Le proprietà ondulatorie della luce unite alla struttura tridimensionale dei cristalli generano delle spettacolari iridescenze, variabili per colorazione ed intensità secondo gli angoli di incidenza della luce

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Polline osservato al microscopio ottico. Le dimensioni tipiche sono comprese tra 10 e 100 micron

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Questa sorta di prezioso ricamo è in realtà l’ovatura di un nudibranchio. L’intera struttura, tipicamente di qualche cm al più, può contenere diversi milioni di embrioni

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“Sei brutto come un verme” è un’affermazione decisamente difficile da affibbiare ad un verme marino. L’esemplare qui ritratto è una Protula sp. col suo bel ciuffo branchiale dispiegato, che utilizza sia per respirare che per cibarsi filtrando l’acqua.

 Ophrys passionis var. garganica)

Questo misterioso fiore è una orchidea spontanea (probabilmente una Ophrys passionis var. garganica) ed è una delle 32 specie finora censite nel Salento

cormorani-sunset

Cirri d’alta quota, piccoli fractus e nubi stratiformi incendiate dagli ultimi raggi del Sole fanno da sfondo ad una coppia di cormorani (Phalacrocorax carbo), in volo verso il loro domicilio notturno.

rocky-monster

L’incessante carsismo e l’azione meccanica delle onde scavano la roccia sommersa e modellano animali mitologici nei friabili calcari. Una pletora di organismi marini fanno poi a gara per rivestire la nuda roccia coi colori più vivaci

black-sea STAR TRAIL

Placidamente addormentato come un enorme rettile corazzato coccolato dallo sciabordio delle onde, questo spuntone di roccia calcarea da milioni di anni assiste alle lente rotazioni del cielo sovrastante

Luna Rossa 2001

La Luna, la nostra fedele compagna, qui impreziosita dalle calde tonalità prodotte durante un’eclisse dagli strati alti della nostra atmosfera, quasi a rimarcare il profondo legame che la unisce alla Terra

La Via Lattea nel Cigno

La Via Lattea nel Cigno, una delle zone più spettacolari della nostra galassia. Deneb la stella più luminosa nell’immagine è a circa 2600 anni-luce di distanza. Le intricate volute di gas, principalmente idrogeno, e le spesse nubi di polvere disegnano fantastici paesaggi trapuntati di stelle, molte delle quali arricchite di complessi sistemi planetari

NGC5907ugr

La splendida galassia a spirale NGC5907 vista quasi di taglio, qui ripresa dal Large Binocular Telescope. La luce di questo Universo-isola ha impiegato oltre 50 milioni di anni per raggiungerci. In termini cosmologici siamo ancora dentro al cortile di casa, ma su scala umana è già vertigine pura.

Domenico Licchelli – 2014