T Coronae Borealis (T CrB): un diamante in arrivo nella Corona Boreale – Giulia Malacari & Domenico Licchelli

Ogni notte serena negli ultimi due mesi, all’Osservatorio Astrofisico R.P.Feynman così come in centinaia di altri Osservatori simili in giro per il mondo, si tiene d’occhio una piccola porzione di cielo nella costellazione della Corona Boreale nella speranza di assistere ad uno degli eventi più violenti e spettacolari dell’universo, l’esplosione di una “nova” ossia l’apparizione inaspettata di una nuova stella fissa (per distinguerla da pianeti e comete) invisibile fino a quel momento senza strumenti adeguati, che può raggiungere tutto ad un tratto un’eccezionale luminosità, tanto da diventare visibile ad occhio nudo, per poi svanire nuovamente alla vista dopo un certo periodo di tempo.

Le novae sono un fenomeno poco frequente nel cielo, perchè di solito non raggiungono luminosità tali da essere facilmente avvistabili ad occhio nudo. Solo negli ultimi anni grazie a specifici programmi osservativi è stato possibile identificarne un numero consistente. Il catalogo compilato da Bill Gray ne annovera 556 a partire dal 76 a.c. fino ad oggi (Settembre 2024). Dal punto di vista osservativo, una nova classica è un’esplosione stellare caratterizzata da un rapido aumento verso la massima luminosità in un lasso di tempo che va da poche ore a qualche giorno, un’ampiezza elevata nell’ottico (8 ≤ Δmag ≤ 16), un’eiezione di massa espulsa ad alta velocità (valori tipici che vanno da alcune centinaia a diverse migliaia di km/sec, come indicato dalle linee di emissione molto ampie e/o dalle componenti di assorbimento largamente spostate verso il blu nei profili di tipo P Cyg ben visibili negli spettri, come vedremo meglio in seguito), spettri ottici post-massimo che evolvono verso un grado di eccitazione e di ionizzazione crescenti, e condizioni nebulari che prevalgono di solito durante le fasi più avanzate del declino della luminosità come dimostrano le righe di emissione proibite che dominano gli spettri. 

La stella in questione, T Coronae Borealis, o T CrB, promette di dare spettacolo e di aggiungere un nuovo diamante in quella regione di cielo compresa tra Arturo e Vega. Al massimo della luminosità infatti, apparirà circa luminosa quanto la Stella Polare anche se sarà visibile solo per pochi giorni prima di svanire nuovamente nell’oscurità.

Le costellazioni estive sono ben visibili in questa ripresa all-sky. La Costellazione della Corona Boreale è evidenziata dal cerchio rosso

T CrB è, infatti, una nova ricorrente con un ciclo di circa 80 anni. Le precedenti esplosioni documentate con dovizia sono avvenute il 12 maggio 1866 e il 9 febbraio 1946, ma la prima osservazione registrata della nova risale a più di 800 anni fa, all’autunno del 1217, quando un uomo di nome Burchard, abate di Ursberg, in Germania, annotò di aver osservato “una stella flebile che per un certo tempo brillava con grande luce” in quella stessa regione di cielo.

La costellazione della Corona Boreale. La stella progenitrice della futura nova è all’interno del cerchio rosso

Ma cosa ha spinto gli astrofisici ad allertare la comunità scientifica ed a sostenere che uno di questi giorni l’evento si ripeterà? Come spesso avviene per questioni astrofisiche si è studiato cosa è avvenuto in passato. Il suo comportamento nell’ultimo decennio sembra sorprendentemente simile a quello osservato nel periodo che precedette l’eruzione del 1946. In particolare, si è notato che prima di diventare una nova la stella si affievolisce per circa un anno. T CrB ha iniziato ad indebolirsi a marzo del 2023, per cui ci si aspetta che  la prossima esplosione possa avvenire entro la fine di Settembre 2024 (stima più ottimistica) o al più entro qualche mese. A rigore, per il compimento degli 80 anni bisognerebbe aspettare il 2026 ma l’incertezza in questo genere di eventi è sempre grande per cui è opportuno monitorarla già da adesso.

Andamento della curva di luce di T CrB. E’ evidente la diminuzione soprattutto in banda B da Marzo 2023

T Coronae Borealis, soprannominata “Blaze Star” è in realtà un sistema binario situato a circa 3.000 anni luce da noi, composto da una nana bianca, un relitto cosmico delle dimensioni della Terra di una stella morta che possedeva una massa comparabile a quella del nostro Sole, e da un’antica gigante rossa che viene lentamente privata dell’idrogeno degli strati più esterni dall’incessante attrazione gravitazionale della sua vicina affamata. Per centinaia e/o migliaia di anni il materiale perso dalla compagna fluisce attraverso il lobo di Roche e forma un disco di accrescimento prima di terminare il suo viaggio accumulandosi sulla superficie della nana bianca (ad eccezione delle cosiddette polar in cui l’intensità del campo magnetico presente è tale che la formazione di un disco di accrescimento è impedita e il materiale fluisce direttamente sulla nana bianca attraverso i poli magnetici). Il disco di accrescimento è soggetto a instabilità che causano fasi brillanti regolari e a bassa ampiezza chiamate eruzioni di tipo cataclismico. L’esplosione come nova avviene, invece, quando il materiale accumulato sulla superficie della nana bianca, genera un aumento di pressione e temperatura tale da innescare un’esplosione termonucleare sufficientemente potente da farlo esplodere e disperderlo nello spazio.

Nel video seguente una gigante rossa ed una nana bianca orbitano l’una attorno all’altra fino a generare una nova simile a T Coronae Borealis. La gigante rossa è la grande sfera in tonalità di rosso, arancione e bianco, con il lato rivolto verso la nana bianca nelle tonalità più chiare. La nana bianca è nascosta in un brillante bagliore bianco e giallo che rappresenta un disco di accrescimento attorno alla stella. Un flusso di materiale, mostrato come una nube diffusa di rosso, scorre dalla gigante rossa alla nana bianca. Quando la gigante rossa si muove dietro la nana bianca, un’esplosione sulla nana bianca si innesca, creando una bolla di materiale espulso dalla nova mostrata in un pallido arancione. Dopo che la nebbia si dirada, rimane un piccolo punto bianco, indicando che la nana bianca è sopravvissuta all’esplosione. (NASA/Goddard Space Flight Center)

 

A differenza dell’evento di supernova, un’esplosione finale e titanica che distrugge le stelle morenti di grande massa, nel caso della nova, la nana bianca rimane intatta e può nuovamente ricominciare ad accumulare materiale sulla superficie. Il ciclo si ripete periodicamente nel tempo, un processo che può durare da decine fino a centinaia di migliaia di anni.

Ci sono altre novae ricorrenti con cicli molto brevi come RS Ophiuchi e U Scorpii , ma ciò che rende speciale T CrB è il fatto di essere relativamente vicina al nostro Sistema Solare. Anche se ci vogliono 3.000 anni perché la sua luce raggiunga la Terra, il che significa che l’esplosione a cui assisteremo è avvenuta in realtà prima che venisse costruita l’ultima delle piramidi egizie, si tratta di una distanza modesta su scala cosmica, il che permetterà di studiare l’evento con tutta la schiera possibile di strumenti astronomici, dalle migliaia di telescopi di non professionisti, che già conducono ricerche scientifiche a vario titolo, al Telescopio Spaziale Fermi per i raggi gamma, al Telescopio Spaziale James Webb della NASA, l’Osservatorio Neil Gehrels Swift, IXPE (Imaging X-ray Polarimetry Explorer), il NuSTAR (Nuclear Spectroscopic Telescope Array), il NICER (Neutron star Interior Composition Explorer) e l’INTEGRAL dell’Agenzia Spaziale Europea (Extreme Universe Surveyor),  e numerosi telescopi radio e ottici a terra, incluso il Very Large Array dell’Osservatorio Nazionale di Radioastronomia nel New Mexico. L’obiettivo è quello di acquisire quanti più dati possibile attraverso tutto lo spettro elettromagnetico. I professionisti osserveranno l’evento principalmente al suo picco e durante il suo declino, mentre l’energia visibile dell’esplosione svanisce, ma è altrettanto critico ottenere dati durante la fase iniziale di crescita fino all’eruzione, dati che con buona probabilità saranno acquisiti proprio dai non professionisti che nei loro Osservatori possono permettersi il lusso di osservare la stella ad libitum, anche per mesi se necessario, cosa del tutto impossibile per qualunque Osservatorio professionale. Questo consente loro di raccogliere molti dati. E con centinaia di Osservatori disseminati in tutto il mondo, si può ottenere una copertura quasi continua della Blaze Star.

Dal punto di vista fotometrico, dopo la rapida ascesa iniziale che può durare solo poche ore in novae molto veloci come U Sco, ed un breve stop, la nova raggiunge la fase di massima luminosità ottica che è seguita da un immediato declino verso la quiescenza, caratterizzato di solito da due fasi, una più rapida, quando i materiali espulsi sono ancora otticamente spessi e quindi la sorgente centrale non può essere vista dall’esterno, fase che dura fino a quando la nova è scesa di 3-4 magnitudini rispetto al massimo, e poi una più lenta, quando i materiali espulsi sono esposti direttamente alla potente radiazione ionizzante emanata dalla stella centrale e diventano otticamente sottili finchè quest’ultima è visibile dall’esterno. Il momento in cui avviene la transizione da condizioni otticamente spesse a condizioni otticamente sottili nei materiali espulsi segna anche, in alcune novae, l’inizio di eventi transitori che perturbano un declino altrimenti regolare, sia per la formazione di polvere che per oscillazioni semi-periodiche. I granuli di polvere possono formarsi nei materiali espulsi, e l’oscuramento risultante generato dalla polvere può ridurre di diverse magnitudini la luminosità della nova. Dopo che è stato raggiunto un massimo di assorbimento, l’oscuramento da polvere si riduce progressivamente e, dopo un po’, la nova riprende l’andamento declinante che avrebbe seguito in assenza di formazione di polvere. La diluizione dei granuli di polvere causata dall’espansione continua dei materiali espulsi è la principale ragione della fine della fase di oscuramento. La radiazione assorbita nell’ottico riscalda i granuli di polvere che la riemettono a lunghezze d’onda più lunghe, e la nova appare diverse magnitudini più luminosa a lunghezze d’onda infrarosse. Da qui l’importanza di monitorare l’andamento ove possibile nelle bande B, V, R, I e similari, in particolare con i filtri SLOAN e Stromgren. A questo proposito, infatti, è opportuno ricordare che se un osservatore fornisce solo pochi punti fotometrici, è necessario combinare i dati di diversi osservatori per ricostruire l’intera curva di luce di una nova. Tuttavia, la dispersione dei punti in una curva di luce combinata può essere così ampia (fino ad 1 magnitudine nei casi peggiori) che i dettagli vengono sfuocati e diventano pressochè irrecuperabili. Questo accade perché, durante il declino, il flusso di una nova è principalmente concentrato in poche righe di emissione. Due filtri fotometrici in teoria quasi identici, possono produrre dati molto diversi se uno include una forte riga di emissione e l’altro no nella sua banda passante. Questo comportamento avviene frequentemente con il filtro V, il cui ripido bordo di trasmissione sul lato blu coincide con il doppietto [OIII] 4959, 5007, che è di solito la riga di emissione più intensa durante la fase nebulare. Per evitare le righe di emissione più forti ed ottenere una misura significativa del vero continuo sottostante, si potrebbero utilizzare, in aggiunta ai filtri standard Johnson B e V, i filtri Stromgren b e y, la cui banda passante è più stretta ed esclude le principali righe di emissione. Se si dispone di un solo filtro, è opportuno che l’osservatore resti concentrato sulla nova il più a lungo possibile e con lo stesso setup fotometrico durante tutta la campagna osservativa. Così facendo i dati raccolti saranno autoconsistenti, permettendo di evidenziare tutti i dettagli più fini della curva di luce senza doverli combinare con dati esterni.

Animazione della regione di cielo centrata sulla Nova V339 Del, prima e dopo la sua comparsa

Curva di luce della Nova Delphini 2013, dati AAVSO

Dal punto di vista spettroscopico l’evoluzione spettrale delle novae è fondamentalmente guidata da due parametri fisici: la densità di massa dei materiali espulsi e la loro velocità di espansione. Lo spettro di una nova attorno al massimo e all’inizio del declino può essere di tipo FeII o He/N. Una nova di tipo FeII mostra, oltre alle righe di emissione di Balmer dell’idrogeno, molte righe di emissione permesse del FeII, mentre una nova di tipo He/N, oltre alle linee di Balmer, presenta righe di emissione di Elio e Azoto, ma non di FeII. La classificazione iniziale dello spettro di una nova, che può essere acquisito anche con strumentazione amatoriale se raggiunge magnitudini sufficientemente elevate, è cruciale poiché determina il comportamento che ci si può aspettare per la sua evoluzione futura. Rispetto alle novae di tipo FeII, quelle di tipo He/N tendono a declinare più rapidamente, presentano velocità di espansione maggiori, quindi righe di emissione più ampie e rilasciano una quantità di massa inferiore. Le novae di tipo FeII sembrano appartenere a una popolazione stellare più antica, concentrata principalmente verso il bulge della Galassia, mentre le novae di tipo He/N mostrano una distribuzione meno concentrata verso il centro galattico, risultando più diffuse lungo il disco, il che suggerisce una popolazione stellare parentale più giovane e nane bianche di massa maggiore.

Nello spettro si distinguono le seguenti fasi principali:

  1. Initial rise – Pre-maximum spectrum: si riferisce all’espansione libera adiabatica degli ejecta che si stanno raffreddando rapidamente. Questa fase è anche chiamata “hot fireball spectrum” ed è osservata molto raramente perché implica che si riesca a scoprire la nova durante la sua ascesa al massimo, che normalmente è un processo rapido che dura da poche ore a pochi giorni e che ci sia la disponibilità immediata di tempo telescopico presso un Osservatorio, due condizioni che non si verificano frequentemente. Alcune novae mostrano un cosiddetto pre-halt maximum nella curva di luce, caratterizzato da colori più blu, che anticipa l’ascesa finale alla massima luminosità. Questa caratteristica nella curva di luce è stata catturata in pochissime novae, come T Pyx e V1974 Cyg. Le linee di Balmer e non-Balmer sono caratterizzate da alte velocità di espansione  dell’ordine dei 2000-3000 km/s se misurate dal minimo dei rispettivi profili P Cygni. Queste caratteristiche sono prodotte durante l’espansione iniziale dell’involucro otticamente spesso espulso dalla nova.
  2. Maximum light – Principal spectrum: questa fase corrisponde all’ascesa alla massima luminosità nelle magnitudini V ed R e ad una contemporanea diminuzione della luminosità a lunghezze d’onda blu e UV. Questo è il momento in cui il fireball raggiunge la temperatura critica di raffreddamento, la pseudo-fotosfera inizia a ritirarsi e lo spettro è dominato dall’emissione free-free da plasma più rarefatto al di fuori della fotosfera. Di conseguenza, gli ejecta della nova agiscono ora come un mezzo passivo, convertendo il flusso UV in emissione a lunghezze d’onda più lunghe e mostrando quindi transizioni a bassa ionizzazione negli spettri, come quelle del gruppo FeII (da cui il nome “iron curtain”), del doppietto della linea D del Sodio e del CaII. Queste linee sono affiancate da ampi profili P Cygni con velocità spostate verso il blu generalmente inferiori a quelle osservate durante la fase del fireball.
  3. Orion Spectrum: Verso la fine della prima fase del declino e all’inizio della fase di transizione da condizioni otticamente spesse a condizioni otticamente sottili, appare un altro sistema spettrale, il cosiddetto Orion Spectrum. Gli spettri ottici mostrano ora caratteristiche dovute a righe ad alta ionizzazione (HeI, OII, NII) e le righe CIII/NIII della  banda a 4640 di Bowen. La loro apparizione nello spettro è dovuta alla bassa densità degli ejecta combinata con l’intenso flusso UV. Man mano che la densità diminuisce ulteriormente, lo spettro sviluppa righe nebulari che aumentano la loro luminosità nel tempo. Durante questa fase, i sistemi di assorbimento scompaiono.
  4. Nebular Phase: L’aumento del flusso di HeII segna la fine della fase otticamente spessa e l’inizio della fase nebulare, seguita dall’aumento della luminosità delle transizioni proibite a lunghezze d’onda ottiche dell’Ossigeno [OIII] a 4363 e 4959, 5007, rispettivamente, e dell’Azoto [NII] 5755, 6548, 6584. Le osservazioni spettroscopiche ottenute durante la fase nebulare, quando gli ejecta sono otticamente sottili, sono utili per studiare la struttura geometrica e di ionizzazione degli ejecta. In questa fase il picco dell’emissione si sposta verso lunghezze d’onda UV e infine verso i raggi X.
  5. Post-Nova Spectrum: Infine, pochi anni dopo l’esplosione, l’oggetto sviluppa lo spettro post-nova, caratterizzato dalla graduale scomparsa delle righe coronali e proibite a causa della diminuzione del livello di ionizzazione. Le righe di emissione residue rimangono forti o almeno ancora rilevabili, ad esempio NIII a 4640 A e la riga di emissione HeII 4686 originata dal disco di accrescimento attorno alla nana bianca.

Spettro della Nova Monocerotis 2012 di tipo He/N

Spettro della Nova Del 2013 (V339 Delphini) di tipo FeII, pochi giorni dopo la sua comparsa in cielo. Da notare per esempio l’evidente profilo P Cygni della riga Halpha a 6563 A dell’Idrogeno

Evoluzione dello spettro della Nova Delphini 2013, dopo 20 giorni dalla sua comparsa

Ulteriore evoluzione della Nova Delphini 2013, 45 giorni dopo la sua comparsa

La spettacolare evoluzione dello spettro della Nova Delphini 2013

Tornando alla nostra amica T CrB, in basso è riportato uno spettro acquisito una decina di anni fa che è sostanzialmente quello di una stella di tipo M3III, molto diverso da quello dell’altra nova ricorrente RS Ophiuchi.

Lo spettro di T CrB in una fase di quiescenza acquisito poco più di 10 anni fa
Lo spettro dell’altra nova ricorrente Rs Oph nel 2014 è molto diverso

Già nel 2015 lo spettro era però molto cambiato. Le modifiche più evidenti sono l’intensità senza precedenti raggiunta da HeII 4686 (superiore a Hγ), l’alta intensità delle righe di OIII e NIII coinvolte nel meccanismo di fluorescenza di Bowen, e l’apparizione di righe ad alta ionizzazione come [NeV] 3427, il tutto sopra un marcato continuo nebulare e di Balmer. (si veda: The 2015 super-active state of recurrent nova T CrB and the long term evolution after the 1946 outburst di Munari et al.).

Sembrerebbe quindi che il palcoscenico sia pronto per una nuova spettacolare entrata in scena di T CrB e non è detto che non siate proprio voi a coglierla nel momento in cui deciderà di impreziosire con una nuova gemma il nostro cielo.

Colori e Temperature delle Stelle – Domenico Licchelli e Francesco Strafella



Entrando in una stanza scarsamente illuminata ognuno di noi si accorge di una istantanea perdita di sensibilità visiva. La spiegazione di questo fenomeno sta nella struttura dell’occhio umano. Quando la radiazione luminosa arriva sulla retina stimola le terminazioni nervose in essa contenute: i CONI e BASTONCELLI.
I Coni, i quali sono maggiormente concentrati in una zona centrale della retina (detta, Fovea), operano solo in presenza di alti livelli d’illuminazione. Essi inoltre consentono di discriminare i colori e di avere una buona risoluzione dei dettagli.
I Bastoncelli sono la stragrande maggioranza di recettori luminosi presenti nella retina, circa 120 milioni contro i 7 dei coni, e si trovano soprattutto in periferia. Essi operano in condizioni di bassa luminosità e sono insensibili ai colori; per questo motivo nel caso in cui si è in ambiente scotopico (scarsamente illuminato) l’occhio umano non percepisce i colori ma solo sfumature di grigio.
Da questo si capisce che in visione notturna il nostro sistema visivo può fare affidamento solo sui bastoncelli. Questi ultimi per un completo adattamento a condizioni di bassa illuminazione necessitano in genere di un periodo compreso tra i 45 e i 60 minuti.
Trascorso questo intervallo, con il sistema completamente adattato si può notare che:
• La visibilità degli oggetti è maggiore nella zona centrale che in quella periferica del campo visivo questo perché la minima distanza angolare per distinguere separati due oggetti è rappresentata dalla stimolazione di almeno tre campi recettivi. Nella zona centrale della retina i campi recettivi sono formati da un solo fotorecettore, perciò stimolando due coni e lasciando un terzo non stimolato si potrebbe distinguere due oggetti separati. In caso di visione notturna la massima sensibilità si ha nei campi recettivi perifèrici, che però sono molto grandi (formati anche da milioni di bastoncelli) quindi il potere risolutivo è notevolmente più basso
• I colori sono percepiti solo come diverse tonalità di grigio in quanto i bastoncelli (fotorecettori deputati alla visione notturna ) sono insensibili ai colori. Quando l’occhio si è adattato all’oscurità , la sensibilità massima si sposta verso lunghezze d’onda più corte. Mentre i 555 nanometri della visione fotopica corrispondono al colore giallo-verde, i 510 della visione scotopica corrispondono al blu-verde. Al diminuire della luminosità generale dell’ambiente l’occhio perde la sensibilità per le tonalità del rosso e però distingue ancora bene i verdi, gli azzurri e i blu. Al calare delle tenebre , secondo il tipico comportamento dell’occhio umano chiamato “effetto Purkinje”, il rosso appare nero, mentre il verde mantiene ancora la sua cromaticità.
La sensibilità dell’occhio umano in visione notturna è influenzata da diversi fattori quali:
• Età: in genere la visione notturna dei giovani è più acuta di quella degli anziani
• Dieta: una alimentazione ricca di vitamina A migliora la visione crepuscolare, in quanto si comporta da enzima nella produzione di rodopsina.
• Condizioni fisiche: l’adattamento è favorito da buone condizioni di salute generale e in particolare dallo stato di salute dell’occhio
• Ereditarietà: un singolo gene può trasmettere una buona o cattiva capacità d’adattamento

Come si traduce tutto ciò nell’osservazione delle stelle? Ad occhio nudo si riesce a distinguere abbastanza bene il colore di pochissime stelle, le più luminose e generalmente di colore rosso, arancio o giallo. Quelle blu le percepiamo come bianche con qualche sfumatura sull’azzurro. In realtà molto dipende dalla trasparenza del cielo, dal tasso di umidità e dalla presenza di polveri in atmosfera. Quest’ultima componente, in particolare, tende a diventare dominante sotto cieli cittadini e/o vicini ad impianti industriali. In questo caso si assiste ad un generale arrossamento, come avviene per esempio col sole al tramonto.
Passando all’osservazione con telescopi più o meno potenti, riusciamo ad apprezzare meglio i colori ma subentrano alcuni effetti, ottici e di elaborazione del cervello, che possono fuorviare. Se lo strumento non è perfettamente apocromatico (dall’ottica principale agli oculari), il colore è fortemente influenzato dallo spettro secondario, generalmente blu-viola che rende difficile valutare il reale colore della stella. Osservando stelle doppie strette, a tutto ciò si aggiunge un eccessivo “zelo” del cervello che tende a farci vedere la compagna, solitamente un po’ più debole, del colore complementare, anche se per esempio la stella è in realtà bianca (principale gialla, secondaria blu, oppure rossa-verdastra etc.). Come si fa quindi a capire il vero colore della stella?

Breve digressione sui colori dell’arcobaleno

Molte informazioni sulla natura di una sorgente luminosa sono codificate nel cosiddetto “spettro” della luce che, nel caso del Sole, possiamo vedere anche ad occhio nudo quando osserviamo il fenomeno dell’arcobaleno che dimostra in maniera evidente che la luce del Sole, che a noi appare di un unico colore bianco, nelle particolari condizioni che si verificano dopo un temporale, quando ci sono ancora goccioline d’acqua in sospensione in atmosfera ed il Sole è basso, si può scomporre nelle sue componenti che si mostrano come una sequenza di archi contigui proiettati in cielo con colori ed intensità diversi.

Genesi dell’arcobaleno – Cortesia Livio Ruggiero

Alaska. Denali NP. Alaska Range. Rainbow above Muldrow Glacier.

Un fenomeno simile lo possiamo osservare anche se facciamo passare la luce di una lampada ad incandescenza attraverso un prisma: dopo l’attraversamento del prisma la luce bianca, inizialmente collimata in un sottile fascio, uscirà scomposta nelle sue componenti in direzioni diverse e con colori diversi. Un modo per capire cosa succede è di pensare che la nostra lampada in realtà emette una luce che è una mescolanza di radiazioni di vari colori. Nel suo passaggio attraverso il prisma le differenze tra vari colori si evidenziano perché la radiazione, entrando nel prisma, viene rifratta (come fosse “piegata”) ad angoli diversi a seconda della lunghezza d’onda, ovvero a seconda del colore. All’uscita dal prisma si noterà che la radiazione blu viene “piegata” più della rossa in modo che i vari colori emergano ad angoli diversi formando così una specie di arcobaleno.

Rifrazione di un fascio di luce bianca con un prisma

Notiamo ora che abbiamo introdotto il termine “lunghezza d’onda” in associazione al “colore della luce” e quindi abbiamo implicitamente adottato l’idea che la nostra percezione del colore sia legata alla lunghezza d’onda della radiazione o, meglio, alla combinazione di radiazioni di diversa lunghezza d’onda che mescolandosi compongono la luce emessa da una sorgente luminosa.

Siamo più pronti ora ad usare l’espressione “spettro della luce” per indicare la sequenza di intensità e di lunghezze d’onda (e quindi di colori) emesse da una data sorgente luminosa, tenendo presente che le lunghezze d’onda delle radiazioni che producono un colore blu sono tipicamente più piccole di quelle che invece producono il rosso.

Oltre che a scaldare e fornire energia, quale altra informazione porta con sé la luce del Sole?

Per rispondere a questa domanda ci può guidare un’analogia con un pezzo di ferro scaldato da un fabbro: osserviamo che all’aumentare della temperatura il colore del metallo ci appare prima nero, poi rosso, giallo ed infine, alla temperatura più alta, diventa bianco. Il fabbro può usare allora il colore come un termometro per valutare la temperatura del metallo, cosa che effettivamente fa.

Possiamo ripetere questa esperienza in casa osservando come cambia il colore del filamento di una lampada a luminosità variabile. Ci rendiamo conto facilmente che la luce è minima quando il filamento è più freddo e rosso, mentre aumenta man mano che il filamento si riscalda e tende al colore bianco.

Date queste osservazioni possiamo fare due considerazioni:

  1. un corpo emette più radiazione quando è caldo rispetto a quando è freddo;

  1. un corpo caldo appare più bianco di uno freddo, che invece tende più al rosso.

Siccome le stelle sono corpi caldi che emettono luce con modalità analoghe a quelle del filamento della nostra lampada, useremo le considerazioni fatte poc’anzi per dire che il colore delle stelle può essere usato come indicatore della temperatura di superficie, cioè della regione da cui proviene la luce stellare. Assumendo che le stelle si comportino come corpi neri, il massimo della loro emissione, e quindi il loro colore, è funzione della temperatura (Legge di Wien), così come le righe degli elementi presenti, facilmente individuabili proprio con lo spettroscopio.



Spettri di emissione del corpo nero a diverse temperature. Si nota come al crescere di T il massimo di emissione si sposta verso le lunghezze d’onda inferiori, ossia verso il blu, come previsto dalla Legge di Wien (lambdamax*T = costante)

Come valutare la temperatura misurando il colore

Dalle precedenti osservazioni potremmo già dire che le stelle blu hanno superfici più calde delle stelle rosse, ma per passare all’effettiva valutazione della temperatura delle superfici bisogna fare ancora un passo in più. Per questo abbiamo bisogno di riprendere il concetto di “spettro della radiazione” che abbiamo introdotto a proposito della luce dell’arcobaleno e che misura l’andamento della intensità dell’emissione (la brillanza) al cambiare della lunghezza d’onda (il colore).

Nella figura seguente sono rappresentati gli spettri emessi da una sorgente a tre temperature diverse; si nota che, se misuriamo le intensità a due diverse lunghezze d’onda, troviamo valori differenti al variare della temperatura dello spettro. In altre parole il rapporto delle intensità della luce a due diverse lunghezze d’onda cambia al cambiare della temperatura e quindi è una quantità che può essere utilizzata per ricavare la temperatura quando non possiamo porre un termometro a contatto con la nostra sorgente luminosa ma ne possiamo solo osservare lo spettro.

Grafico esplicativo del concetto di Temperatura di colore. Per chiarire le differenze con la Fig.1 precedente si noti che, per evidenziare meglio il comportamento dello spettro al variare della temperatura, abbiamo usato scale logaritmiche. Inoltre le lunghezze d’onda sono state espresse come frequenze usando la relazione: lunghezza d’onda x frequenza = velocità della luce.

Il gioco è fatto: basandoci sull’esperienza acquisita studiando il comportamento della luce di una piccola sorgente nei nostri laboratori abbiamo individuato un metodo applicabile alla luce in generale, e quindi anche alla luce proveniente dalle stelle. Possiamo quindi dire di poter valutare le temperature delle superfici stellari misurando la brillanza di una stella a due diverse lunghezze d’onda della luce, evitando in questo modo di fare un viaggio fino alla stella per mettere un termometro a contatto con la sua superficie! Le temperature valutate con il metodo appena descritto vengono indicate spesso con il nome di “temperature di colore”.

Operativamente si utilizza la fotometria per misurare l’intensità della luce che passa attraverso diversi filtri. Ciascun filtro consente il passaggio solo di una parte specifica dello spettro della luce, respingendo tutte le altre. Un sistema fotometrico ampiamente utilizzato è chiamato sistema Johnson-Cousin UBVRI. Impiega filtri passa banda: U (“Ultravioletto”), B (“Blu”), V (“Visibile”), R (Rosso) e I (infrarosso); ciascuno seleziona diverse regioni dello spettro elettromagnetico.

Il processo di fotometria UBVRI prevede l’utilizzo di dispositivi sensibili alla luce come i CCD accoppiati ad un telescopio puntato verso una stella di cui si misura l’intensità della luce che passa attraverso ciascuno dei filtri individualmente. Questa procedura, per esempio con i filtri UBV, fornisce tre luminosità o flussi apparenti (quantità di energia per cm2 al secondo) designati da Fu, Fb e Fv. Il rapporto dei flussi Fu/Fb e Fb/Fv è una misura quantitativa del “colore” della stella, e questi rapporti possono essere usati per stabilire una scala di temperatura per le stelle. In generale, quanto più grandi sono i rapporti Fu/Fb e Fb/Fv di una stella, tanto più calda è la sua temperatura superficiale.

Imaged from ESO’s La Silla Observatory, this photograph brilliantly captures the full Orion constellation and arcs of gas and dust weaving through the constellation. Just to the left of the the Hunter’s three-star belt is the bright Orion Nebula, one of the most well known star-forming regions.

Ad esempio, Bellatrix in Orione ha Fb/Fv = 1,22, indicando che è più luminosa attraverso il filtro B che attraverso il filtro V. inoltre il suo rapporto Fu/Fb è 2,22, quindi risulta più luminoso attraverso il filtro U. Ciò indica che la stella deve essere davvero molto calda, poiché la posizione del suo picco spettrale deve trovarsi da qualche parte nella banda spettrale del filtro U, o ad una lunghezza d’onda ancora più corta. La temperatura superficiale di Bellatrix (determinata confrontando il suo spettro con modelli dettagliati che tengono conto delle sue linee di assorbimento) è di circa 25.000 Kelvin.

Possiamo ripetere questa analisi per Betelgeuse. I suoi rapporti Fb/Fv e Fu/Fb sono rispettivamente 0,15 e 0,18, quindi è più luminosa in V e più fioca in U. Quindi, il picco spettrale di Betelgeuse deve trovarsi da qualche parte nella banda spettrale del filtro V, o ad un valore maggiore di lunghezza d’onda. La temperatura superficiale di Betelgeuse è di soli 2.400 Kelvin.

Gli astronomi preferiscono esprimere i colori delle stelle in termini di differenza di magnitudine, piuttosto che di rapporto di flussi. Pertanto, tornando alla blu Bellatrix abbiamo un indice di colore pari a

B – V = -2,5 log (Fb/Fv) = -2,5 log (1,22) = -0,22,

Allo stesso modo, l’indice di colore per la rossa Betelgeuse è

B – V = -2,5 log (Fb/Fv) = -2,5 log (0,18) = 1,85

Gli indici di colore, come la scala delle magnitudini, vanno all’indietro. Le stelle calde e blu hanno valori B-V più piccoli e negativi rispetto alle stelle più fredde e rosse.

Un astronomo può quindi utilizzare gli indici di colore di una stella, dopo aver corretto l’arrossamento e l’estinzione interstellare, per ottenere una temperatura accurata di quella stella.

Il Sole con una temperatura superficiale di 5.800 K ha un indice BV di 0,62.

Domenico Licchelli e Francesco Strafella

I segreti della luce degli asteroidi – IYL2015 – Domenico Licchelli

Un mucchio di sassi rotanti disseminati nello spazio tra Marte e Giove, laddove sarebbe stato meglio che ci fosse un bel pianeta. Punti luminosi con la pessima abitudine di rovinare le fotografie a lunga posa con le loro tracce, senza peraltro fornire alcuna utile informazione, a parte l’evidente e fastidioso segno del loro percorso in cielo. Questo sono stati considerati per lungo tempo gli asteroidi, corpi celesti troppo poco interessanti per giustificare importanti programmi di ricerca loro dedicati.

Comparative imagery of nine asteroids. With a diameter of about 330 miles (530 kilometers), Vesta dwarfs all of these small bodies. Many scientists think it's a protoplanet left over from the solar system's first few million years. Credit: NASA/JPL-Caltech/JAXA/ESA

Comparative imagery of nine asteroids. With a diameter of about 330 miles (530 kilometers), Vesta dwarfs all of these small bodies. Many scientists think it’s a protoplanet left over from the solar system’s first few million years.
Credit: NASA/JPL-Caltech/JAXA/ESA

Negli ultimi decenni ci si è resi conto che si trattava, invece, di tasselli fondamentali per capire l’origine del nostro Sistema Solare e, in ultima istanza, di noi stessi. Perché una rivoluzione così radicale potesse avvenire, erano però necessarie idee molto forti, di quelle che in qualche modo segnano un prima e un dopo. Nel caso in questione si è trattato di due distinte prese di coscienza, legate rispettivamente alla vita e alla morte, una sorta di Eros e Thanatos su scala planetaria.

Da sempre l’uomo si chiede quale sia stata l’origine dell’Universo. Alcuni secoli di ricerche scientifiche non hanno ancora fornito risposte definitive, ammesso che ciò sia possibile. Tuttavia, hanno permesso di definire con sufficiente grado di precisione le caratteristiche principali del grande affresco cosmico. Restano però bisognose di ulteriori ed approfondite indagini alcune questioni cruciali, una delle quali ci interessa direttamente. Come si è formato il Sistema Solare ed in particolare il bel pianeta blu che ci ospita? Si potrebbe pensare che per venirne a capo, basti studiare in maniera accurata lo straordinario campionario di strutture geologiche disseminate sul globo terracqueo, la sua correlazione con le immani forze che ancora oggi agiscono all’interno del pianeta e l’interazione con gli elementi atmosferici e marini che ne hanno modellato il paesaggio per miliardi di anni. Tutto ciò è molto sensato, ed in effetti è quanto tentano di fare, con ottimi risultati, schiere di geologi, oceanografi e meteorologi. Ma la descrizione, per quanto dettagliata, deve inevitabilmente arrestarsi davanti ad una sorta di piccolo orizzonte degli eventi terrestre, costituito dal momento in cui l’intero pianeta era poco più di una massa fusa in continua trasformazione. All’interno dell’immensa sfera infuocata, sconvolgimenti di straordinaria potenza rimescolavano da cima a fondo tutta la materia, facendo così perdere quasi completamente le informazioni riguardanti il materiale primigenio da cui tutto aveva preso forma. Fine della storia e delle nostre ricerche? Fortunatamente no.

Un raffinato lampadario di vetro di Murano ci dice poco della sua origine, ma se guardandoci attorno troviamo pezzi di vetro semifuso, una fornace ancora accesa, un mucchietto di silice ed un pizzico di soda in un sacchetto, forse possiamo ancora ricostruire la sequenza delle trasformazioni che l’hanno portato ad essere quel che è. Su scala planetaria, il mucchietto di sabbia con i resti di fusione è rappresentato dagli asteroidi e dalle comete, corpi le cui caratteristiche chimiche e isotopiche sono state poco o punto modificate da processi di differenziazione e di evoluzione termica su larga scala e che conservano ancora oggi al loro interno preziosissime informazioni relative alla composizione della nebulosa primordiale. Avanzi, certo, di uno dei più straordinari processi di costruzione di nuovi mondi che si possa immaginare, ma al contempo, preziosi scrigni ricolmi di gioielli e, secondo alcuni, perfino diretti portatori della vita sulla Terra, un gesto degno di un magnifico Eros cosmico.

E Thanatos? In una notte calma e senza vento dirigiamo il nostro fidato telescopio verso il primo quarto di luna. Nell’oculare balza subito all’occhio il grande bacino circolare del Mare Serenitatis interamente ricoperto di lava, nonostante i quasi 700 km di diametro.

Luna_08_08_08In direzione opposta, verso il polo sud lunare, un’incredibile selva di crateri di tutte le dimensioni ricopre completamente la regione. Aumentando gli ingrandimenti, anche quelle zone che in precedenza sembravano lisce, si rivelano essere una moltitudine di piccoli crateri addossati gli uni agli altri. I più antichi sono stati quasi del tutto demoliti dai nuovi arrivati che hanno saturato completamente ogni spazio disponibile, distruggendo gli originali terrazzamenti e riempiendo a forza le platee, quasi vigesse una sorta di horror vacui che richiama alla mente certe architetture barocche leccesi o siciliane.

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Terminatore lunare nei pressi del cratere Ticho – 2004

Oggi sappiamo che questi crateri sono stati generati da impatti di un gran numero di asteroidi e di meteoriti con la superficie del nostro satellite, soprattutto nelle prime fasi dell’evoluzione del Sistema Solare. Anzi, la Luna stessa si è con molta probabilità formata dalla collisione con la giovane Terra di un planetoide delle dimensioni di Marte. Anche il nostro pianeta ha sicuramente sperimentato questa fase di bombardamento cosmico dalle conseguenze più o meno catastrofiche che, seppur diradandosi progressivamente col passare del tempo, non è mai cessato del tutto.

Almeno in un caso, circa 65 milioni di anni fa, si ha ormai la quasi certezza che la caduta di un asteroide di qualche chilometro di diametro abbia portato ad una delle più grandi estinzioni di massa nella storia evolutiva della biosfera, la ben nota scomparsa dei dinosauri. Per la verità, secondo autorevoli studiosi, i mammiferi, compresi noialtri, devono la loro esistenza proprio all’immane catastrofe che seguì l’impatto e che spazzò via, in un colpo solo, i giganteschi rettili che avevano regnato incontrastati fino a quel momento. Tuttavia, lo stesso meccanismo che ha forse permesso la nostra esistenza potrebbe un giorno, si spera mai, portare alla nostra estinzione.

Ed ecco la seconda idea fondamentale. Gli asteroidi possono essere una grave minaccia per la sopravvivenza della nostra specie. In particolare, è diventato evidente che è di vitale importanza individuare tutti quei corpi che, per le loro caratteristiche dinamiche, possono entrare in rotta di collisione con la Terra, i cosiddetti PHAs (Potential Hazardous Asteroids, al 27 Gennaio 2015 sono 1541 quelli noti) e studiarne le caratteristiche, soprattutto la struttura interna e la loro composizione chimica e mineralogica, al fine di poter approntare le eventuali contromisure con cognizione di causa. Un impatto di un asteroide metallico avrebbe, infatti, conseguenze ben più catastrofiche di quello di un analogo roccioso, costituito da un aggregato incoerente di frammenti tenuti assieme dalla gravità.

I PHAs sono una piccolissima frazione della più numerosa famiglia dei NEO (Near Earth Object), costituita da una popolazione piuttosto eterogenea di corpi minori comprendente asteroidi, comete attive ed estinte e corpi progenitori di alcune classi di meteoriti. Provengono da tutte le regioni del Sistema Solare e sono caratterizzati dall’avere orbite caotiche e instabili che, nel volgere di pochi milioni di anni, concludono la loro esistenza cadendo sul Sole o impattando uno dei pianeti interni, se non sono finiti nel frattempo su orbite che li portano ad essere espulsi dal Sistema Solare.

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An image mapping the orbits of all the potentially hazardous asteroids (PHAs) known. Image Credit: NASA/JPL-Caltech

La loro breve esistenza, su tempi scala cosmici, implica che la popolazione di NEO che osserviamo ai giorni nostri, non può certamente essere la stessa di quella che avremmo trovato anche solo qualche centinaio di milioni di anni fa. Deve perciò esistere un qualche meccanismo che rifornisce continuamente la popolazione dei NEO, compensandone le perdite e mantenendo relativamente alta nel tempo la probabilità che uno di essi finisca col prenderci di mira. Sono state individuate varie sorgenti che possono iniettare questi oggetti verso il Sistema Solare interno, portandoli ad intersecare o quantomeno ad avvicinarsi all’orbita terrestre. La parte del leone sembra svolta dalle potenti risonanze esistenti nella Fascia Principale, in particolare quelle con Giove, e dagli incontri ravvicinati con Marte. Per valutare correttamente le probabilità di un eventuale impatto è fondamentale conoscere con grande precisione i parametri orbitali.

Se sulla base di accurate misure astrometriche sembra che il rischio di collisione non sia trascurabile, osservazioni condotte con potenti radiotelescopi possono indicare le reali possibilità. Il fascio ad alta potenza emesso da un radar, 1Megawatt nel caso del radiotelescopio di 305 metri di Arecibo, è estremamente coerente, cosicché la fase dell’onda elettromagnetica è la stessa su tutto il fronte d’onda. Sfruttando la tecnica del time-delay, ossia della misura del tempo che intercorre tra l’emissione del fascio e la ricezione dell’eco, è possibile determinare la distanza del target con una precisione attorno ai cento metri e stimare la componente della velocità lungo la linea di vista, con un margine d’errore dell’ordine del millimetro al secondo, come dire che si potrebbe ricostruire il moto di una formica che si arrampica su un muro. L’analisi dell’eco permette anche di determinare le proprietà fisiche della superficie dell’asteroide. La rugosità superficiale influenza il modo in cui l’onda radar è riflessa: una superficie liscia tende a mantenere la coerenza del fascio al contrario di una scabra, mentre una metallica riflette molto più intensamente di una rocciosa coperta da regolite. Inoltre, siccome l’oggetto è in moto, la frequenza dell’onda riflessa è diversa da quella incidente, per effetto Doppler. Un’accurata analisi di queste variazioni consente di ricostruire la forma dell’asteroide con sorprendente precisione, ottenendo una sorta di fotografia, tanto più dettagliata quanto più l’oggetto è vicino. La potenza dell’eco ricevuta è, infatti, inversamente proporzionale alla quarta potenza della distanza dell’oggetto, il che spiega come mai i NEO, transitando in certi casi a distanza inferiore a quella Terra-Luna, sono i candidati ideali per questo tipo di indagini.

Proprio ieri, 26 Gennaio 2015, gli scienziati della NASA, sfruttando l’antenna di 70m di Goldstone, hanno ricostruito le immagini radar dell’asteroide 2004 BL86 che stava transitando a circa 1.2 milioni di chilometri dalla Terra, e che ha riservato una gradita sorpresa: è un asteroide di circa 325metri con una piccola luna di 70 metri che gli orbita attorno.

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This GIF shows asteroid 2004 BL86, which safely flew past Earth on Jan. 26, 2015. Image Credit: NASA/JPL-Caltech

Solo di recente si è iniziato a studiare anche gli oggetti della Fascia Principale. La prima osservazione di questo tipo è stata quella di (216) Kleopatra, un asteroide lungo circa 217 km e largo 94 km, dalla caratteristica forma ad osso. Le osservazioni sono state condotte ad Arecibo, quando l’asteroide si trovava ad oltre 170 milioni di km di distanza da Terra; il fascio radar impiegava circa 19 minuti per raggiungerlo e tornare al ricevitore.

Ricostruzione radar della forma dell’asteroide 216 Kleopatra ottenuta col grande radiotelescopio di Arecibo, sfruttando la tecnica del Doppler imaging. Da notare la notevole finezza dei dettagli superficiali, soprattutto in considerazione del fatto che, al momento dell’osservazione, l’asteroide si trovava ad oltre 170 milioni di km di distanza.

Ricostruzione radar della forma dell’asteroide (216) Kleopatra ottenuta col grande radiotelescopio di Arecibo, sfruttando la tecnica del Doppler imaging. Da notare la notevole finezza dei dettagli superficiali, soprattutto in considerazione del fatto che, al momento dell’osservazione, l’asteroide si trovava ad oltre 170 milioni di km di distanza.

Il grande limite delle misure radar sta nel fatto che è possibile studiare un numero molto limitato di oggetti, almeno con gli attuali strumenti a disposizione. Viceversa, i planetologi vorrebbero poterne osservare il più grande numero possibile, per poter poi applicare considerazioni di tipo statistico, inevitabili quando si tratta di caratterizzare una popolazione che, verosimilmente, è composta di parecchi milioni di oggetti. Nell’attesa dei dati della missione spaziale GAIA, che si ripromette di rivoluzionare per quantità e qualità le conoscenze sugli asteroidi, le osservazioni fotometriche condotte da Terra continuano ad essere, da questo punto di vista, uno strumento fondamentale, poiché permettono di ottenere un discreto numero di informazioni, tutto sommato in maniera relativamente semplice anche con strumentazione commerciale.

Gli asteroidi hanno forme più o meno allungate e più o meno stravaganti, conseguenza il più delle volte di complicate esistenze dominate da violente collisioni reciproche. Se nelle prime fasi della formazione del Sistema Solare i detriti collidevano a velocità relativamente basse, favorendo in questo modo il progressivo accrescimento e la formazione di corpi di grandi dimensioni, la successiva evoluzione delle orbite, soprattutto di quelle caratterizzate da alte eccentricità ed inclinazioni, ha fatto sì che le collisioni avvenissero a velocità comprese tra i 5 ed i 20 km/s conferendo alle collisioni un carattere distruttivo. Spesso la violenza degli impatti è stata tale da sbriciolare letteralmente i corpi coinvolti. In alcuni casi dalle collisioni sono emerse le cosiddette famiglie dinamiche, costituite da piccoli e grandi oggetti con elementi propri e proprietà fisiche simili a quelle del corpo genitore.

Accurate simulazioni numeriche hanno dimostrato, per esempio, che le famiglie di Eunomia e Koronis hanno avuto un’origine di questo tipo e che tutti gli oggetti di dimensioni maggiori sono probabilmente costituiti di aggregati di frammenti debolmente legati tra loro (rubble-pile), tenuti assieme dalla gravità e dalle forze di stato solido. Un altro sottoprodotto di questo tipo di evento è la formazione di satelliti attorno al corpo principale. Attualmente sono stati individuati satelliti di asteroidi nella Fascia Principale, tra i NEO e tra i transnettuniani. E’ di qualche anno fa la scoperta di un asteroide triplo, (87) Sylvia, un oggetto di 280km di diametro con due piccole lune, rispettivamente a 710 e 1360km di distanza, che ruotano attorno ad esso su orbite equatoriali, circolari e prograde il che suggerisce con forza un’origine comune. In genere i satelliti sono piccoli rispetto ai corpi principali, ma a volte, come nel caso di (90) Antiope, le dimensioni sono confrontabili, tanto che, più correttamente, si deve parlare di asteroidi doppi.

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VLT observations of the double asteroid (90) Antiope during 2004. The adaptive optics NACO instrument was used, allowing the astronomers to perfectly distinguish the two components and so, precisely determine the orbit. The two objects are separated by 171 km, and they perform their celestial dance in 16.5 hours.

Il grande interesse per gli asteroidi binari o multipli deriva dal fatto che dallo studio dell’orbita dei componenti è possibile determinare la loro massa tramite le leggi di Keplero e, se si dispone anche di una stima delle dimensioni, di ricavare la densità, parametro fondamentale per capire la struttura interna dell’oggetto. (87) Sylvia, per esempio, è sicuramente un rubble-pile con una significativa percentuale di spazi vuoti al suo interno. L’importanza di questo dato risiede nel comportamento di questi corpi in caso di collisioni successive. La presenza di molti vuoti e giunzioni al loro interno fa sì che riescano ad assorbire in maniera molto efficiente l’energia dell’impatto, con la produzione di coltri di ejecta e notevoli quantità di regolite come nel caso di (433) Eros o, addirittura, la formazione di crateri di dimensioni confrontabili con quelle dell’asteroide stesso, senza distruggerlo. Emblematico in questo senso è (253) Mathilde, la cui superficie è dominata da grandi crateri da impatto di diametro superiore al raggio medio dell’asteroide.

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From fifty kilometers above asteroid Eros, the surface inside one of its largest craters appears covered with an unusual substance: regolith. The thickness and composition of the surface dust that is regolith remains a topic of much research. Much of the regolith on (433) Eros was probably created by numerous small impacts during its long history.

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An image of Asteroid (253) Mathilde taken by the space probe NEAR Shoemaker on 27 June 1997 from a distance of 2400 km. It is lit up by the sun from the top right. The part of the Asteroid visible in the picture has Dimensions of 59 km x 47 km. On the surface, numerous large craters are visible, like the Large Crater in the Center, named Karoo, which is more than 30 km wide. Most of it is shaded in the picture.

Un notevole salto di qualità nello studio fotometrico degli asteroidi si è avuto, come per tutti i settori dell’Astrofisica, con l’introduzione dei sensori a stato solido, i cosiddetti dispositivi ad accoppiamento di carica o CCD. Attualmente con un telescopio di 20 cm di diametro è possibile studiare asteroidi di 14-esima magnitudine con un buon grado di precisione ed affidabilità laddove, prima dell’avvento dei CCD, sarebbe stato necessario uno strumento di apertura nettamente maggiore.

Tutte le curve di luce a colori riportate di seguito sono state ottenute ormai una decina di anni fa presso l’Osservatorio Astrofisico R.P.Feynman con un Dall-Kirkham di 21cm di apertura nell’ambito dell’ALP (Asteroid Lightcurve Program) che avevo attivato in quegli anni.

(721)Tabora

In un ideale passaggio di consegne generazionale e tecnologico ecco la curva di luce di (721) Tabora il cui periodo di rotazione stimato da Zappalà et al. nel 1989 era di 8 ore (Rotational properties of outer belt asteroids, Based on observations performed mainly at the European Southern Observatory, ESO, La Silla, Chile. Icarus 82, 354-368.) e che riuscii a rifinire in 7.982 ± 0.001 ore

Dall’analisi della curva di luce si ricava innanzitutto il periodo di rotazione dell’asteroide che, in genere, ruota attorno ad un asse fisso, mostrando all’osservatore le superfici di area massima e minima in maniera ciclica.

Images of 433 Eros from NEAR Shoemaker. Courtesy of JHU/APL Two days after NEAR Shoemaker began its orbit of Eros, the spacecraft captured this rotation movie as it moved closer to the asteroid. The movie shows a full rotation on February 16, 2000, as viewed from a range of about 340 kilometers

Images of (433) Eros from NEAR Shoemaker.
Courtesy of JHU/APL. Two days after NEAR Shoemaker began its orbit of Eros, the spacecraft captured this rotation movie as it moved closer to the asteroid. The movie shows a full rotation on February 16, 2000, as viewed from a range of about 340 kilometers

Un sufficiente numero di curve di luce, ottenute con osservazioni a diverse longitudini eclittiche e distribuite nell’arco di tre o quattro apparizioni, consente di determinare la direzione dell’asse di rotazione. Inoltre, permette la costruzione di un modello tridimensionale abbastanza dettagliato della struttura su larga scala dell’asteroide mediante la tecnica matematica dell’inversione delle curve di luce.

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Tre curve di luce dell’asteroide (43) Ariadne affiancate dal modello tridimensionale ottenuto con la tecnica matematica dell’inversione di un cospicuo numero di curve di luce, acquisite in epoche differenti. La diversa forma e ampiezza delle curve è dovuta al cambiamento delle condizioni di illuminazione durante ogni apparizione. (Kaasalainen et al. Icarus 159 (2002) mod.)

Il motivo per cui è necessario osservare l’oggetto sotto diverse prospettive è che in questo modo l’illuminazione laterale e radente mette in evidenza, grazie al gioco di luci e di ombre, anche le eventuali irregolarità nella forma, almeno su scala macroscopica. Un asteroide sferico non mostra alcuna variazione significativa nella curva di luce nel corso della sua rotazione, ma anche un oggetto fortemente elongato esibisce un comportamento analogo se osservato in direzione del suo polo. Ma, mentre nel primo caso non ci sono variazioni di sorta nemmeno se la visione è equatoriale, nel secondo si ha un’alternanza evidentissima di massimi e minimi, dovuta alla grande differenza nell’estensione dell’oggetto lungo gli assi perpendicolari a quello di rotazione. Non è raro, in questo caso, riscontrare ampiezze nella curva di luce anche di una magnitudine che, nel caso di asteroide approssimabile nella forma ad un ellissoide di Jacobi, implica un rapporto di circa 5/2 tra i due assi principali.

In linea di principio per ottenere una buona curva di luce è sufficiente un centinaio di punti ben distribuiti lungo il periodo. Tuttavia, un numero maggiore è sicuramente preferibile, sia per evidenziare eventuali irregolarità morfologiche, sia per minimizzare gli errori nelle misure dovuti, per esempio, a peggioramento delle condizioni meteo durante le osservazioni. La maggior parte degli asteroidi ruota con periodi compresi tra 6 e 12 ore perciò un paio di notti di misure, almeno durante l’inverno, sono sufficienti per determinare in maniera accurata il periodo. E’ opportuno però aggiungere una terza sessione a distanza di qualche giorno per ottenere una maggiore precisione.

(573)Recha

Generalmente la curva di luce ha un andamento di tipo sinusoidale con due massimi e due minimi, spesso di altezza e profondità differenti. Un esempio è la curva di luce di (1459) Magnya; quest’oggetto era stato scelto come obiettivo della prima osservazione interferometrica di un asteroide con il VLTI dell’ESO, con l’intento di ricavarne il diametro per via diretta. La curva di luce, oltre a permettere di rifinire il periodo di rotazione, è stata utile anche per individuare in quale fase si trovava l’asteroide al momento delle osservazioni interferometriche.

(1459)Magnya

Curva di luce di (1459) Magnya, raro asteroide della zona esterna della Fascia principale con una crosta basaltica e target della prima osservazione interferometrica col VLTI dell’ESO (Delbò et al. “MIDI observations of (1459) Magnya: First attempt of interferometric observations of asteroids with the VLTI”, Icarus, vol. 181, pp. 618-622 (2006)

Analoghe considerazioni valgono quando lo studio fotometrico è contemporaneo alle osservazioni radar, soprattutto se di oggetti non ancora ben caratterizzati. Alcuni asteroidi di dimensioni abbastanza contenute e monolitici hanno periodi di rotazione di poche ore o addirittura di pochi minuti. Se fossero di tipo rubble-pile, sarebbero rapidamente disgregati dalla forza centrifuga. La barriera tra i due tipi sembra collocarsi attorno alle 2.25 ore, ma ulteriori osservazioni possono migliorare in modo rilevante la statistica relativa. Esistono anche asteroidi con periodi di rotazione di giorni e perfino di mesi ed altri per i quali questo dato non è univocamente determinabile, come i cosiddetti asteroidi ubriachi. Si tratta di oggetti che non ruotano attorno a nessuno degli assi principali d’inerzia, ed anzi la direzione dell’asse di rotazione è continuamente variabile nel tempo. Celebre è il caso di (4179) Toutatis, un asteroide costituito da due corpi irregolari di 2.5 e 4 chilometri, praticamente a contatto, la cui rotazione è il risultato di due diversi tipi di moto, con periodi di 5.4 e 7.3 giorni terrestri, che si combinano in maniera tale che l’orientazione nello spazio di questo asteroide, non si ripete mai con le stesse modalità. Si tratta di una sorta di relitto che testimonia la grande complessità della dinamica collisionale nelle prime fasi della formazione del Sistema Solare. A causa degli attriti e delle tensioni interne, che dissipano grandi quantità di energia, queste rotazioni ubriache tendono a regolarizzarsi su tempi scala dell’ordine di qualche decina di milioni di anni, in maniera tanto più rapida quanto più la rotazione è veloce per una data dimensione dell’asteroide, ma Toutatis ruota così lentamente che il tempo necessario perché questo processo di stabilizzazione diventi effettivo è più lungo di quello trascorso dalla formazione del Sistema Solare.

Anche quando la rotazione non è “ubriaca”, la determinazione del periodo, a volte, è un vero rompicapo e sono necessarie diverse notti di misure per risolvere il problema. Può succedere, infatti, che l’asteroide sia binario, cosicché nella curva di luce si sovrappongono periodi differenti e perfino eclissi. Un campanello d’allarme può essere la presenza di un numero maggiore dei canonici due estremi per ciclo. Un asteroide nella lista dei sospetti binari, che esibisce ben quattro massimi e minimi, è (2346) Lilio. Potrebbe anche trattarsi di un oggetto singolo di tipo ellissoidale, ma molto deformato.

Curva di luce di 2346 Lilio. La presenza di ben quattro massimi e minimi fa pensare che forse potrebbe trattarsi di un asteroide binario, ma non è da escludersi la possibilità che si tratti solo di un oggetto dalla complicata morfologia.

Curva di luce di (2346) Lilio. La presenza di ben quattro massimi e minimi fa pensare che forse potrebbe trattarsi di un asteroide binario, ma non è da escludersi la possibilità che si tratti solo di un oggetto dalla complicata morfologia.

Irregolarità macroscopiche nella forma sono evidenti anche nel caso di (126) Velleda. Sarà sicuramente interessante tornare a studiare questi oggetti durante le prossime apparizioni, quando le differenti condizioni geometriche di illuminazione potranno evidenziare o anche nascondere alcune delle caratteristiche presenti nelle curve di luce e quindi fornire ulteriori indicazioni sulla loro morfologia.

(126)Velleda

Curva di Luce di (126) Velleda, un asteroide caratterizzato da una morfologia piuttosto accidentata, dovuta probabilmente ad una tumultuosa esistenza, con frequenti collisioni con altri suoi simili.

Ha un certo fascino iniziare a misurare un asteroide di cui non se ne sa assolutamente niente. E’ come intraprendere l’esplorazione di un’isola che fino a quel momento era solo un punto su una mappa. E non è detto che non celi un piccolo tesoro.

Domenico Licchelli – 2015

Approfondimento

Mentre la determinazione del periodo di rotazione è normalmente cosa rapida e facile (una volta bastava un buon fotometro fotoelettrico, oggi un buon CCD), più complicata è la determinazione della forma e dell’asse di rotazione. In questo articolo voglio raccontarvi uno dei vari metodi, quello che ho usato più spesso (in quanto messo a punto proprio da … me) e che risulta anche il più semplice da spiegare geometricamente e senza utilizzare formule più o meno complicate.
L’ipotesi fondamentale che bisogna fare per poter arrivare a un risultato accettabile è che la forma dell’asteroide sia assimilabile a un ellissoide a tre assi (a>b>c), rotante attorno al semiasse minore c. Attenzione! Questo non vuol dire che tutti gli asteroidi siano forme di equilibrio, ma solo che, come tutti i frammenti collisionali, hanno forme più o meno allungate e non simmetriche. La rotazione intorno all’asse minore è comprovata dalla teoria e dalla casistica, e si lega a condizioni che si riferiscono al momento angolare.
Le forme a tre assi sono più che giustificabili, guardando i sassi di una spiaggia ciottolosa in cui il mare abbia smussato gli angoli delle pietre (Fig. 2).

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Ammettiamo, quindi, che il nostro asteroide si presenti come un ellissoide a tre assi, rotante attorno all’asse minore. Magnifico. Tuttavia, noi continuiamo a vedere, da terra, solo un punto luminoso e quindi l’ellissoide può essere orientato in qualsiasi modo nella sua posizione celeste.
La sua prima curva di luce, in genere, ci aiuta già a capire la forma grossolana: se l’ampiezza, ossia la differenza tra massimi e minimi, è abbastanza rilevante vuol dire che l’ellissoide è piuttosto allungato. Come mai? Presto detto. Prendiamo ad esempio un oggetto che abbia l’asse di rotazione perfettamente perpendicolare alla linea di vista. In Fig. 3, nella parte alta, vi è l’ellissoide visto dal polo (e quindi l’ellisse mostra proprio gli assi maggiori a e b), mentre le due rappresentazioni sottostanti si riferiscono a vari istanti.

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Figura 3. In alto un ellissoide a tre assi visto dalla direzione dell’asse polare. Durante la sua rotazione l’area rimane costante. Se, invece, viene visto dalle posizioni 1, 2, 3, 4 l’area cambia continuamente e passa da un minimo a un massimo. Come conseguenza, durante un intero periodo di rotazione d’identificano due massimi e due minimi di luce.

In particolare, l’area della superficie ellittica vista da terra passa da un minimo (1) quando si vede l’asse intermedio b (πbc) a un massimo (2) (dopo novanta gradi di rotazione) quando si vede l’asse maggiore a (πac). Poi, dopo altri 90°, di nuovo πbc (3), seguita da πac (4), per concludersi, infine, nuovamente con πbc (1). L’asse minore c si vede sempre, proprio perché l’asse di rotazione è perpendicolare alla linea di vista.

In questo caso così favorevole si potrebbe immediatamente risalire al rapporto tra gli assi maggiori dell’ellissoide (a/b), scrivendo la formula:

m2 – m1 = – 2.5 log (Imax/Imin) = – 2.5 log (Amax/Amin) = – 2.5 log (πac/ πbc) = – 2.5 log (a/b)

notando che m2 – m1 è proprio l’ampiezza della curva di luce in quanto è la differenza di magnitudine tra massimo e minimo, mentre l’intensità luminosa che entra nel logaritmo è, nel caso di luce riflessa, proporzionale solo all’area apparente vista dall’osservatore. In altre parole, più uno “specchio” è grande e più luce riflette.
Se fossimo sicuri di essere nelle condizioni della Fig. 3 avremmo già ottenuto un risultato importante. Purtroppo, esso è solo un caso fortunato, che, però, si verifica sempre (prima o poi) per qualsiasi asteroide e per qualsiasi orientazione del suo asse di rotazione. Basta avere pazienza. Ora vi mostro perché…
Consideriamo due casi estremamente particolari, ma molto indicativi. L’asteroide si trova su un’orbita circolare e complanare con quella terrestre. La direzione del suo asse di rotazione è perpendicolare all’orbita stessa (Fig. 4).

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Figura 4. Asteroide e Terra rivolvono su orbite complanari e l’asse di rotazione è perpendicolare al piano orbitale.

Le mutue posizioni Terra-asteroide sono mostrate per 4 particolari opposizioni. In realtà, sarebbe stato inutile, in quanto l’angolo tra asse di rotazione e linea di vista rimane sempre uguale a 90° (visione equatoriale). In qualsiasi opposizione si osservi, si ricade nel caso di Fig. 3 (in basso). Otteniamo sempre la stessa ampiezza di curva di luce.

Già dalla prima curva di luce, si ricava subito il rapporto tra gli assi maggiori a/b, ma nessuna informazione sul rapporto a/c o b/c. Sappiamo anche la direzione dell’asse di rotazione (non variando l’ampiezza nelle varie opposizioni l’asse deve essere perpendicolare). Se facciamo un diagramma dove in ascissa mettiamo, ad esempio, la longitudine dell’asteroide e in ordinata l’ampiezza della curva di luce, otteniamo dei punti perfettamente allineati lungo una parallela all’asse delle ascisse.
Altrettanto peculiare, ma più interessante, il caso mostrato nella Fig. 5.

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Figura 5. Come la Figura 4, ma l’asse di rotazione giace sul piano orbitale.

In questo caso le orbite sono sempre complanari, ma l’asse di rotazione giace sul piano orbitale (un po’ come Urano). Vi è allora un punto in cui la Terra vede l’asteroide proprio lungo l’asse di rotazione (posizione a destra), ossia l’osservatore non rileva nessuna variazione luminosa durante il periodo di rotazione dell’oggetto celeste (visione polare). Siamo, infatti, nel caso mostrato in alto nella Fig. 3. Per un opposizione che cada a 90° da questa si ha, invece, un angolo tra asse di rotazione e linea di vista uguale a 90° (come in Fig. 3, in basso) e quindi l’ampiezza della curva raggiunge il suo valore massimo (visione equatoriale). Dopo altri 90° ricadiamo nella visione polare (anche se si vede il polo opposto) e poi ancora nella visione equatoriale.

Nelle configurazioni intermedie tra questi quattro casi peculiari, l’asse di rotazione dell’asteroide forma un angolo variabile tra 0° e 90°, che prende il nome di angolo di aspetto A. In realtà l’angolo andrebbe da 0° a 180° o da – 90° a + 90°, a seconda di come si misuri. Questo fatto ha poca importanza (per adesso, ma ne parleremo più avanti), dato che abbiamo assunto come forma dell’asteroide quella di un ellissoide perfetto, la cui luminosità dipende solo dall’area apparente mostrata all’osservatore.
Al variare dell’angolo di aspetto, l’ampiezza assume valori intermedi tra il valore minimo, uguale a zero (visione polare), e il valore massimo (visione equatoriale). Osservazioni eseguite in varie opposizioni permettono di costruire la curva ampiezza-longitudine. Questa volta non è più una retta parallela all’asse delle ascisse, ma una curva continua che assomiglia, in qualche modo, a una curva di luce. Il valore massimo è sicuramente la visione equatoriale e quindi ci permette di conoscere nuovamente a/b. Inoltre, la posizione in cui l’ampiezza diventa zero, indica proprio la longitudine del polo.
In questo caso peculiare, sappiamo anche che la latitudine della direzione dell’asse di rotazione è zero, dato che l’ampiezza minima è nulla e quindi l’asse deve giacere sul piano orbitale dell’asteroide. Calcolando, infine, la differenza di magnitudine tra la visione polare (valore costante durante l’intera rotazione) e quella della visione equatoriale al massimo della curva di luce, si ottiene subito anche il rapporto tra b e c. Si usa la solita formula:

mP – mE = – 2.5 log (A(polare)/Amax(equatoriale)) = – 2.5 log (πab/ πac) = – 2.5 log (b/c)

Il “caso” è risolto completamente.
Come già detto, però, questa è una situazione del tutto peculiare, molto didattica, ma poco realistica. La situazione “normale” è decisamente più complicata. Ciò che capita è quanto raffigurato in Fig. 6.

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Figura 6. Come Figura 5, ma questa volta l’asse forma un angolo qualsiasi col piano orbitale.

L’inclinazione del’asse di rotazione sul piano orbitale è diversa da 0° e da 90° (o, se preferite, la latitudine, nel caso di orbita complanare con quella dell’eclittica). Tuttavia, dobbiamo notare due cose importanti. Anche in questo caso realistico, prima o poi, si avrà un’opposizione con una visione equatoriale (angolo di aspetto A uguale a 90°).

Se questa asserzione vi lascia un po’ dubbiosi, pensate alle stagioni terrestri. Esistono sempre due punti in cui l’asse di rotazione della Terra è perpendicolare al piano dell’eclittica e questi sono gli equinozi. Essi vi sono comunque, indipendentemente da quanto vale l’angolo tra asse ed eclittica. La visione polare è invece impossibile da ottenere e si ha soltanto un valore minimo di ampiezza, in corrispondenza, però, della posizione a 90° dalla visione equatoriale. In altre parole, il minimo della curva ampiezza-longitudine indica, ancora una volta, la longitudine del polo dell’asteroide. Nel caso terrestre questi sono i punti dei solstizi. Alcuni esempi di curve ampiezza-longitudine sono riportate nella Fig. 7.

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Figura 7. Alcune curve ampiezza-longitudine. Qualsiasi asteroide raggiunge sempre il massimo di ampiezza (visione equatoriale). Il minimo, invece, può essere più alto o più basso, Indica comunque abbastanza bene la longitudine del polo.

Possiamo calcolare, come al solito, il rapporto a/b, sfruttando l’ampiezza misurata nella visione equatoriale (che si ha sempre, ripeto). Resta più problematica la determinazione del rapporto b/c e della latitudine del polo. Ci aiuta la Fig. 8 che riporta la situazione per un’opposizione e per un orientamento qualsiasi dell’asse di rotazione. L’osservatore vede, in realtà, una proiezione dell’asteroide-ellissoide su un piano perpendicolare alla linea di vista. Essa si ottiene, visivamente, come la sezione perpendicolare di un cilindro ellittico che abbia la direzione Terra-asteroide come asse e che sia tangente all’asteroide.

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Figura 8

L’angolo tra asse del cilindro e asse di rotazione è proprio l’angolo di aspetto A. La proiezione è anch’essa un’ellisse, ovviamente, ma i suoi assi sono, momento per momento, delle funzioni abbastanza semplici che legano angolo di aspetto e rapporti tra i semi-asse dell’asteroide.

Particolare rilevanza hanno, ovviamente, quelli relativi al massimo e al minimo della curva di luce. Non intendo sviluppare le formule, in quanto approfittano di un po’ di trigonometria e di qualche passaggio più o meno noioso, ma posso assicurarvi che esiste una soluzione che dona sia la forma che i rapporti tra gli assi.
Abbiamo fatto qualche ipotesi restrittiva, ma le applicazioni ai casi reali confermano che l’approccio è più che sufficiente per una determinazione abbastanza accurata. I risultati ottenuti per Eros, Kleopatra e Vesta (anche se in modo più elaborato) sono perfettamente in accordo con quanto osservato “in loco” (Eros e Vesta) o attraverso le immagini radar (Kleopatra).
La determinazione dell’asse di rotazione resta, comunque, un po’ ambigua. In altre parole, esistono quasi sempre due soluzioni altrettanto valide. Questo fatto si può notare nella Fig. 9.

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Figura 9. Si vedrebbe la stessa superficie apparente per qualsiasi posizione dell’asse lungo il cono con centro nella posizione dell’asteroide e ampiezza uguale all’angolo di aspetto.

Qualsiasi sia la configurazione dell’asteroide nello spazio, la curva di luce non cambia se l’asse di rotazione descrive un cono circolare, di ampiezza uguale all’angolo di aspetto A.
Fortunatamente, questa enorme ambiguità si ha solo per una singola opposizione. Se ne abbiamo altre e raffiguriamo, nel piano longitudine-latitudine celeste, le circonferenze che hanno centro nella posizione dell’asteroide e raggio uguale all’angolo di aspetto, esse hanno due soli punti in comune (Fig. 10).

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Figura 10. Se l’orbita non è inclinata ed è circolare, l’ambiguità tra i due poli non non può essere risolta.

La loro longitudine e latitudine sono i possibili valori del polo dell’asteroide. In modo analitico questo fatto si traduce dicendo che l’angolo di aspetto è calcolato solo in valore assoluto (ossia può essere sia positivo che negativo, come già accennato in precedenza).
Per risolvere l’ambiguità, è necessario che l’orbita non sia complanare con l’eclittica e, magari, che sia anche piuttosto ellittica. In questi casi vi è una piccola differenza tra le due soluzioni: una delle due intersezioni è meno “buona” dell’altra.
Tuttavia, dato che gli errori sono molti (macchie di albedo, forma non assimilabile completamente a un ellissoide a tre assi, rugosità superficiale, effetto dell’angolo di fase solare sulla luminosità della superficie esposta all’osservatore (ossia l’ombra su una superficie convessa), ecc.), l’ambiguità è difficilmente risolta e le differenze riscontrate negli errori stimati per le due soluzioni sono comparabili o minori di quelli introdotti da altre cause.
In ogni modo, si ottengono valori più che accettabili per lavori di tipo statistico e anche per pianificare missioni spaziali dirette agli asteroidi, per le quali è necessario avere una stima dell’asse di rotazione e della forma.

Vincenzo Zappalà

Rileggiamo il Sidereus Nuncius – I satelliti di Giove – Domenico Licchelli

Copertina_Rileggere-il-Sidereus-NunciusIn questo capitolo parleremo del Sidereus Nuncius, l’opera in cui il grande Galileo riporta le prime osservazioni eseguite con il suo perspicillum (cannocchiale). Descrive la Luna, la Via Lattea, le stelle, per concludere con la sua più importante scoperta: i satelliti di Giove. Per capire la genialità, l’entusiasmo e la freschezza del libro, ne estrarremo le parti più importanti (tradotte in italiano e scritte in corsivo); le accompagneremo con immagini riprese da telescopi moderni per mostrare la grande precisione delle osservazioni galileiane, eseguite con uno strumento oggi considerato “ridicolo”; inseriremo alcuni disegni originali; commenteremo passo dopo passo lo scritto del sommo pisano evidenziandone le conclusioni corrette (molte) e quelle errate (poche); quando necessario, aggiungeremo note più tecniche relative alle immagini. Sarà sicuramente una lettura entusiasmante e piena di sorprese, conosciuta da pochi e ricca di spunti di riflessione. Forse vi farà anche venire voglia di accostarvi maggiormente alla visione del Cielo …

Sidereus_Nuncius_1610.GalileoLa dedica
… Ecco dunque quattro stelle dedicate al vostro nome illustre, ma non scelte tra quelle fisse, numerose e servili, ma nella schiera dei pianeti. A voi ho riservato quelle che con movimento differente e veloce compiono l’orbita attorno a Giove, stella nobilissima, ed insieme ad essa, con mirabile concordia, compiono il giro intorno al centro del mondo, il Sole, in dodici anni. Quando le scoprii sotto i vostri auspici, serenissimo Cosimo, ancora ignote a tutti gli astronomi precedenti, con ragione decisi di insignirle con l’augusto nome della vostra Casa. Essendo stato io il primo ad averle studiate, chi mai potrà riprendermi se imporrò ad esse il nome di ASTRI MEDICEI? …
Anche Galileo doveva mangiare. Il suo dono al serenissimo Cosimo trasuda di rispetto, deferenza ed ossequio. E non dona al Signore di Firenze una “cosa” qualsiasi, ma “quelle che con movimento differente e veloce compiono l’orbita attorno a Giove, stella nobilissima …”. E’ ovvio: anche il suo dono deve essere nobile come chi lo riceve. E poi il finale: “chi mai potrà accusarmi di essere stato troppo generoso? I satelliti sono miei e ne faccio quello che voglio!” E’ quasi commovente l’umanità che se ne evince.

Le scoperte
… Grande cosa è stata aggiungere alla immensa moltitudine delle stelle fisse, visibili fino ad oggi ad occhio nudo, altre innumerevoli, mai prima osservate, il cui numero supera più di dieci volte quello delle conosciute …
… Bellissima e piacevole cosa è stato anche vedere il corpo della Luna, lontano da noi quasi sessanta raggi terrestri, così vicino come se si trovasse a soli due raggi. In tal modo il diametro di essa appariva trenta volte, la superficie novecento, ed il volume quasi ventisettemila volte più grande di quanto non si vedesse ad occhio nudo. Attraverso questa esperienza chiunque noterebbe che la Luna non è ricoperta da una superficie liscia e levigata, ma scabra ed ineguale e, proprio come la Terra, piena di sporgenze, cavità ed anfratti …
… Ma quello che supera ogni possibile meraviglia è stato aver scoperto quattro astri erranti, da nessuno mai visti precedentemente, che come Venere e Mercurio attorno al Sole, ruotano attorno ad un astro tra i più grandi conosciuti, ora precedendolo, ora inseguendolo, senza mai allontanarsene più di una breve distanza ben delimitata …”

Il cannocchiale
… Circa dieci mesi fa mi giunse notizia che un certo Fiammingo aveva costruito un “occhiale” attraverso il quale oggetti molto lontani e confusi si vedevano molto vicini e distinti. Questa cosa mi venne confermata dopo pochi giorni dal nobile francese Iacopo Badovere di Parigi. Ciò fu causa della mia disperata volontà di ottenere uno strumento analogo, che riuscii a costruire basandomi sulla teoria della rifrazione luminosa. Preparai un tubo di piombo alle cui estremità inserii due lenti, entrambe piane da una parte e dall’altra una convessa e una concava. Posto l’occhio dalla parte concava vidi gli oggetti tre volte più vicini e nove volte più grandi di quanto potessi fare ad occhio nudo. Poi ne costruii uno più accurato che mi permise di vedere gli oggetti ingranditi sessanta volte. Infine, senza risparmiare fatica e spese, riuscii a realizzare uno strumento eccezionale, con il quale arrivai a vedere le cose trenta volte più vicine e mille volte più grandi che viste ad occhio nudo …”

Questo esemplare è uno degli unici due cannocchiali esistenti certamente di Galileo. Rivestito in pelle con dorature impresse a caldo, lo strumento fu donato a Cosimo II subito dopo la pubblicazione del Sidereus Nuncius (19 marzo 1610). Vetro, legno, pelle; lunghezza 92 cm, diametro 6 cm Firenze, Istituto e Museo di Storia della Scienza

Questo esemplare è uno degli unici due cannocchiali esistenti certamente di Galileo. Rivestito in pelle con dorature impresse a caldo, lo strumento fu donato a Cosimo II subito dopo la pubblicazione del Sidereus Nuncius (19 marzo 1610). Vetro, legno, pelle; lunghezza 92 cm, diametro 6 cm Firenze, Istituto e Museo di Storia della Scienza

Anche se forse non fu proprio il primo a costruirlo, Galileo ama il suo gioiello quasi fisicamente. Sa che deve migliorarlo in tutti i modi e lo fa con grande fatica sia fisica che finanziaria.

I satelliti di Giove
… Descriverò adesso le osservazioni dei quattro PIANETI da me scoperti e mai visti prima d’ora dal principio del mondo e darò notizie delle loro posizioni, mutamenti, movimenti, invitando tutti gli astronomi a studiare e definire i loro periodi che finora non riuscii a stabilire per la limitatezza del tempo avuto a disposizione (due mesi soltanto). Ricordo però che per compiere queste osservazioni è necessario utilizzare un cannocchiale “esattissimo” come quello di cui parlai all’inizio …
Importantissimo brano per comprendere il carattere di Galileo e la sua emozione di fronte ad un nuovo Universo che gli si apre improvvisamente davanti agli occhi. Innanzitutto l’orgoglio non molto velato (“mai visti prima d’ora dall’inizio del mondo”), poi il suo caloroso invito a seguirlo nella conquista del Cosmo senza paure o remore (“invitando tutti gli astronomi”) ed infine la sua ammirazione per lo strumento da lui creato, ma anche la paura che le sue potenzialità non vengano adeguatamente comprese se riprodotto senza la necessaria abilità (“è necessario utilizzare un cannocchiale esattissimo”).”

La scoperta
“… Il giorno sette gennaio, dunque, dell’anno milleseicentodieci, a un’ora di notte, mentre col cannocchiale osservavo gli astri mi si presentò Giove; poiché avevo preparato uno strumento eccellente, vidi (e ciò prima non mi era accaduto per la debolezza dell’altro strumento) che intorno gli stavano tre stelle piccole ma luminosissime; sebbene le credessi fisse, mi destarono una certa meraviglia, perché apparivano disposte esattamente secondo una linea retta e parallela all’eclittica, e più splendenti delle altre di grandezza uguale alla loro. Esse e Giove erano in questo ordine:

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cioè due stelle erano ad oriente ed una ad occidente. La più orientale e l’occidentale apparivano un po’ maggiori dell’altra. Non mi curai minimamente della loro distanza da Giove, perché, come ho detto, le avevo credute fisse. Quando, non ne so nemmeno il motivo, mi rivolsi di nuovo alla medesima indagine il giorno otto, vidi una disposizione ben diversa: le tre stelle infatti erano tutte ad occidente rispetto a Giove, e più vicine tra loro che la notte antecedente e separate da eguali intervalli, come mostra il disegno seguente:

satelliti medicei-290708_2133TC’è da rimanere estasiati di fronte alla semplicità, il rigore, l’emozione che scaturisco da queste poche righe. Galileo si accorge di avere fatto una scoperta epocale, ma cerca di mantenere la calma e non rigetta subito l’ipotesi di trovarsi di fronte a delle stelle fisse (quindi niente di speciale) ma non può non esprimere il suo dubbio in proposito (“disposte esattamente lungo una linea retta e parallela all’eclittica”). Mente sicuramente quando dice: “non so nemmeno il motivo, mi rivolsi di nuovo alla stessa indagine…”. Sicuramente non vedeva l’ora di riosservare quelle strane stelle la notte dopo!

A questo punto vale la pena di fare una breve constatazione. Nel corso dei secoli sono state molte le speculazioni riguardo alle capacità osservative di Galilei. In particolare ci si è chiesti come mai le osservazioni dei satelliti medicei siano state tanto accurate mentre al contrario i disegni lunari mostravano una certa approssimazione. In realtà se si analizzano accuratamente le posizioni dei satelliti si scopre che anche queste osservazioni sono abbastanza approssimative. In diversi casi il Nostro non riuscì a vedere distinti i satelliti quando erano piuttosto vicini tra loro oppure quando qualcuno era alla massima elongazione dal pianeta. Queste limitazioni sono dovute ad almeno due grandi cause: lo scarso potere risolutivo del telescopio usato, dovuto sia al ridotto diametro, sia alle pesanti aberrazioni presenti nella lente principale e negli oculari, oltre che al modesto campo di vista. E’ facile verificare che con un moderno binocolo si riesce ad osservare una zona ampia diversi gradi, ma è sufficiente utilizzare un piccolo rifrattore a lunga focale per vederlo ridursi drasticamente. Inoltre un normale binocolo è oggi in genere di gran lunga più corretto dei cannocchiali galileiani per cui è difficile rendersi conto delle difficoltà incontrate dal grande scienziato pisano. Anzi, rileggere le sue descrizione e le sue considerazioni è tuttora uno straordinario esempio di grande Scienza ed in particolare di grandissime capacità osservative e deduttive.

satelliti Medicei-060808_2208Tsatelliti medicei-210708_2221TLo stupore
“… A questo punto, non pensando assolutamente allo spostamento delle stelle, cominciai a chiedermi in qual modo Giove si potesse trovare più ad oriente di quelle stelle fisse, quando il giorno prima era ad occidente rispetto a due di esse. Ed ebbi il dubbio che Giove si muovesse ben diversamente da quanto descritto dai calcoli astronomici, ed avesse col proprio moto oltrepassato le tre stelle. Per questo aspettai con grande ansia la notte successiva. Purtroppo il cielo coperto di nubi mi precluse l’osservazione. Ma il giorno dieci le stelle mi apparvero in questa posizione rispetto a Giove:

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cioè ve n’erano due soltanto, ed entrambe orientali: la terza, come immaginai subito, era nascosta da Giove.
Lo stupore c’è davvero. Ma non siamo del tutto sicuri che Galileo pensasse veramente ad un movimento imprevisto di Giove che avrebbe distrutto le teorie in cui credeva ciecamente. Sapeva già di trovarsi di fronte a qualcosa di nuovo ed aveva quasi paura della sua eccezionale scoperta. Voleva esserne sicuro e non illudersi troppo presto (di nuovo esce la sua grande freddezza e precisione), ma questa volta non riesce a nascondere l’impazienza di tornare al suo cannocchiale. Quando ci riesce non ha alcun problema a pensare subito che “la terza stella” non visibile sia nascosta dal pianeta. Aveva già capito tutto, ma aspettava la prova definitiva.

La spiegazione
“… Erano sempre lungo la stessa direzione rispetto a Giove, e lungo la linea dello Zodiaco. Quando mi accorsi di questo compresi che simili spostamenti non potevano in alcun modo essere attribuiti a Giove, sapendo inoltre che le stelle osservate erano sempre le stesse (non vi erano altre stelle di pari luminosità lungo un notevole tratto della linea dello Zodiaco, sia prima che dopo). Mutando la perplessità in meraviglia, compresi che l’apparente mutazione non era di Giove ma delle stelle da me scoperte; e per questo pensai di dovere da allora in poi osservare il fenomeno attentamente, scrupolosamente ed a lungo …
Ogni reticenza cade e la spiegazione fluisce senza tentennamenti. Probabilmente il cambiamento da “perplessità a meraviglia” era già avvenuto nel suo intimo. Riesplode l’orgoglio, più che giustificato: “la mutazione … era delle stelle da me scoperte”. E chi mai poteva dubitare che Galileo avesse già deciso di continuare a studiare il suo fenomeno con attenzione e per molto tempo?
… Dopo pochi giorni capii anche che le stelle che compivano i loro giri attorno a Giove non sono erano solo tre, ma quattro. Misurai anche le loro reciproche distanze, annotai tutte le ore delle osservazioni, soprattutto quando ne feci molte in una stessa notte. Infatti le rivoluzioni di questi pianeti sono così veloci che spesso si notano differenze anche orarie …
L’emozione e la gioia dell’uomo lasciano nuovamente il posto alla precisione, al rigore ed allo scrupolo dello scienziato.

satelliti medicei-120808_2214TLe conclusioni
… Queste sono le osservazioni dei quattro Astri Medicei da me scoperti recentemente e per la prima volta, sulle quali, pur non essendo ancora possibile dedurre i loro periodi, si deducono già importanti conclusioni. In primo luogo, poiché talvolta seguono e talvolta precedono Giove ad intervalli uguali e si allontanano da esso solo per un breve tratto, sia ad oriente che a occidente, accompagnandolo sia nel suo moto retrogrado che in quello diretto, a nessuno può nascer dubbio che non compiano attorno a Giove le loro rivoluzioni e, nello stesso tempo, effettuino tutti insieme il loro giro intorno al centro del mondo in un periodo di dodici anni ..”
La spiegazione è precisa, attenta ed esauriente, permeata nuovamente di orgoglio (“da me scoperti”). Ed alla fine quasi accusa di stupidità chiunque osi confutargli la sua interpretazione.

Una nuova visione dell’Universo
“… Notai anche che sono più veloci le rivoluzioni dei pianeti che descrivono orbite più strette intorno a Giove. infatti le stelle più vicine a Giove spesso si vedevano orientali mentre il giorno prima erano apparse occidentali, e viceversa, mentre invece il pianeta che descrive l’orbita maggiore, ad un accurato esame, mostrava aver periodo semimensile. Ho ottenuto quindi un valido ed eccellente argomento per togliere ogni dubbio a coloro che, accettando tranquillamente nel sistema di Copernico la rivoluzione dei pianeti intorno al Sole, sono ancora turbati dal fatto che solo la Luna giri intorno alla Terra, mentre entrambi compiono ogni anno la loro rivoluzione attorno al Sole, sì da ritenere per tale motivo che si debba rigettare come impossibile l’intera struttura eliocentrica dell’universo. Ora, infatti, non abbiamo un solo pianeta che gira intorno a un altro (la Luna attorno alla Terra) mentre entrambi percorrono la grande orbita intorno al Sole, ma ben quattro stelle erranti fanno lo stesso attorno a Giove ed insieme al grande pianeta, completano la loro ampia orbita attorno al Sole in un periodo di dodici anni …”
Galileo pone l’accento sulla parte fondamentale della sua scoperta, di valenza non solo scientifica. Non solo la Terra ha un satellite, ma anche Giove, ed addirittura quattro. Questo non solo distrugge definitivamente le vecchie teorie geocentriche, ma leva ogni dubbio a chi ancora tentennava vedendo che il nostro pianeta era il solo ad avere il privilegio di una Luna tutta sua. La breve descrizione e le ferme e chiare conclusioni di Galileo fanno nascere la nuova visione dell’Universo, che aprirà in breve le porte all’astrofisica moderna.

L’atmosfera di Giove
“…Ed infine non bisogna tacere il motivo per cui gli Astri Medicei sembrano talvolta più grandi del doppio, mentre compiono attorno a Giove le loro piccolissime rivoluzioni. Certo la causa non risiede nei vapori terrestri, perché mentre essi appaiono più grandi e più piccoli Giove e le vicine stelle fisse si vedono invece immutati. Ed è anche impossibile che si allontanino così tanto dalla Terra nel loro apogeo e tanto le si avvicinino nel loro perigeo da causare un tale cambiamento: una stretta rotazione circolare non può in alcun modo produrre un simile effetto. Dato che non solo la Terra ma anche la Luna è circondata da vapori, possiamo ragionevolmente credere che la stessa cosa avvenga sugli altri pianeti, e quindi accettare che vi sia un involucro più denso del rimanente etere anche attorno a Giove. I Pianeti Medicei, con l’interposizione di questo involucro più denso, all’apogeo sembrano minori, mentre al perigeo maggiori per la mancanza o quantomeno l’attenuazione dell’involucro stesso …”
Non tutto è esatto in questa spiegazione, soprattutto nel richiamo all’atmosfera della Luna. E’ esatto invece il ragionamento che esclude la componente atmosferica terrestre ed il fatto che le orbite dei satelliti medicei devono essere molto piccole attorno a Giove rispetto alla distanza dalla Terra.

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La reale atmosfera di Giove vista oggi con un telescopio di 21 cm di apertura. Le grandi bande equatoriali sono i dettagli più appariscenti del gigante gassoso; se osservate con telescopi di elevata qualità, soprattutto sotto cieli con ottima trasparenza, rilevano una messe di particolari (gli ovali, le bande equatoriali piuttosto movimentate, i festoni e la Grande Macchia Rossa) spesso notevolmente variabili anche su scale temporali relativamente corte.

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Preistorica ripresa acquisita con una banale webcam nell’ormai lontano 2004

giove Celestron 14" @ PGR Flea3.  Damian Peach

L’enorme salto qualitativo ottenuto grazie a ottiche specializzate, nuovi rivelatori, e sofisticate tecniche di elaborazione delle immagini. Celestron 14″ @ PGR Flea3.
Damian Peach

This NASA/ESA Hubble Space Telescope image shows a gorgeous close-up view of the planet Jupiter. Astronomers were using Hubble to monitor changes in Jupiter's immense Great Red Spot (GRS) storm. During the exposures, on 21 April 2014, the shadow of the Jovian moon Ganymede swept across the center of the GRS. Giving the giant planet the uncanny appearance of having a pupil in the center of a 16 000 kilometre wide eye.

This NASA/ESA Hubble Space Telescope image shows a gorgeous close-up view of the planet Jupiter.
Astronomers were using Hubble to monitor changes in Jupiter’s immense Great Red Spot (GRS) storm. During the exposures, on 21 April 2014, the shadow of the Jovian moon Ganymede swept across the center of the GRS. Giving the giant planet the uncanny appearance of having a pupil in the center of a 16 000 kilometre wide eye.

This "family portrait," a composite of the Jovian system, includes the edge of Jupiter with its Great Red Spot, and Jupiter's four largest moons, known as the Galilean satellites. From top to bottom, the moons shown are Io, Europa, Ganymede and Callisto. The Great Red Spot, a storm in Jupiter's atmosphere, is at least 300 years old. Winds blow counterclockwise around the Great Red Spot at about 400 kilometers per hour (250 miles per hour). The storm is larger than one Earth diameter from north to south, and more than two Earth diameters from east to west. In this oblique view, the Great Red Spot appears longer in the north-south direction. Europa, the smallest of the four moons, is about the size of Earth's moon, while Ganymede is the largest moon in the solar system. North is at the top of this composite picture in which the massive planet and its largest satellites have all been scaled to a common factor of 15 kilometers (9 miles) per picture element. The Solid State Imaging (CCD) system aboard NASA's Galileo spacecraft obtained the Jupiter, Io and Ganymede images in June 1996, while the Europa images were obtained in September 1996. Because Galileo focuses on high resolution imaging of regional areas on Callisto rather than global coverage, the portrait of Callisto is from the 1979 flyby of NASA's Voyager spacecraft.

This “family portrait,” a composite of the Jovian system, includes the edge of Jupiter with its Great Red Spot, and Jupiter’s four largest moons, known as the Galilean satellites. From top to bottom, the moons shown are Io, Europa, Ganymede and Callisto. The Great Red Spot, a storm in Jupiter’s atmosphere, is at least 300 years old. Winds blow counterclockwise around the Great Red Spot at about 400 kilometers per hour (250 miles per hour). The storm is larger than one Earth diameter from north to south, and more than two Earth diameters from east to west. In this oblique view, the Great Red Spot appears longer in the north-south direction. Europa, the smallest of the four moons, is about the size of Earth’s moon, while Ganymede is the largest moon in the solar system. North is at the top of this composite picture in which the massive planet and its largest satellites have all been scaled to a common factor of 15 kilometers (9 miles) per picture element. The Solid State Imaging (CCD) system aboard NASA’s Galileo spacecraft obtained the Jupiter, Io and Ganymede images in June 1996, while the Europa images were obtained in September 1996. Because Galileo focuses on high resolution imaging of regional areas on Callisto rather than global coverage, the portrait of Callisto is from the 1979 flyby of NASA’s Voyager spacecraft.

Conclusioni
Quale miglior regalo si poteva fare al proprio “mecenate”? Sicuramente Galileo non riusciva ancora a rendersi conto della po rtata immensa delle sue scoperte. Aveva definitivamente distrutto la visione stereotipata, immutabile e rigida dell’Universo ed aveva offerto al suo Signore ed alla conoscenza dell’uomo un bene inimmaginabile.
Le foto del presente capitolo sono state tutte eseguite da uno degli autori  attraverso strumentazione amatoriale. Eppure le immagini, sia per la moderna tecnologia sia per l’utilizzo di raffinate elaborazioni al computer, sono enormemente più nitide e precise delle lontane osservazioni galileiane. Ma cosa avrebbe saputo fare Galileo se fosse nato al giorno d’oggi?

Domenico Licchelli, Vincenzo Zappalà

Per saperne di più:

Il Genio di Martano e le farfalle del mare – Omaggio a Salvatore Trinchese – Domenico Licchelli

Gli appassionati di documentari sulla vita nel mare e, soprattutto, quanti si dedicano all’attività subacquea per osservarla e fotografarla rimangono senz’altro affascinati dall’incontro con degli strani animaletti, che assomigliano alle lumache senza conchiglia dei giardini, ma a differenza di queste hanno disegni e colorazioni fantastiche, ancora di più messe in evidenza dalla presenza, sui fianchi o sul dorso, di ciuffi di appendici che fluttuano nell’acqua contribuendo alla straordinaria eleganza di movimento dei loro proprietari.

Sono i nudibranchi, “lumache” marine come i Murici, le Cipree e i Coni che, a differenza di questi, hanno rinunciato alla conchiglia e respirano anche attraverso i ciuffi di appendici, dette papille.

I nudibranchi fanno parte dei molluschi Opistobranchi (da opisten = posteriore e branchion = branchie), una sottoclasse dei Molluschi Gasteropodi, cui appartengono appunto Murici, Cipree e Coni oltre a tanti altri dotati di conchiglia, che a loro volta costituiscono una delle classi del grande tipo dei Molluschi, che comprende anche i più noti Polpi, Calamari e Seppie.

Gli Opistobranchi hanno suscitato l’interesse scientifico di alcuni tra i più famosi biologi dell’Ottocento, anche italiani e tra questi due di particolare interesse per il nostro spigolare nel patrimonio scientifico salentino: Achille Costa, figlio di Oronzo Gabriele di cui abbiamo già parlato, e Salvatore Trinchese.

Salvatore Trinchese

Salvatore Trinchese

La biografia di Salvatore Trinchese, nato a Martano, in provincia di Lecce, nel 1836 e morto a Napoli nel 1897, è quella di un grande nel panorama della biologia ottocentesca. Infatti subito dopo la laurea in medicina, conseguita nel 1860 a Pisa dopo aver concluso brillantemente gli studi presso il Collegio S. Giuseppe di Lecce, egli ottenne una borsa di studio per il perfezionamento all’estero in scienze naturali che portò a termine a Parigi frequentando i più prestigiosi laboratori del momento.

Durante quel periodo egli definì i campi di ricerca cui avrebbe dedicato la sua attività futura e tra questi un posto preminente avrebbero avuto gli studi sulla struttura e la fisiologia dei Molluschi Gasteropodi con particolare attenzione agli Opistobranchi, tanto che Riccardo Cattaneo-Vietti così scrive nel volume celebrativo pubblicato nel 1989 a cura di Guido Cimino per conto della Biblioteca Civica di Martano:

“La ricerca scientifica di Salvatore Trinchese si intreccia indissolubilmente con la storia naturale di un poco conosciuto, ma interessante, gruppo di Molluschi: i Gasteropodi opistobranchi.

Chiamato alla direzione del Museo di Storia Naturale dell’Università di Genova nel 1865 in qualità di professore straordinario, inizia in questa città ad occuparsi di questi Molluschi marini che, con la collaborazione di Clemente Biasi, raccoglie lungo le scogliere della costa genovese. Trasferitosi prima a Bologna e successivamente presso l’Università napoletana, continua a studiare questo gruppo praticamente fino alla morte…

L’attenzione di Trinchese si rivolge a quegli Opistobranchi che presentano sul dorso una serie di papille, chiamate cerata, nelle quali spesso si inseriscono i diverticoli epatici e che talvolta hanno anche funzione respiratoria. Questo sottogruppo, allora genericamente riunito sotto il nome di Eolididi, è formato da almeno due diversi ordini di Opistobranchi, gli Ascoglossa e i Nudibranchia.”

Nelle sue ricerche sulla struttura dei vari organi dei molluschi e sulle loro funzioni Trinchese sfrutta sapientemente la sue notevoli doti di microscopista, ma non trascura i problemi riguardanti la classificazione, giungendo a proporre nuovi generi e nuove specie, alcuni dei quali hanno ricevuto conferma dagli studi successivi.

Per sottolineare la grande importanza degli studi condotti da Trinchese così continua Cattaneo-Vietti:

“In alcuni suoi lavori vengono anche riportate informazioni sulla frequenza delle varie specie in determinate aree (ad esempio lungo il litorale genovese); e ciò è molto importante per comprendere come si è modificata la situazione ambientale negli ultimi cent’anni lungo le coste mediterranee per effetto dell’antropizzazione del litorale. Molte specie segnalate da Trinchese sono diventate oggi rare, probabilmente a causa delle modificazioni avvenute nell’orizzonte superiore del piano infralitorale, come già mise in evidenza Haefelfinger (1963).…

Purtroppo il fatto che abbia pubblicato in lingua italiana è stato un serio impedimento alla diffusione e comprensione della sua opera.”

I risultati di 25 anni di ricerche condotte da Trinchese sui molluschi tra Genova e Napoli sono contenuti in 46 pubblicazioni, e l’opera principale porta il titolo Aeolididae e famiglie affini del porto di Genova, illustrata con 115 tavole prevalentemente a colori fatte di sua mano, pubblicata in due parti nel 1877 e nel 1881, che conseguì il premio reale dell’Accademia dei Lincei (alcune sono riportate di seguito).

Per comprendere la passione da lui posta nello studio di questi Molluschi basta leggere come lui si rivolge al lettore della sua opera:

“I naturalisti che studiarono prima di me l’interessante famiglia delle Aeolididae, o non si curarono di rappresentarle o le rappresentarono in modo rozzo e infedele. Se si eccettuano alcuni schizzi veramente belli di C. Semper e di Alder e Hanckoc, si può affermare, senza pericolo di dare nell’esagerato, che tutte le figure di Aeolididae pubblicate dai miei predecessori sono affatto inutili. Si desiderano in esse quei caratteri di forma e di colore che guidano con sicurezza il naturalista nel riconoscere le specie. Per mettere in evidenza siffatti caratteri, ho rappresentato uno o due individui di ogni specie come li vedevo osservandoli col microscopio binoculare di Nachet. Tenendo presenti le mie figure, il mio inserviente determina le specie colla sicurezza d’un zoologo provetto. Ciò nonostante, esse non si possono dire veramente belle, poiché non ritraggono con pari fedeltà i colori. L’azzurro di queste creature è zaffiro orientale, il giallo è oro di coppella e il bianco neve intatta ripercossa dai raggi del sole. I loro colori hanno un non so che di vivo, di animato, di luminoso che noi non possiamo ritrarre fedelmente colle smorte tinte delle nostre tavolozze. I colori delle farfalle e delle paradisee sono certamente splendidi, ma non hanno il fascino di quelli veduti attraverso un velo d’acqua salata.

Le Aeolididae pur ora tolte dal mare, sono una delle più splendide manifestazioni del bello; ma tenute in cattività negli acquari, perdono in breve la vivacità dei loro colori.”……..

(estratto da Non solo Barocco)

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Molluschi Aeolididei del porto di Genova. Tavole opera di Salvatore Trinchese. Cortesia Dott. Lorenzo Carlino

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Molluschi Aeolididei del porto di Genova. Tavole opera di Salvatore Trinchese. Cortesia Dott. Lorenzo Carlino

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Molluschi Aeolididei del porto di Genova. Tavole opera di Salvatore Trinchese. Cortesia Dott. Lorenzo Carlino

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Molluschi Aeolididei del porto di Genova. Tavole opera di Salvatore Trinchese. Cortesia Dott. Lorenzo Carlino

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Molluschi Aeolididei del porto di Genova. Tavole opera di Salvatore Trinchese. Cortesia Dott. Lorenzo Carlino

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Molluschi Aeolididei del porto di Genova. Tavole opera di Salvatore Trinchese. Cortesia Dott. Lorenzo Carlino

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Molluschi Aeolididei del porto di Genova. Tavole opera di Salvatore Trinchese. Cortesia Dott. Lorenzo Carlino

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Molluschi Aeolididei del porto di Genova. Tavole opera di Salvatore Trinchese. Cortesia Dott. Lorenzo Carlino

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Molluschi Aeolididei del porto di Genova. Tavole opera di Salvatore Trinchese. Cortesia Dott. Lorenzo Carlino

Ai giorni nostri la possibilità di portare sott’acqua attrezzature fotografiche sofisticate, corredate di obiettivi e lenti specifiche, consente ai fotografi subacquei la documentazione fedele della straordinaria bellezza delle varie specie di nudibranchi presenti nei siti di immersione. Abbiamo perciò la possibilità di comprendere ed apprezzare lo straordinario lavoro di Salvatore Trinchese direttamente sul campo.

Nel Mediterraneo si conoscono 272 specie di nudibranchi, molte delle quali descritte solo negli ultimi decenni. Ancora oggi se ne scoprono di nuove e si rivedono le classificazioni grazie soprattutto all’utilizzo delle tecniche di analisi molecolare.

La ricerca e la documentazione degli opistobranchi salentini sta diventando sempre più una delle attività preferite dai membri dell’Associazione Culturale Salento Sommerso. Negli anni abbiamo documentato la presenza di parecchie decine di specie già note e segnalato altre di cui non se conosceva ancora la presenza nelle nostre acque (sono in preparazione alcuni lavori al riguardo che pubblicheremo a breve su riviste specializzate del settore).

Ma quali sono le caratteristiche che rendono così affascinanti questi straordinari animaletti?

T.E.Thompson scrisse che “Gli opistobranchi stanno ai molluschi come le orchidee alle angiosperme e le farfalle agli artropodi”

A differenza di molti dei loro viscidi omologhi terrestri i nudibranchi sono creature incredibilmente belle! Se si ha la fortuna di avvistarne uno mentre striscia sul fondo o abbarbicato su qualche cespuglio di idrozoi, basta osservarlo per qualche minuto per capire perché molti scienziati e fotografi subacquei sono affascinati da queste creature delicate e graziose, non a caso definite le farfalle del mare.

Cratena peregrina alla ricerca di colonie di Eudendrium di cui si nutre

Cratena peregrina alla ricerca di colonie di Eudendrium di cui si nutre

I nudibranchi sono molluschi gasteropodi, appartengono cioè allo stesso phylum che comprende molte conchiglie che si possono rinvenire lungo le spiaggie dopo una mareggiata. Contrariamente a queste, però, i nudibranchi hanno evoluto un aspetto del corpo molto diverso in quanto il loro stile di vita non richiede più di circondarsi di un guscio protettivo, come vedremo più avanti. Il corpo è morbido e carnoso, si muovono facendo leva su un lungo piede muscolare (in modo simile alle lumache di terra) ed hanno delle appendici cefaliche dette rinofori che usano con funzione tattile e per percepire segnali chimici dall’ambiente circostante.

 Felimare picta o doride dipinto, un colosso tra i nudibranchi potendo raggiungere i 20cm di lunghezza

Felimare picta o doride dipinto, un colosso tra i nudibranchi potendo raggiungere i 20cm di lunghezza

Esemplare di discrete dimensioni di Felimida purpurea

Esemplare di discrete dimensioni di Felimida purpurea

Alcuni nudibranchi hanno sulla schiena, verso la zona posteriore del corpo, un folto gruppo di branchie che usano per la respirazione e che possono essere ritratte (Doridini). Altri hanno strutture tentacolari su tutto il corpo, sempre esposte, dette cerata, che sono utilizzate sia per la respirazione che per la difesa e che contengono anche rami del tratto digestivo (Aeolidini).

Juvenile di Felimare picta con in primo piano il ciuffo branchiale

Juvenile di Felimare picta con in primo piano il ciuffo branchiale

Coppia di Coryphella pedata intente a cibarsi di idrozoi del genere Eudendrium

Coppia di Flabellina pedata intente a cibarsi di idrozoi del genere Eudendrium. Gli evidenti cerata terminano con le punte bianche

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Splendido esemplare di Dondice banyulensis in atteggiamento difensivo con i cerata sollevati

Bell'esemplare di Felimare tricolor. Sono evidenti i rinofori, il ciuffo branchiale e lapertura genitale

Bell’esemplare di Felimare tricolor. Sono evidenti i rinofori, il ciuffo branchiale e l’apertura genitale

Vivono sui fondali di tutto il mondo sotto la zona intertidale, da pochi centimetri dalla superficie fino a 15-20 metri ed oltre. Scivolano usando il loro piede muscolare su sedimenti, alghe, rocce, spugne, coralli e altri substrati, spesso adottando colorazioni e textures simili a quelle di tali substrati al fine di ottenere una mimetizzazione molto efficace. Se si tiene conto poi che per quasi tutte le specie mediterranee le dimensioni sono dell’ordine del cm, è evidente che si richiede al fotografo ed al naturalista che li cercano un grande spirito di osservazione ed una pazienza infinita.

Platydoris argo ben mimetizzati sul fondale

Platydoris argo ben mimetizzati sul fondale

I nudibranchi sono carnivori e si nutrono di ogni sorta di creature (idroidi, tunicati, spugne, anemoni, solo per citarne alcuni) e talvolta anche di altri nudibranchi. All’interno dell’apparato boccale hanno una particolare struttura dentata, chiamata radula, specializzata per un certo tipo di alimento, che ne costituisce un importante elemento di differenziazione (anche se a volte non sufficiente per una corretta classificazione tassonomica).

Flabellina ischitana intenta a predare i polipi di un idroide del genere Eudendrium (Eudendrium racemosum)

Flabellina ischitana intenta a predare i polipi di un idroide del genere Eudendrium (Eudendrium racemosum)

Poiché i nudibranchi non hanno guscio protettivo, hanno bisogno di altri tipi di protezione dai potenziali predatori. Essi adottano varie strategie: alcuni si mimetizzano perfettamente con il substrato, altri al contrario esibiscono colori molto vivaci e ben visibili ai predatori per avvertirli della loro tossicità (colorazione aposematica). Quest’ultima è così efficiente che viene adottata anche da molti vermi piatti come i Platelminti che, ad una prima occhiata, possono essere scambiati per nudibranchi (la forma del corpo però svela immediatamente che si tratta di un travestimento).

 Cuthona caerulea, un gioiello concentrato in pochi millimetri

Cuthona caerulea, un gioiello concentrato in pochi millimetri

Prostheceraeus giesbrechtii, appartenente al phylum dei platelminti, o vermi piatti. Sono un ottimo esempio di mimetismo batesiano, nel senso che imitano le colorazioni dei tossici nudibranchi per evitare di essere predati

Prostheceraeus giesbrechtii, appartenente al phylum dei platelminti, o vermi piatti. Sono un ottimo esempio di mimetismo batesiano, nel senso che imitano le colorazioni dei tossici nudibranchi per evitare di essere predati

Thuridilla hopei. Anche se potrebbe sembrare a prima vista un nudibranco in realtà è un opistobranco sacoglosso

Thuridilla hopei. Anche se potrebbe sembrare a prima vista un nudibranco in realtà è un opistobranco che appartiene all’ordine dei sacoglossi

Alcuni nudibranchi possono anche secernere sostanze chimiche tossiche o acide quando sono disturbati. Gli Aeolidini poi, che si nutrono di cnidari, un gruppo che comprende anemoni, coralli e idroidi, hanno sviluppato un’altra incredibile abilità. Gli cnidari posseggono speciali cellule urticanti a forma di arpione, dette nematocisti, che utilizzano a scopo difensivo. I nudibranchi Aeolidini riescono a cibarsene senza causare l’attivazione delle nematocisti per poi trasferirle fino alle punte dei cerata dove, conservandole in apposite strutture dette cnidosacchi, diventano un efficace meccanismo di difesa acquisito.

I nudibranchi sono tutti ermafroditi simultanei, possiedono cioè sia gli organi riproduttivi maschili che femminili, con le aperture genitali sul lato destro. In certi periodi non è raro assistere a fecondazioni incrociate che portano al rilascio di masse di uova, di solito a forma di spirale o di nastri arrotolati, generalmente deposte in prossimità o direttamente sull’animale di cui si nutrono.

Felimida krohni in fase riproduttiva. Le dimensioni dei due esemplari sono inferiori al cm

Felimida krohni in fase riproduttiva. Le dimensioni dei due esemplari sono inferiori al cm

I loro cicli vitali sono legati a vari fattori ambientali tra cui la temperatura dell’acqua e, ovviamente, la disponibilità del loro alimento preferito ma, seppur con una grande variabilità, è possibile incontrare qualche esemplare delle varie specie durante tutto l’anno. II titolo di presenzialista spetta alla Peltodoris atromaculata o vacchetta di mare, facilmente visibile sulla spugna Petrosia ficiformis di cui si nutre avidamente. Nel coralligeno, in grotta e in tutti gli ambienti in cui vi è la spugna ospite, questo nudibranco è una presenza pressochè costante.

Coppia di Peltodoris atromaculata, dette anche vacchette di mare, intente nell'ovopositura

Coppia di Peltodoris atromaculata, dette anche vacchette di mare, intente nell’ovopositura. Notare la superficie biancastra della spugna Petrosia ficiformis messa a nudo dai nudibranchi con la loro radula

Per individuare buona parte degli altri nudibranchi è indispensabile adottare una filosofia di immersione da naturalisti, in cui l’osservazione minuziosa di ogni centimetro quadrato di fondale è il modus operandi più consono ed efficace. Il premio che si riceve, però, è l’osservazione nel loro habitat di alcune delle più spettacolari ed intriganti creature del mare, che non mancheranno di affascinare il subacqueo attento. E anche quando il manometro  imperiosamente lo costringerà a risalire in superficie, non vedrà l’ora di tornare sott’acqua per godere ancora una volta di una delle più splendide manifestazioni del bello, per dirla con le parole del grande Salvatore Trinchese.

Domenico Licchelli, Livio Ruggiero – 2014

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