Mondi alieni – Giulia Alemanno

Ognuno di noi almeno una volta si è sicuramente posto questa domanda osservando l’immensità del cielo stellato o guardando uno dei tanti film di fantascienza. La possibilità di altre vite oltre la nostra ha da sempre affascinato tutti. E’ nato così il mito degli alieni dalle antenne verdi. Esseri misteriosi, molto diversi da noi. Antennine verdi a parte, la verità è che non possiamo escludere la possibilità che nell’Universo ci sia qualcun altro. Basti pensare che nella nostra Galassia esistono circa 400 miliardi di stelle e l’intero Universo contiene 100 miliardi di galassie (ad oggi conosciute). Attorno a queste miriadi di stelle orbitano pianeti più o meno simili a quelli del nostro Sistema Solare. Tali pianeti sono chiamati extra-solari o esopianeti.

File:Titan multi spectral overlay.jpg

Photograph of the Saturn moon Titan in False Color, taken by the Cassini space probe with ultraviolet and infrared camera on 26 Oct. 2004. Red and green colors represent infrared wavelengths and show areas where atmospheric methane absorbs light. Blue represents ultraviolet wavelengths and shows the high atmosphere and detached hazes.

Prima di spostare la nostra attenzione verso gli spazi siderali siamo sicuri che non ci siano altre forme di vita nel nostro sistema solare, presenti o passate? In ordine di interesse il primo posto dove cercare è Marte per la sua maggiore somiglianza alla Terra. Su Marte sono state trovate evidenti prove di antica presenza di acqua allo stato liquido, come strutture fluviali analoghe a quelle presenti sulla Terra. Inoltre sulla superficie del pianeta sono presenti depositi carbonatici che si formano appunto in presenza di acqua liquida. Ma di Marte parleremo approfonditamente in uno dei prossimi articoli. Dall’analisi delle caratteristiche generali degli altri pianeti che compongono il Sistema Solare possiamo comprendere come le loro condizioni siano così estreme e quindi inadatte allo sviluppo di forme di vita così come noi le conosciamo. Partiamo da Mercurio, il pianeta più vicino al Sole. Proprio tale vicinanza fa sì che Mercurio sia caratterizzato da sbalzi termici molto forti. Le temperature variano, infatti, da un massimo di 700 °K nell’emisfero esposto al Sole ad un minimo di 170 °K nell’emisfero in ombra. Procedendo in ordine di distanza crescente dalla nostra stella passiamo a Venere che ha grandi somiglianze con il nostro pianeta: più o meno stessa massa, densità e dimensioni; ma nonostante ciò è molto diverso dalla Terra. Venere ha un’atmosfera molto spessa costituita prevalentemente da anidride carbonica per circa il 90% in cui sono presenti nubi costituite prevalentemente da goccioline di acido solforico mescolate con gocce d’acqua. Queste nubi rendono impossibile osservare direttamente la superficie del pianeta. Inoltre l’anidride carbonica provoca un elevato effetto serra, cosicché al suolo si raggiungono temperature che raggiungono i 750 °K. Dopo la Terra e Marte abbiamo Giove, Saturno, Urano e Nettuno, i cosiddetti pianeti giganti. Questi ultimi sono costituiti prevalentemente da gas e presentano un nocciolo roccioso molto piccolo rispetto alle dimensioni del pianeta stesso. Quindi ad eccezione di Terra e Marte, gli altri pianeti del Sistema Sole sono di scarso interesse nell’ambito della ricerca di forme di vita. L’attenzione è rivolta, invece, verso alcuni dei maggiori satelliti di Giove e Saturno, in particolare Europa e Callisto per il primo, Titano per il secondo. Europa ha una superficie interamente ricoperta da una spessa coltre di ghiaccio (circa 150 km) al di sotto della quale si suppone si estenda un nucleo roccioso. Ciò è stato ricavato in base all’analisi della densità del pianeta. Grazie all’interpretazione delle immagini inviate dalle sonde Voyager e Galileo si pensa che la coltre di ghiaccio sia separata dal nucleo roccioso da acqua liquida. Alcune immagini rilevano la presenza di iceberg mobili. L’oceano liquido viene preservato grazie alla dissipazione del calore per effetto delle forze di marea. Si ritiene che anche Callisto possa avere un oceano sotto la crosta, la cui presenza è stata rilevata sulla base di misure del campo magnetico del satellite. E’ stato osservato che tale campo magnetico è variabile in relazione alla posizione del corpo rispetto al campo magnetico di Giove. Ciò è indice della presenza di uno strato di fluido conduttivo. Abbiamo infine Titano, il maggiore satellite di Saturno. Titano presenta una densità 1,88 volte maggiore rispetto a quella dell’acqua ed è grande più o meno quanto il pianeta Mercurio. La caratteristica che rende interessante Titano è la presenza di un’atmosfera estremamente somigliante a quella della Terra. L’atmosfera di Titano è ricca di molecole organiche. Analisi della sua composizione rivelano la presenza di azoto molecolare (che costituisce circa l’90% dell’atmosfera), metano e tracce di idrocarburi, nitrili, ossido carbonio e anidride carbonica. Tuttavia su Titano non è possibile trovare acqua allo stato liquido poiché esso presenta una temperatura molto bassa pari circa a 94 °K. Nonostante ciò esso è importante perché ci permette di studiare come interagiscono le molecole organiche in assenza di acqua.

Alla luce di queste considerazioni è chiaro perché col tempo e col progresso tecnologico dei rivelatori, l’attenzione si sia spostata verso i potenziali pianeti orbitanti attorno ad altre stelle. Gli esopianeti furono scoperti per la prima volta nel 1994 grazie agli studi delle perturbazioni gravitazionali indotte da questi corpi sul moto della stella attorno alla quale orbitano. Esistono differenti metodi per poter individuare un esopianeta. Primo fra tutti è il metodo della velocità radiale che sfrutta il fenomeno dell’effetto doppler. Se la nostra stella ha un esopianeta, i due corpi costituiscono un sistema doppio e si muovono attorno al comune centro di massa. Per effetto di questo movimento noi osserviamo periodicamente un avvicinamento della stella, che si traduce in uno spostamento verso le lunghezze d’onda del blu nello spettro (blue shift), ed un allontanamento (red shift). Tale fenomeno sarà tanto più evidente quanto più grande e più vicino alla stella è il pianeta in questione. Ecco perché i primi pianeti ad essere stati scoperti sono pianeti gioviani, simili al nostro Giove, di grande massa e con orbite molto vicine alla stella madre. Le misure astrometriche permettono, invece, di determinare con estrema precisione la posizione di una stella rispetto ad altre stelle poste nelle sue vicinanze. In questo modo si è in grado di rilevare piccoli spostamenti nella posizione di una stella dovuti alle oscillazioni della stessa provocate dal pianeta orbitante al suo intorno. Grazie ad Einstein e ad uno dei suoi grandi risultati della teoria della Relatività Generale, è stato possibile sviluppare il metodo della microlente gravitazionale. Noi sappiamo che la luce si propaga in linea retta nello spazio ma Einstein ci dice che la presenza di grandi masse curva lo spazio. La luce viene così deviata. Quando un pianeta transita davanti alla sua stella lungo la linea di vista dell’osservatore la gravità del pianeta si comporta come una lente. I raggi vengono concentrati e si produce così un aumento della luminosità apparente e un cambiamento nella posizione della stella. Sebbene non sia un’impresa semplice, grazie soprattutto a sensori specializzati montati sui grandi telescopi oggi si è in grado di fotografare direttamente gli esopianeti. Si utilizzano sostanzialmente due metodi per riuscire a nascondere la luce della stella madre e realizzare una foto dell’esopianeta presente al suo intorno. Si sfrutta il metodo della coronografia che utilizza un dispositivo di mascheratura speciale per occultare la luce della stella. Oppure vi è il metodo interferometrico che utilizza delle ottiche specializzate per combinare la luce proveniente da diversi telescopi e farla interferire in modo tale che le onde di luce prodotte dalla stella si annullino. Resta così solo la luce dell’esopianeta. Abbiamo, infine, il metodo del transito. L’esopianeta viene individuato misurando la diminuzione di luminosità della sua stella durante l’eclissi, ovvero quando il corpo transita davanti alla stella. Studiando poi il periodo di oscillazione della stella si ricava il periodo di rivoluzione del pianeta, mentre la sua massa si determina studiando l’entità delle oscillazioni.  

Fu il radio astronomo Alexander Wolszczan a scoprire i primi pianeti extra solari. Studiando le variazioni regolari dei segnali radio di una pulsar egli dedusse la presenza di tre oggetti di dimensione planetarie attorno alla stella. Il primo pianeta extra-solare orbitante attorno ad una stella simile al nostro Sole fu scoperto, invece, dagli astronomi svizzeri Michel Major e Didier Queloz nel 1995 sfruttando il metodo della velocità radiale. Si tratta di un corpo su per giù grosso quanto Giove che orbita attorno alla stella 51 Pegasi. I primi pianeti extra-terrestri a essere stati scoperti sono per lo più pianeti gassosi, simili a Giove, insomma i pianeti giganti, proprio perché hanno una maggiore influenza sulla stella attorno alla quale orbitano.

Ad oggi sono stati classificati tre tipi differenti di pianeti extra-solari:
– I “Giove caldi”, esopianeti gassosi sopra citati;
– I giganti di ghiaccio;
– Pianeti Earth Like, simili cioè al nostro Pianeta

Questi ultimi sono stati scoperti per lo più grazie alla missione Kepler della NASA, il cui principale obiettivo era proprio quello di trovare pianeti simili alla nostra Terra nella zona abitabile della loro stella. Tali pianeti potrebbero, infatti, contenere acqua allo stato liquido e forse vita. Kepler sfruttava il metodo dei transiti. Se un pianeta transita davanti al disco della sua stella madre, la luminosità osservata della stella diminuisce di una piccola quantità che dipende dalle dimensioni relative della stella e del pianeta e dalla relativa geometria rispetto alla Terra.

Ad esempio, nel caso di HD209458-b riportato nell’immagine sopra, la diminuzione della luminosità della stella causata dal transito è dell’1,7%, una quantità piccola ma misurabile con precisione adottando opportune tecniche di acquisizione e riduzione dei dati fotometrici.

Kepler ha monitorato per quasi 4 anni 150000 stelle poste in una piccola regione di cielo compresa tra le costellazioni del Cigno, della Lira e del Dragone. Lavorando nello spazio ha potuto raggiungere una precisione fotometrica nettamente superiore a quella ottenibile da qualunque telescopio terrestre. Dall’inizio della missione a luglio 2013, Kepler ha scoperto 134 esopianeti confermati in 76 sistemi stellari, insieme con altri 3.277 candidati pianeti non confermati. Nel novembre 2013 gli astronomi hanno riferito che, sulla base dei dati della missione Kepler, potrebbero esistere fino a 40 miliardi di pianeti delle dimensioni della Terra che orbitano nelle zone abitabili di stelle simili al Sole e alle nane rosse all’interno della Via Lattea. 

Tra gli esopianeti individuati dalla missione Kepler vi è Kepler 78b, il pianeta più simile alla Terra mai osservato. Si tratta di un esopianeta orbitante attorno ad una stella distante circa 700 anni luce da noi. Kepler 78b è inoltre il più piccolo esopianeta di cui si è riusciti a misurare massa, raggio e densità con elevata precisione. Le misure sono state effettuate utilizzando il metodo della velocità radiale. In questo caso l’effetto doppler è accentuato dalla vicinanza tra il pianeta e la sua stella madre, pari a meno di 2 raggi stellari. Il tutto è stato reso possibile grazie allo studio delle variazioni di luce della stella madre di Kepler 78b attraverso lo spettrometro HARPS-N del Telescopio Nazionale Galileo delle Canarie e lo spettrometro Hires del Keck Observatory delle Hawaii. Secondo le misure effettuate da Francesco Pepe e colleghi, riportate sulla rivista “Nature”, Kepler 78b ha una massa pari circa a 1,86 masse terrestri e una densità di 5,3 g/cm^3. Risultati compatibili sono stati ottenuti da Andrew W. Howard e colleghi, i quali nel loro articolo pubblicato sulla stessa rivista hanno riportato una massa pari a 1,96 masse terrestri e una densità pari a 5,57 g/cm^3. Tale densità rivela una composizione di ferro e roccia, proprio come la Terra. Ma c’è una differenza sostanziale tra Kepler 78b e il nostro pianeta. Si tratta dell’elevata vicinanza dell’esopianeta alla sua stella madre. Così la superficie del pianeta raggiunge temperature molto elevate pari circa a 2000°C. Ciò rende Kepler 78b inospitale.

This illustration compares Earth with the newly confirmed scorched world of Kepler-78b. Kepler-78b is about 20 percent larger than Earth and is 70% more massive. Kepler-78b whizzes around its host star every 8.5 hours, making it a blazing inferno. Credit: David A. Aguilar (CfA)

Tuttavia la scoperta di questo esopianeta e delle sue caratteristiche ottenuta grazie ad una collaborazione internazionale a cui ha partecipato l’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF) rappresenta un’importante tappa nello studio degli esopianeti. Dopo la scoperta di 135 esopianeti e 3548 “candidati esopianeti”, cioè oggetti da verificare attraverso altre osservazioni, la NASA ha dichiarato la fine della missione Kepler a causa di un guasto ai giroscopi. Ma tra soli tre mesi partirà la missione GAIA il cui obiettivo è quello di misurare con estrema precisione velocità e posizione radiale di circa un miliardo di stelle nella nostra Galassia e in tutto il Gruppo Locale. GAIA traccerà una mappa tridimensionale della nostra Galassia al fine di studiarne composizione ed evoluzione. Fino ad ora sono stati scoperti 787 sistemi planetari, 1039 pianeti e 173 sistemi planetari multipli. Si può consultare la lista di questi oggetti al seguente link: http://exoplanet.eu/catalog/ .

Negli ultimi anni è stato poi ottenuto un risultato notevole: si è riuscito a rilevare per la prima volta la radiazione emessa direttamente da un esopianeta attraverso lo studio della luminosità della stella durante la cosiddetta eclissi secondaria. Quest’ultima si verifica quando l’esopianeta transita dietro alla sua stella. Durante tale eclissi la luce è prodotta solo dalla stella, quindi si sfrutta questo dato per ricavare la luce dell’esopianeta e della sua atmosfera sottraendo la luce stellare a quella totale del sistema quando il pianeta non è eclissato. Tale analisi fatta a differenti lunghezze d’onda consente di costruire lo spettro dell’atmosfera dell’esopianeta. E’ iniziato così lo studio delle atmosfere esoplanetarie. Tali studi sono stati effettuati in un primo momento solo sui cosiddetti “Giove caldi”, ovvero esopianeti molto simili a Giove, a causa delle loro maggiori dimensioni. A differenza del nostro Giove però questi esopianeti osservati hanno orbite 100 volte più vicine alla loro stella rispetto alla distanza tra Giove e il Sole. Calcoli effettuati sulla base delle osservazioni astronomiche hanno mostrato che i “Giove caldi” analizzati presentano una densità circa pari a 1 g/cm^3. E’ stato quindi, ipotizzato che il loro componente principale sia l’idrogeno e ciò fa sperare che tali atmosfere rispecchino la composizione primordiale dell’intero sistema planetario di cui fanno parte. Lo studio delle atmosfere è in sé molto complicato perché bisogna tener conto della complessità delle interazioni tra caratteristiche radiative, dinamiche e chimiche dell’atmosfera e forse anche dei campi magnetici. L’obiettivo per molti ricercatori è quello di riuscire a ottenere spettri delle atmosfere di esopianeti di tipo terrestre per riuscire a rispondere alla famosa domanda: “siamo soli?” Sono state inoltre individuate delle Super-Terre ovvero dei pianeti esterni al Sistema Solare molto simili alla Terra ma con massa e raggio maggiori rispetto ad essa. Questi pianeti orbitano attorno a nane rosse probabilmente a una distanza 10-100 volte inferiore rispetto alla distanza Terra – Sole. Essendo la temperatura delle nane rosse inferiore a quella del Sole, questi pianeti potrebbero trovarsi nelle condizioni favorevoli per avere acqua allo stato liquido sulla loro superficie. Attorno a nane rosse sono stati poi individuati i cosiddetti pianeti nettuniani, con masse pari a 10-15 volte la massa della Terra. Su uno di essi in particolare, GJ3470b, si è focalizzata l’attenzione dei ricercatori dell’INAF (Istituto Nazionale di Astrofisica). Grazie ai dati ottenuti attraverso l’utilizzo dell’LBT (Large Binocular Telescope), confrontando i valori di assorbimento alle varie lunghezze d’onda è stata ricavata la composizione gassosa dell’atmosfera, rivelando come essa sia per certi aspetti simile alla nostra. L’atmosfera di GJ3470b sembra, infatti, contenere elementi più pesanti rispetto a idrogeno ed elio. Questi elementi sono mescolati a pulviscolo che fa sì che l’atmosfera sia più sensibile alla diffusione della radiazione blu. Si pensa quindi che su questo pianeta ci sia un cielo azzurro molto simile al nostro. Sono state progettate così diverse missioni allo scopo di studiare meglio le atmosfere di questi esopianeti come l’Exoplanet Characterization Observatory (EChO) e il Fast Infrared Exoplanet Spectroscopy Survey Explorer (FINESSE).

Ma esistono altri modi per cercare esseri intelligenti in altri sistemi solari? In questo contesto si colloca il programma SETI acronimo di Search for Extra-Terrestrial Intelligence. L’idea è quella di riuscire a captare eventuali segnali radio inviati da esseri che vivono su altri pianeti e che come noi sono curiosi di sapere se sono soli o meno. L’idea di utilizzare le radio-onde per la comunicazione interstellare venne da due fisici della Cornell University, Giuseppe Cocconi e Philip Morrison. Questi ultimi proposero, nel 1959, di puntare i radiotelescopi verso stelle di tipo solare e di cercare segnali radio. Occorre però osservare il cielo alla giusta frequenza. Nel 1960 in West Virginia, Frank Drake, astronomo della Cornell University puntò il grande telescopio Tatel di ben 26 metri di diametro, verso le stelle Tau Ceti ed Epsilon Eridani. Iniziò così il primo moderno esperimento SETI. Drake osservò le due stelle alla frequenza di 1420 MHz, valore corrispondente alla linea di emissione dell’idrogeno neutro. Se si considera che l’idrogeno è il principale componente dell’Universo appare chiara l’importanza di tale linea di emissione. Essa viene utilizzata in radioastronomia per studiare l’estensione e il moto della nostra Galassia. Tuttavia uno dei maggiori problemi di questo progetto deriva dalla cosiddetta finestra temporale. Occorre cioè che le civiltà in questione siano sviluppate a tal punto da essere in grado ricevere e inviare messaggi nello spazio interstellare con tempistiche compatibili. Questa capacità è stata da noi acquisita da poco più di un secolo. Per cui, come spiega Margherita Hack: “Se anche il dialogo fosse possibile, il segnale partito da una stella a 100 anni luce da noi ci arriverebbe 100 anni dopo e la nostra risposta arriverebbe dopo altri 100 anni”. Nonostante l’utilizzo di strumenti sempre più sofisticati, per il momento l’esito degli esperimenti condotti è negativo. Il 15 Agosto del 1977 è stato captato un forte segnale radio a banda stretta che apparentemente non proveniva né dalla Terra né dal resto del Sistema Solare. Tale segnale, a cui venne dato il nome di “Segnale Wow!”, dal commento che il dottor Jerry R. Ehman scrisse a fianco ad esso, durò 72 secondi e non si ripeté mai più. Inoltre nel 2011 il SETI ha segnalato la ricezione di due altri strani segnali captati puntando le antenne verso alcuni esopianeti scoperti dalla missione Kepler. Anche questi segnali però, non si sono più ripetuti, pertanto si ritiene siano stati prodotti da interferenze terrestri. Nonostante ciò il programma SETI continua, anche senza il sostegno della NASA e del governo degli Stati Uniti che hanno perso il loro interesse. Il progetto viene quindi finanziato da privati o portato avanti da volontari nei radio osservatori.

In Italia il referente è Stelio Montebugnoli (INAF-IRA, Direttore SETI Italia e radiotelescopi di Medicina, Bologna).

Così la ricerca di altre forme di vita fuori e all’interno del nostro Sistema Solare continua senza sosta, con nuove missioni e strumenti sempre più avanzati. Chissà forse un giorno potremo riuscire ad abbracciare un nostro amico alieno, solo il tempo potrà dirlo. Tra l’altro molte cose che un tempo si consideravano impensabili, ora sono possibili.