La cometa C/2014 Q2 (Lovejoy) e le sue compagne di avventure – Anna Galiano

Comet C/2014Q2 Lovejoy taken by Gerald Rhemann on January 21, 2015 @ Puchenstuben, Lower Austria

La cometa C/2014 Q2 (Lovejoy) ha animato le ultime notti di Dicembre 2014 e ha permesso a tutti gli appassionati di astronomia di salutare il nuovo anno ammirando la sua spettacolare chioma e lunga coda. Il passaggio della Lovejoy nei cieli notturni è pertanto il fenomeno astronomico più ricercato di questo inizio 2015. Le comete sono corpi minori del Sistema Solare costituiti essenzialmente da aggregati di polveri e ghiacci. Quando questi corpi si avvicinano al perielio (ossia sono nella posizione di minima distanza dal Sole sulla propria orbita), la sublimazione dei ghiacci e l’espulsione delle polveri generano un’atmosfera gassosa attorno al nucleo, definita chioma, che ha solitamente un diametro dell’ordine di 104 – 105 km, e caratterizzata da una densità compresa tra 104 e 106 molecole/cm3. Il vento solare interagisce con la chioma e spinge il gas e le polveri in una direzione opposta al Sole, dando origine principalmente alle code di ioni e di polveri. Le code di ioni sono composte da particelle elettricamente cariche che si dispongono su di una traiettoria più o meno rettilinea modellata dal campo magnetico presente, mentre le code di polveri si presentano con una forma arcuata, che è il risultato della combinazione della pressione di radiazione solare e del moto orbitale della cometa. Infatti, le particelle solide espulse dal nucleo, poiché sono più pesanti rispetto agli ioni, sono attratte gravitazionalmente dal Sole e risentono anche della velocità orbitale della cometa. Pertanto, a seconda della massa, esse subiscono una deviazione differente e danno origine a quella disposizione della coda detta “a scimitarra”. Le code possono raggiungere lunghezze di milioni di km ed una larghezza compresa tra 1 e 2 milioni di km mentre la densità può variare mediamente tra 10 e 100 molecole/cm3.

C/2014 Q2 è stata osservata per la prima volta da Terry Lovejoy in Australia, divenendo la quinta cometa scoperta da questo esperto cacciatore di comete. Il metodo usato da Lovejoy per identificare questi corpi minori consiste nell’esaminare con attenzione il cielo orientale prima dell’alba e quello occidentale dopo il tramonto, facendo uso di una camera CCD al fuoco di un telescopio Schmidt-Cassegrain con un diametro di 20 cm. La tecnica è relativamente semplice. Lovejoy acquisisce immagini in sequenza di numerose porzioni di cielo distanziate di opportuni intervalli di tempo, dopo di che le analizza con un software in grado di effettuare un blinking tra le riprese riuscendo in questo modo ad individuare un eventuale oggetto in movimento, non presente nei vari cataloghi disponibili.

Tripletta di immagini del campo stellare osservato da Terry Lovejoy, grazie alle quali ha individuato la cometa C/2014 Q2.

In questo modo, il 17 Agosto 2014, analizzando le tre immagini del campo stellare in Figura 1, Lovejoy è stato in grado di individuare quella cometa che, spostandosi in senso antiorario rispetto alle stelle fisse, ha poi preso il suo nome. Nel comunicato ufficiale ha annunciato la scoperta con queste parole: “Oggetto di piccole dimensioni, ben condensato, con un diametro di 15” (secondi d’arco) ed una breve e debole coda di 1’ (primo d’arco) dalla magnitudine apparente di 15, in un campo affollato di stelle”.

Comet C/2011 W3 (Lovejoy) re-emerging from behind the Sun on Dec. 15, 2011. (NASA/SDO)

Terry Lovejoy è stato lo scopritore anche della cometa C/2011 W3 (Lovejoy). Scoperta il 27 Novembre 2011, è famosa per essere sopravvissuta ad un incontro molto ravvicinato con il Sole. Infatti C/2011 W3 (Lovejoy) fa parte delle comete Kreutz Sungrazing (conosciute anche come “comete radenti”), ossia caratterizzate da orbite con un perielio molto prossimo al Sole. L’astronomo tedesco Heinrich Kreutz dimostrò che queste particolari comete sono i resti di una cometa di dimensioni maggiori frammentatasi diversi secoli fa e che continuano a muoversi su orbite correlate tra loro. Le comete radenti, avvicinandosi così pericolosamente al Sole, sono in grado di sviluppare una chioma e delle code talmente luminose da essere visibili in pieno giorno e sono destinate pertanto a divenire “Grandi Comete”. Difficilmente però queste comete riescono a sopravvivere al passaggio al perielio, poiché inevitabilmente vengono maltrattate gravitazionalmente dalla nostra stella e spesso disintegrate dalle forze mareali. Eccezion fatta, per esempio, per la Grande Cometa del 1843 e per la C/2011 W3 (Lovejoy). Quest’ultima, in particolare, ha raggiunto il perielio il 16 Dicembre 2011 penetrando nella corona solare fino a 140000 km dalla superficie del Sole. Mentre il mondo scientifico osservava l’evento aspettandosi una sua probabile disintegrazione, la cometa ha sorpreso tutti riuscendo ad allontanarsi dalla nostra stella (Figura 2) e proseguendo lungo la propria orbita.

Descrizione della traiettoria della cometa Lovejoy. Si nota come l’inclinazione orbitale sia quasi ortogonale al piano del Sistema Solare, pari a 80.3 °.

Analogamente la cometa C/2014 Q2 sta facendo parlare di sé gli appassionati di astronomia di tutto il mondo, principalmente grazie alla sua spettacolare coda di ioni. La denominazione attribuitale indica che è una cometa a lungo periodo, ossia con un periodo orbitale maggiore di 200 anni e con un’inclinazione dell’orbita casuale. Infatti la sua inclinazione orbitale rispetto al piano del Sistema Solare è di 80.3° (Figura 3), suggerendo la sua probabile provenienza dalla Nube di Oort, il guscio sferico costituito probabilmente da parecchi miliardi di nuclei cometari che circonda il Sistema Solare e situato ben oltre l’orbita di Nettuno, tra 30000 AU (Astronomical Unit) e 100000 AU dal Sole, quasi a metà strada tra la nostra stella e quella a noi più vicina, Proxima Centauri (distante 250000 AU dal Sole). In più, l’elevata eccentricità (0.998) è un’ulteriore prova a sostegno della Nube di Oort come sito di provenienza della Lovejoy. Solitamente le comete a lungo periodo sono caratterizzate da un nucleo irregolare con dimensioni comprese tra 5 e 10 km, ma nel caso della Lovejoy non si sono potute effettuare analisi accurate a causa della chioma che lo nasconde alla visione diretta. Dotata di un semiasse maggiore di 578.50 AU, non è la prima volta che la cometa Lovejoy giunge nel Sistema Solare interno: il suo periodo orbitale originale era di 11500 anni, pertanto potrebbe essere stata osservata dai nostri antenati del Mesolitico che all’epoca utilizzavano la pietra per costruire armi e utensili. La cometa è giunta nuovamente nella regione planetaria nel 1950 ma questa volta le perturbazioni gravitazionali da parte dei pianeti maggiori hanno modificato la sua orbita cosicché, una volta abbandonato il Sistema Solare (nel 2050), il periodo orbitale diverrà di 8000 anni e il suo ritorno è dunque previsto per il 10000 d.C.

Quando Lovejoy ha osservato per la prima volta la cometa, la notte del 17 Agosto 2014, questa attraversava la costellazione australe della Poppa con una magnitudine apparente attorno alla 15-esima. A Dicembre era di settima, divenendo facilmente individuabile con un piccolo telescopio o un binocolo. Il nucleo cometario circondato dalla chioma, che negli strumenti ottici appare come una sfera sfocata, è diventato in seguito visibile ad occhio nudo sotto cieli bui. A tal proposito, è bene ricordare che il nostro occhio potenzialmente riesce a rilevare corpi celesti di magnitudine attorno alla sesta, ma in presenza di inquinamento luminoso questo valore è solo teorico. Nei primi giorni di Gennaio la cometa ha raggiunto una magnitudine apparente di 5, passando ad una distanza minima di 0.469 AU (circa 70000000 km) dalla Terra il 7 Gennaio. Il 12 Gennaio la magnitudine stimata di 3.8 l’ha resa un oggetto relativamente facile ma in ambiente cittadino è stato possibile osservarla solo grazie all’utilizzo di strumenti ottici. Nei giorni successivi, poiché la cometa si allontanava sempre di più dalla Terra la sua magnitudine apparente ha iniziato ad aumentare. Quando la cometa raggiungerà il perielio, il 30 Gennaio, passando ad una distanza di 1.29 AU (circa 193000000 km) dal Sole, risulterà sempre più difficile osservarla. Dopo aver attraversato la porzione di cielo tra la costellazione di Andromeda e Perseo a Febbraio, sfiorerà la stella polare verso fine Maggio con una magnitudine apparente prevista pari a 12.

Cometa Lovejoy e l’ammasso globulare M79

Le spettacolari foto scattate da tutto il mondo riprendono l’affascinante cometa durante il suo viaggio verso il Sole. In particolare, nella notte tra il 28 e il 29 Dicembre, C/2014 Q2, attraversando la costellazione della Lepre, è transitata vicino all’ammasso globulare M79. Di seguito sono riportati 5 immagini, acquisite in remoto in Namibia da Gerald Rhemann, che riprendono la cometa nelle notti tra il 21 Dicembre e il 28 Dicembre.

Comet C/2014Q2 Lovejoy Taken by Gerald Rhemann on December 28, 23, 21, 22, 27 2014 @ Farm Tivoli, Namibia, SW-Africa

Come già accennato è evidente che la chioma e le code della cometa C/2014 Q2 hanno colori differenti. Da un lato la chioma ha un colore verdastro, mentre la coda di ioni e la coda di polveri hanno rispettivamente un colore tendente al blu ed un tenue bianco giallastro.

“It was interesting that while taking the pictures it was possible to see changes in the tail/streamers”. Adam Block/Mount Lemmon SkyCenter/University of Arizona

Per spiegare queste differenti colorazioni si deve innanzitutto precisare che il nucleo roccioso di una cometa in generale è caratterizzato da un basso potere riflettente (detta albedo). Ossia mentre il ghiaccio puro riflette il 60-80% della radiazione solare incidente, il nucleo riesce a rifletterne meno del 10%. Ora, viene da chiedere, com’è possibile che il nucleo cometario, pur essendo composto da ghiaccio, rifletta una così ridotta percentuale di radiazione solare? In realtà, da quando questi agglomerati rocciosi e ghiacciati si sono formati, circa 4.5 miliardi di anni fa, sono stati bombardati da raggi cosmici, vento e radiazione ultravioletta solare. Tali interazioni hanno innescato dei meccanismi come la fotodissociazione: in questo processo la radiazione elettromagnetica scinde le molecole ghiacciate, dotate di un’elevata albedo, che compongono le sostanze volatili semplici del nucleo (CO, CO2, H2O, CH4, NH3) in una miscela di sostanze organiche con basso potere riflettente. Questo fenomeno permette anche la formazione di una crosta solida e porosa, dalle cui fratture fuoriescono (quando la cometa è in avvicinamento al Sole) getti di gas e polveri localizzati, innescando così l’attività cometaria e dunque la formazione della chioma.

L’indagine spettrale è il metodo maggiormente utilizzato per estrarre informazioni di natura chimica dalle comete. Lo studio di questi corpi minori ha aiutato a comprendere le condizioni chimico-fisiche che caratterizzavano il Sistema Solare nei primi periodi della sua formazione, avvenuta 4.5 miliardi di anni fa. Infatti, le comete sono dei corpi rocciosi e ghiacciati rimasti sostanzialmente inalterati sin dalla loro origine e pertanto sono considerati i “mattoni primordiali” del Sistema Solare attuale. Molto probabilmente si sono generati nelle regioni del Sistema Solare esterno in prossimità di Urano e Nettuno ed in seguito sono stati trasportati nella Nube di Oort a causa dell’interazione gravitazionale da parte di questi pianeti gassosi. Le analisi spettroscopiche, già a partire dagli anni ’40 del secolo scorso, hanno permesso di individuare la presenza di radicali e ioni chimicamente instabili all’interno dei nuclei cometari. Si ritiene che questi siano prodotti dalla fotodissociazione di ghiacci, molecole stabili e strutturalmente complesse identificate come “molecole genitrici”. Di conseguenza ai radicali ed agli ioni è stata attribuita la denominazione di “specie figlie”. Le molecole individuate erano: CO, CH4, CO2, N2, NH3, NH, CN o C2N2 (cianogeno), OH, CH3OH (metanolo), C2H6 (etano), HCOOH (acido formico), H2CO (formaldeide).

Mentre il nucleo può essere osservato per mezzo della ridotta luce solare riflessa, ciò che rende visibile la chioma è sia il processo di diffusione della luce da parte dei gas e delle polveri che la compongono, sia il fenomeno della fluorescenza innescato dalle molecole che sublimano dal nucleo sottostante. Queste molecole, infatti, transitando dallo stato solido a quello gassoso a causa del flusso solare che ricevono, assorbono la componente ultravioletta della radiazione (corrispondente all’intervallo dello spettro elettromagnetico con lunghezza d’onda compresa tra 100nm e 400nm), si eccitano e si diseccitano, emettendo radiazione con una lunghezza d’onda maggiore, corrispondente alla luce visibile tra 400nm e 700nm. Di conseguenza la chioma cometaria è caratterizzata da uno spettro continuo (dovuto alla diffusione della luce solare da parte delle polveri e dei gas) su cui sono sovrapposte delle righe e delle bande di emissione relative alle molecole che danno luogo al fenomeno della fluorescenza.

La polvere cometaria è in realtà composta da due componenti: i silicati (soprattutto olivina) con una densità media di 2.5 g/cm3 e le cosiddette “particelle CHON” ossia composte da Carbonio, Idrogeno, Ossigeno e Azoto, (C, H, O, N), con una densità media di 1 g/cm3. È stato dimostrato come la presenza di queste due componenti dipenda dalla distanza della cometa dal Sole: mentre la prima aumenta dal 10% al 97% quando la cometa si avvicina al perielio, la seconda diminuisce dal 90% al 3%. Solitamente le specie figlie possono essere individuate esaminando uno spettro cometario nel range del visibile, mentre le molecole genitrici sono più facilmente individuabili analizzando la regione dello spettro elettromagnetico relativa all’IR e alle onde radio. Le principali specie figlie rilevate in una cometa sono il radicale ossidrile (OH), l’ossido di carbonio (CO) e il cianogeno (CN). È stato dimostrato come OH sia il prodotto della dissociazione della molecola genitrice H2O, il principale costituente del nucleo cometario. Dall’analisi spettrale della cometa Hale-Bopp, meglio conosciuta come Grande Cometa del 1997, si sono ottenute importanti informazioni sulle molecole genitrici di queste tre specie. Quando la cometa era a 700 milioni di km (4.66 AU) dal Sole e dalla Terra tra Marzo e Aprile 1996, si è riusciti a rivelare una grande emissione di CO2 tramite la presenza della riga spettrale a 4.25 micron, ritenendola la molecola genitrice di CO. Il cianogeno CN sembra essere invece il segno dell’inizio dell’attività cometaria, poiché è legato alla dissociazione della crosta del nucleo. Quando la Hale-Bopp era a 6.82 AU (30 Agosto 1995) dal Sole è stata stimata, grazie alla presenza della riga di emissione attorno a 380nm, una quantità di CN pari allo 0.3% rispetto al CO. L’8 Aprile 1996, quando la cometa era a 4.7 AU, oltre al CN è stata notata la presenza dell’acido cianidrico (HCN), analizzando lo spettro cometario nel range corrispondente alle onde radio. CN e HCN erano presenti in simili abbondanze, di conseguenza venne dedotto che il cianogeno era il prodotto della dissociazione di HCN.

Sopra è riportato un grafico che mostra chiaramente la diversa abbondanza di molecole prodotte mentre la cometa Hale-Bopp si avvicinava al Sole, raggiungendo il perielio il 1 Aprile 1997. Lo studio è stato effettuato, sfruttando diversi radiotelescopi, da un team di ricercatori capeggiati da N. Bivier (Osservatorio di Parigi) nel periodo compreso tra Agosto 1995 (quando la cometa era a circa 6.9 AU dal Sole) e Gennaio 1997 (quando Hale-Bopp era a 1.4 AU dal Sole). Fino ad una distanza di 4.7 AU l’attività cometaria era caratterizzata principalmente dall’emissione di CO, prodotto dalla fotodissociazione di CO2. Il radicale OH ha prevalso sul CO quando la cometa ha raggiunto la distanza di 3 AU dal Sole. A distanze maggiori OH era presente in minima parte poiché la molecola genitrice del radicale, ossia l’acqua, a causa della ridotta temperatura, si staccava da nucleo cometario sotto forma di particelle di ghiaccio e non permetteva la dissociazione che invece è avvenuta in seguito. Tra 3 e 2 AU l’emissione di CO ha subito un’attenuazione: una possibile spiegazione di tale fenomeno consiste nell’ipotizzare una trasformazione della crosta cometaria da ghiaccio amorfo (permeabile) a ghiaccio cristallino (meno permeabile), ostacolando la fuoriuscita del monossido di carbonio. Inoltre, ad una distanza dal Sole inferiore a 3 AU, il metanolo (CH3OH) tendeva ad aumentare lievemente. Secondo diversi studi, l’abbondanza di metanolo nei nuclei cometari potrebbe suggerire la provenienza delle comete. Se si nota, tramite analisi spettrale, un’abbondanza di metanolo superiore al 3% rispetto all’abbondanza di acqua, molto probabilmente le comete provengono dalla Nube di Oort. Se invece la quantità di metanolo è inferiore al’1% rispetto all’acqua, la regione di provenienza è, presumibilmente, la più vicina Fascia di Kuiper. Per gli altri composti chimici l’aumento di emissione è risultata essere proporzionale all’avvicinamento al Sole.

Uno studio condotto da McKay A. J. et al., nel 2011 aveva lo scopo di comprendere se l’emissione di molecole potesse variare lungo la direzione di avvicinamento al Sole rispetto alla direzione opposta. Acquisendo lo spettro della cometa periodica 103P/Hartley nel visibile, prima e dopo il suo passaggio al perielio (avvenuto il 28 Ottobre 2010), si è potuto stimare la quantità di CN, C3, C2, CH ed NH2 emessi nella direzione verso il Sole (individuati dalle linee tratteggiate) e nella direzione opposta al Sole (individuati dalle linee continue). Analizzando gli spettri del cianogeno (CN) sembra che non ci sia alcuna asimmetria nella sua emissione. Infatti CN viene emesso dal nucleo cometario con uguale abbondanza sia lungo la direzione del Sole che in quella opposta. L’emissione di C3, C2, CH ed NH2 mostra, invece, delle asimmetrie nelle due direzioni. In particolare, sembra che C2 venga emesso nella direzione antisolare con una quantità superiore ad un fattore 2 rispetto a quella emessa lungo la direzione del Sole. Anche C3 viene emesso maggiormente nella direzione opposta al Sole, anche se il fattore di emissione è inferiore a 2. Come si evince dal grafico, inoltre, l’emissione di CH della cometa 103P/Hartley sembra essere quasi assente nella direzione del Sole, la quale avviene quasi totalmente lungo la direzione antisolare.

Studi così approfonditi sono in fase di realizzazione per la cometa C/2014 Q2, ma lo spettro visibile in bassa risoluzione allegato, acquisito l’1 Gennaio 2015 presso l’Osservatorio Astrofisico R.P.Feynman mostra il tipico aspetto. Si notano i picchi di emissione associati alle molecole che, sublimando dal nucleo quando la cometa è in avvicinamento al Sole, generano il fenomeno della fluorescenza. I picchi di emissione si manifestano a specifiche lunghezze d’onda a seconda delle molecole responsabili del fenomeno. Infatti i picchi a 4700A e 5100A individuano l’emissione di fluorescenza dovuta al C2 che è responsabile del colore verde della chioma. Il picco di emissione dovuto al CN a 3880A suggerisce che anche il cianogeno contribuisce alla colorazione della chioma fornendo una tonalità violacea. Il nostro occhio, però, non è molto sensibile a tale lunghezza d’onda e non è facile percepire questo colore. In più l’altezza del picco individua l’intensità dell’emissione, strettamente connessa con l’abbondanza dell’elemento chimico.

Come accennato prima la coda di ioni è solitamente azzurrognola e la coda di particelle cariche della cometa Lovejoy non è da meno: lo spettro è composto da righe di emissione associate alla fluorescenza da parte degli ioni cometari, molto probabilmente ioni d’acqua H2O+ e ioni di monossido di carbonio CO+. La coda di polveri è invece caratterizzata da uno spettro continuo poiché le polveri diffondono la radiazione solare con uguale intensità a tutte le lunghezze d’onda.

La Lovejoy ci terrà compagnia ancora per un po’ e se il meteo sarà clemente potremmo continuare ad ammirarla e a studiarla in dettaglio.

Osservare una cometa al telescopio è un’emozione intensa, non solo per gli specialisti ma anche per chi nutre una forte passione per gli oggetti celesti e le fredde notti invernali non sono di certo un ostacolo insormontabile.

Chi dovesse perdersi lo spettacolo potrebbe riprovarci fra 8000 anni, sempre se è in possesso dell’Elisir di lunga vita!

Salviamo il cielo stellato. Il Progetto Globe at night – Anna Galiano

Occhi al cielo contro l’inquinamento luminoso: Globe at Night

Il 20 Dicembre 2013 l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha proclamato il 2015 Anno internazionale della Luce e delle tecnologie basate sulla Luce (IYL 2015). Quando si parla di luce in realtà non ci si sta limitando alla sola componente visibile dello spettro elettromagnetico, ma alla “luce cosmica”. Questa comprende l’intero spettro elettromagnetico, composto da raggi gamma, raggi X, radiazione UV, luce visibile, radiazione infrarossa, microonde e onde radio.

Queste radiazioni vengono emesse da vari oggetti astronomici presenti nell’Universo e raggiungono la Terra ogni giorno. Lo  studio di queste componenti elettromagnetiche ha permesso di migliorare la conoscenza del nostro Universo e comprendere i meccanismi che avvengono anche a milioni di anni luce (a.l.) di distanza dalla Terra (1 a.l. è la distanza che percorre la luce del Sole nel vuoto in un anno, ossia circa 9*1012km).

La luce solare riflessa da Giove e dai suoi 4 satelliti ha permesso a Galileo Galilei, nel 1610, di provare la veridicità della teoria copernicana: così come i satelliti Io, Europa, Ganimede e Callisto orbitavano attorno al pianeta gigante, così la Terra e gli altri pianeti allora noti (da Mercurio a Saturno) orbitavano attorno al Sole. In tal modo contraddisse con non poche conseguenze il sistema tolemaico sostenuto dalla Chiesa, secondo il quale vi era la Terra al centro dell’Universo ed ogni altro corpo celeste vi ruotava attorno.

Nel 2015, inoltre, ricorre il centenario della Teoria della Relatività Generale di Elbert Einstein. Era il 1915 quando Einstein propose una nuova visione dello spazio e del tempo: fino ad allora prevaleva la concezione di Newton, secondo cui lo spazio e il tempo erano due concetti assoluti e indipendenti l’uno dall’altro. Einstein invece suggerì come lo spazio e il tempo fossero dinamici e potessero inoltre venir deformati dalla presenza di oggetti fortemente massivi. Di conseguenza spiegò l’esistenza della forza di gravità presente sulla Terra: questa è dovuta alla deformazione dello spazio-tempo causata dalla massa del Sole. In più Einstein sosteneva che a causa di questa deformazione, un raggio di luce che viaggia in prossimità del Sole subisce una deflessione nella propria traiettoria di 1.75” (secondi d’arco). Durante l’eclissi di Sole del 1919 l’astrofisico Artur Eddington effettuò delle misurazioni che dimostrarono come la luce proveniente da una stella apparentemente vicina al Sole era deviata proprio di 1.75”. Questo fenomeno è noto come lensing gravitazionale e fu la prima prova dell’esattezza della teoria di Einstein.

 In quest’anno dedicato alla “luce cosmica” la comunità scientifica cercherà di sensibilizzare il pubblico di tutto il mondo sull’importanza della radiazione elettromagnetica e sulle informazioni che essa trasporta riguardo i corpi celesti che la emettono. Si vuole, inoltre, sottolineare come le tecnologie basate sulla luce siano in grado di migliorare la qualità della vita sia dei Paesi già sviluppati che delle popolazioni più disagiate.

Come è ben noto, la tecnologia laser è ormai uno strumento utilizzato in diversi campi. Il laser sfrutta l’emissione di luce stimolata (un processo in cui dall’interazione tra un fotone ed un atomo eccitato, si determina la transizione dell’atomo allo stato fondamentale e l’emissione di due fotoni) per amplificare la luce: laser è infatti l’acronimo di Light Amplification by Stimulated Emission of Radiation (Amplificazione di Luce per mezzo di Emissione Stimolata di Radiazione). Tale strumento ha un largo uso in medicina per la correzione di alcuni difetti visivi (miopia o ipermetropia) o per la rimozione delle cellule anomale nei tumori in fase iniziale, oltre ad essere ormai da anni utilizzato per la lettura e masterizzazione di CD e DVD. Il laser permette inoltre di trasferire dati da un computer ad un altro attraverso le fibre ottiche, risultando essere il mezzo di trasmissione più veloce sinora inventato.

L’invenzione delle luci LED (acronimo di Light Emitting Diode) è stato un altro grande passo della tecnologia. Questi particolari diodi sono composti da un materiale semiconduttore in cui è presente una regione composta da elettroni (regione di conduzione) ed una zona priva di particelle cariche, ossia ricca di lacune (detta appunto regione di vacanza). La luce che viene emessa nei LED proviene dalla transizione dell’elettrone dalla regione di conduzione a quella di lacuna. Oggigiorno i LED sono utilizzati per illuminare gli schermi a cristalli liquidi (LCD) dei televisori e dei cellulari, oltre a rappresentare l’elemento di illuminazione dei lampioni moderni.

Un’altra tecnologia  basata sulla luce e molto diffusa nei Paesi sviluppati è data dai pannelli solari che vengono utilizzati anche per fornire energia alle abitazioni private sfruttando la luce proveniente dal Sole, la nostra principale fonte di energia. Diverse organizzazioni no-profit stanno lavorando per sviluppare nuove tecnologie eco-sostenibili da adottare nei Paesi più disagiati dove le popolazioni sono ancora costrette a vivere al buio. Se da un lato ci sono popoli che purtroppo vivono ancora privi di illuminazione nelle strade o nelle case, dall’altro ci sono Paesi industrializzati che sprecano l’energia elettrica senza neanche rendersene conto. Per  questo motivo un altro importante tema dell’IYL2015 è la riduzione dell’inquinamento luminoso e dello spreco di energia che ne deriva.

L’inquinamento luminoso è la diffusione, da parte dell’atmosfera, di luce proveniente da sistemi di illuminazione pubblici e privati che illuminano, senza alcuna necessità, il cielo e il terreno.

In particolare, nell’art.1 della Legge Regionale della Puglia 15/2005 si legge scritto:“si considera inquinamento luminoso ogni alterazione dei livelli di illuminazione naturale e, in particolare, ogni forma di irradiazione di luce artificiale che si disperda al di fuori delle aree a cui essa è funzionalmente dedicata, in particolar modo se orientata al di sopra della linea dell’orizzonte”.

La legge regionale della Puglia LR 15/2005 è stata promulgata per far fronte all’eccessivo spreco di illuminazione artificiale, imponendo delle procedure che dovrebbero essere rispettate dall’intera regione. Innanzitutto questa legge prevede che tutti i sistemi di illuminazione siano dotati di apposite coperture in modo da non far diffondere la luce delle lampadine verso il cielo, ma vengano convogliate solo verso il terreno, l’unica area che debba essere illuminata.

 Nell’immagine si nota come il primo lampione, privo di copertura superiore, diffonda la luce nell’area circostante, illuminando sia il cielo che il terreno. Nell’ultimo sistema di illuminazione, invece, la luce è completamente convogliata verso il terreno, preservando il cielo e fornendo una migliore illuminazione nell’area sottostante. Anche se il costo di installazione di questi lampioni moderni dovesse essere elevato, la spesa verrebbe poi pienamente recuperata grazie al risparmio energetico che ne deriverebbe, dato che possono essere utilizzate lampadine con una minore potenza. È stato dimostrato come il primo genere di illuminazione sprechi tra il 30 e il 75 % di potenza elettrica verso il cielo. Inoltre la quantità di luce che viene diffusa verso l’alto dai vecchi sistemi di illuminazione rappresenta uno spreco di 22000 GW/h che tradotto in termini di moneta, equivale a 2 miliardi di dollari l’anno letteralmente “buttati in aria”.

Questa normativa della regione Puglia impone, inoltre, che tutti gli edifici (tranne quelli di valore architettonico o storico) vengano illuminati dall’alto verso il basso, con dei sistemi in grado di ridurre la potenza delle lampade nelle ore notturne.  Per quanto riguarda l’illuminazione pubblicitaria sono stati assolutamente vietati fasci roteanti o fissi rivolti verso il cielo; gli unici lampioni permesse sono quelli che non convogliano il fascio luminoso al di fuori del cartellone pubblicitario. È stato consigliato l’utilizzo di sistemi di illuminazione dotati di sensori nelle aree che non sono abitualmente frequentate: in questo modo l’illuminazione si attiva solo quando i sensori rilevano il movimento di una macchina o di un uomo.

Se in Italia venisse adottata una legge contro l’inquinamento luminoso si otterrebbe un risparmio energetico annuo stimato di circa 250000000€. Di conseguenza si risparmierebbero 465000 tonnellate di combustibile. La produzione di energia elettrica richiede la combustione di materie prime e con le apposite misure anti-inquinamento non verrebbero immesse 1360000 tonnellate di anidride carbonica (CO2) nell’ambiente e si risparmierebbero 1480000 tonnellate di Ossigeno bruciato. L’aria che respireremmo sarebbe più pulita ed equivarrebbe a piantare una foresta di alberi di alto fusto  con un’estensione di 200 000 ettari. In Italia non vi è una legge contro l’inquinamento luminoso ma tutte le regioni, fatta eccezione per la Calabria e la Sicilia, hanno adottato delle misure per limitare il problema. 

Attualmente l’illuminazione nelle città è così eccessiva che il cielo notturno è velato da un alone rossastro, non permettendo così di ammirare le stelle e la Via Lattea né dal centro della città, né dalle zone più periferiche. In meno di dieci anni, l’aumento dell’inquinamento luminoso ha ridotto drasticamente le zone in cui è possibile osservare le miriadi di stelle che compongono la Via Lattea, corrispondenti al 30% del territorio italiano. 

La presenza delle luci parassite (immagine a sinistra) non permette di osservare la Via Lattea, che è invece ben visibile in assenza di illuminazione (immagine a destra). La Via Lattea, come già descritto nell’articolo Il Braccio di Orione è la galassia di cui fa parte il nostro Sistema Solare. Composta da circa 400 miliardi di stelle, gas e polvere, ha un diametro maggiore di 100000 a.l. e la Terra insieme agli altri pianeti e corpi minori del Sistema Solare si trova ad una distanza di 30000 a.l. dal centro galattico. In realtà la Via Lattea è una galassia a spirale barrata: presenta un nucleo barrato dal quale si dipartono dei bracci a spirale logaritmica, i più importanti dei quali sono il Braccio di Perseo e il Braccio dello Scudo-Centauro. Il Sistema Solare giace nel Local Arm, o Braccio di Orione, un braccio complementare che prende il nome dalla costellazione omonima in esso presente. Attorno al centro galattico vi è un gran numero di stelle vecchie e fredde (con temperature intorno ai 3000°K) che si dispongono in maniera sferoidale, generando il cosiddetto bulge, la regione più luminosa della Via Lattea. Misure radio hanno permesso di individuare una forte sorgente localizzata nel centro galattico e analizzando il movimento dei corpi attorno ad essa, si ipotizza che l’oggetto compatto al centro della Via Lattea sia un buco nero supermassivo, con una massa pari a 4*106M* (M* è la massa del Sole, pari a  2*1033g). Osservando la Via Lattea dalla Terra, si nota che il centro della galassia è osservabile nella costellazione del Sagittario ed è per questo motivo che il buco nero viene identificato come Sagittarius A*. 

Oltre a comportare uno spreco di energia e costi e l’impossibilità di godere delle bellezze naturali che il cielo ci offre, l’inquinamento luminoso può provocare danni all’uomo e al mondo animale se non si adottano le misure necessarie per ridurlo.

La luce che viene diffusa in tutta l’area circostante dai lampioni non a norma non viene ben focalizzata sulla retina dei nostri occhi, di conseguenza crea un forte bagliore che costringe le persone (e soprattutto gli anziani) a distogliere lo sguardo dalla fonte di questo disagio (chiamato disability glare). Ciò comporta una pericolosa distrazione per chi guida. Molti degli incidenti stradali avvengono in strade illuminate ed è stato inoltre stimato come avvengano molti più incidenti nelle gallerie dotate di illuminazione eccessiva rispetto a quelle non illuminate.

La capacità del nostro occhio di visualizzare le immagini dipende dalla produzione di una sostanza chiamata rodopsina, di colore rosso molto intenso. Questo liquido sbianca repentinamente quando è esposto alla luce: pertanto l’illuminazione eccessiva o erroneamente orientata può distruggere tutte le riserve accumulate e creare una cecità temporanea, di all’incirca qualche secondo. L’uomo ritorna a vedere quando l’occhio produce nuovamente una quantità sufficiente di rodopsina, ma quei secondi di cecità spesso sono la causa di gravi incidenti stradali. Gli scienziati hanno inoltre scoperto come l’uomo produca un particolare ormone (melatonina) in assenza di luce e pertanto durante le ore di sonno. Tale ormone regola il ciclo diurno delle nostre attività sistemiche. L’illuminazione eccessiva delle strade o delle vicine abitazioni, che può filtrare anche nelle nostre stanze durante la notte, può ridurre la produzione di melatonina e le nostre attività sistemiche possono risentirne negativamente. Inoltre, il prolungamento del giorno per via dell’illuminazione artificiale può limitare la nostra abilità nel dormire e nello svegliarsi ad orari opportuni. Di conseguenza si può generare uno sfasamento nelle attività biologiche che avvengono nel nostro organismo durante le 24 ore (ritmo circadiano).

L’insonnia, lo stress e la depressione sono disagi che possono essere causati dall’alterazione del ritmo circadiano. Una luminosità elevata non è sinonimo di sicurezza: molti pensano che se illuminano le proprie case con illuminazioni non schermate i criminali non osano avvicinarsi. Nell’immagine sottostante, invece si nota come l’eccessiva luminosità abbagli gli occhi  e crei un forte contrasto con la zona in ombra, tale da non far notare la presenza di intrusi nascosti nell’area meno illuminata. I lampioni dotati di schermatura, invece, faciliterebbero la nostra visione.

Nella prima immagine la forte luminosità derivante dalla lampadina non schermata non permette di vedere l’uomo nascosto nel buio, facilmente visibile invece nell’immagine sottostante in cui il fascio luminoso è schermato dalla mano.

Gli animali sono altre vittime incolpevoli dell’inquinamento luminoso: infatti le loro attività vitali come l’accoppiamento, la ricerca del cibo e la migrazione sono strettamente correlate con la durata della notte. L’eccessiva illuminazione provoca un disagio nelle loro abitudini naturali, causando una drastica riduzione del loro numero. Gli uccelli, ad esempio, sono abituati a cacciare di notte e di conseguenza sono attratti dalle luci artificiali delle città. La loro curiosità è così forte che spesso collidono contro le costruzioni o le torri illuminate. A volte, attirati dalla luce, non riescono più a tornare indietro nel loro habitat naturale più buio e precipitano al suolo a causa dello sfinimento fisico. È stato registrato, inoltre, che un numero elevato di uccelli marini sfortunatamente impattano contro i fari o le turbine eoliche. Gli anfibi e i rettili non sono meno influenzati. Le tartarughe marine, in particolare, hanno l’abitudine di muoversi sulla spiaggia buia alla ricerca di una zona sicura per depositare le loro uova. In seguito ritornano nell’oceano attirati dal riflesso della Luna. Il nostro satellite fino a qualche anno fa era l’illuminazione naturale maggiore sull’oceano, permettendo dunque alle tartarughe di ritornare nel loro habitat. Le luci artificiali odierne, invece, catturano l’attenzione delle tartarughe  che si allontanano così dall’oceano e giungono sulle strade, dove oltre a disidratarsi, possono disorientarsi e mettere in pericolo la propria vita.

Gli insetti, similmente, sono attratti dalla luce dei lampioni e vi volano vicino per tutta la notte. Di conseguenza hanno meno energia per l’accoppiamento e possono inoltre diventare delle facili prede. La diminuzione nel numero degli insetti incide di conseguenza su quegli animali che basano su di loro il proprio sostentamento.

Contro il dilagante problema dell’inquinamento luminoso è stata indetta una particolare campagna internazionale di sensibilizzazione, il programma Globe at Night che ha lo scopo infatti di rendere consapevoli i cittadini in tale disagio catapultandolo direttamente nel problema concreto. Lo scopo della campagna è quello di determinare la luminosità del cielo notturno da parte di chiunque sia interessato.

Le osservazioni effettuate dai cittadini saranno poi inviate ad un computer centrale, utilizzando una particolare applicazione reperibile sul sito. I dati così raccolti da tutto il mondo permetteranno di valutare la variazione dell’inquinamento luminoso durante l’Anno Internazionale della Luce. Per contribuire a questa utile campagna si devono svolgere le 5 semplici azioni di seguito descritte:

  1. si individua la costellazione da osservare tra quelle proposte dal sito web http://www.globeatnight.org/ (poiché siamo a Marzo l’unica costellazione proposta ed osservabile alle nostre latitudini è la costellazione di Orione);

  2. tramite il sito si può determinare la latitudine e la longitudine del luogo dalla quale si sta effettuando l’osservazione;

  3. dopo circa un’ora dal tramonto si può uscire all’aperto e far abituare l’occhio al buio per circa 10 minuti;

  4. si procede all’individuazione della costellazione, valutando la luminosità del cielo grazie alle 7 carte di magnitudine presenti sul sito; si deve inoltre annotare la quantità di nuvole presenti durante l’osservazione;

  5. tramite l’applicazione reperibile al sito http://www.globeatnight.org/webapp/ si segnala la data, la latitudine e la longitudine del luogo, la cartina della costellazione scelta con il grado di magnitudine rilevato, la misura delle nuvole che coprivano la costellazione al momento dell’osservazione e si inviano i dati. L’osservazione potrebbe venir effettuata in più luoghi, così da confrontare i risultati ottenuti.

Si possono effettuare le osservazioni durante tutto il 2015, seguendo però i periodi specifici dedicati ad alcune costellazioni dell’emisfero nord:

  • dall’11 al 20 Marzo l’attenzione sarà focalizzata su Orione;

  • dal 9 al 18 Aprile e dal 9 al 18 Maggio si potrà osservare la costellazione del Leone;

  • dall’8 al 17 Giugno e dal 7 al 16 Luglio sarà la volta della costellazione Boote;

  • dal 5 al 14 Agosto e dal 3 al 12 Settembre la costellazione del Cigno sarà la successiva;

  • dal 3 al 12 Ottobre si potrà effettuare la valutazione della magnitudine del cielo focalizzando l’attenzione sulla costellazione di Pegaso;

  • infine dal 2 all’11 Novembre e dal 2 all’11 Dicembre si concluderà l’osservazione con la costellazione di Perseo.

http://www.nature.com/srep/2013/130516/srep01835/images/srep01835-f1.jpg

Di seguito vengono descritte alcune indicazioni utili per rintracciare le 6 costellazioni boreali scelte dalla campagna durante i vari mesi del 2015.

Spettacolare vista d'insieme della costellazione di Orione e dei relativi complessi nebulari, capolavoro dell'astrofotografo Rogelio Bernal Andreo

Spettacolare vista d’insieme della costellazione di Orione e dei relativi complessi nebulari, capolavoro dell’astrofotografo Rogelio Bernal Andreo

Per identificare la costellazione di Orione, che spesso rimanda alla mente la figura di una clessidra, ma rappresenta in realtà un cacciatore, è utile individuare innanzitutto la Cintura di Orione, un asterismo di tre stelle luminose disposte in linea retta. Successivamente, una delle gambe di Orione è rappresentata da una delle stelle più luminose del cielo: la supergigante blu Rigel (beta Orionis). Questa stella ha una temperatura superficiale elevata, pari a circa 12000°K, e per questo appartiene alla classe spettrale B8Ia. Le spalle di Orione sono individuate dalla gigante blu Bellatrix (gamma Orionis) e dalla supergigante rossa Betelgeuse (alpha Orionis), la stella spesso più luminosa della costellazione, la cui classe spettrale è  M2Iab. Betelgeuse è nell’ultima fase della propria evoluzione: dopo aver esaurito le riserve di Idrogeno (H) che sono state convertite in Elio (He) al seguito delle reazioni di fusione nucleare che avvengono nel nucleo stellare, è uscita dalla fase di sequenza principale. Ora la stella sta convertendo He in Carbonio (C) e le successive reazioni di fusione nucleare all’interno del nucleo, permetteranno la conversione di C in Ossigeno (O), la conversione di O in Neon (Ne), la conversione di Ne in Magnesio (Mg), la conversione di Mg in Silicio (Si) e infine la conversione di Si in Ferro (Fe). A questo punto sarà una stella “a shell”, ossia sarà composta da strati di materiale differente, dove nello strato esterno vi sarà H, in quello appena più interno He e così via, fino ad arrivare al nucleo ricco di Fe. La produzione di energia tramite le reazioni nucleari è l’unica forza in grado di contrastare il collasso gravitazionale della stella dovuto alla massa che la compone. Quando nel nucleo della stella vi rimane solo il Fe, le reazioni nucleari si arrestano e non viene più prodotta energia. Di conseguenza prevale il collasso gravitazionale e la massa della stella precipita velocemente verso il centro. Nel momento in cui la massa che collassa raggiunge la velocità del suono ad una particolare distanza dal centro si crea un’onda di shock che porta all’espulsione di tutto il materiale esterno a tale regione, fenomeno noto come supernova. Il materiale interno, invece, continua a collassare e a seconda della massa può divenire una stella di neutroni (se la massa è minore a 3 M*) o un buco nero (se la massa è maggiore a 3 M*). Si prevede che Betelgeuse fra circa 100000 anni esploderà in una supernova e diverrà una stella di neutroni.

A sud della Cintura vi è la Spada di Orione, un asterismo composto da due stelle multiple, dalla Grande Nebulosa di Orione (M42) e dalla nebulosa M43. La M42 è una nebulosa diffusa ad emissione (già descritta nell’articolo Il Braccio di Orione), un ammasso di gas ricco di H e giovani stelle. Infatti la Nebulosa di Orione è la regione di formazione stellare più vicina a noi, a circa 1500 a.l. di distanza dal Sistema Solare. Gli atomi di gas che compongono la nebulosa sono responsabili della sua luminosità: la radiazione proveniente dalle stelle viene assorbita dagli atomi che si eccitano, occupando un livello di energia superiore a quello fondamentale. Quando gli atomi si diseccitano ritornando nello stato energetico fondamentale, emettono fotoni con un’energia corrispondente alla differenza di energia dei due livelli coinvolti. La M42 è vicina ad un altro ammasso di gas e stelle, indicato come M43. Questa è una nebulosa ad emissione e riflessione, quindi gli atomi di gas presenti in M43 oltre ad emettere radiazione elettromagnetica, riflettono la luce che proviene dalle stelle vicine.

Sempre a sud della Cintura di Orione vi è una nebulosa oscura, conosciuta come Orion’s Horsehead Nebula, ossia Nebulosa Testa di Cavallo (B33). Questa nube di polvere interstellare ha casualmente assunto la forma che rimanda alla testa di un cavallo, venendo modellata dai venti stellari. La nube di polvere opaca di cui è composta B33 assorbe la radiazione ma il suo profilo è facilmente visibile grazie alla radiazione rossastra proveniente dalla nebulosa ad emissione retrostante (IC434). Tale radiazione viene emessa al seguito della ricombinazione di protoni ed elettroni per formare atomi di H. In basso a destra della Testa di Cavallo vi è invece una nebulosa a riflessione, che riflette appunto la luce proveniente dalla giovane stella blu al suo interno. All’interno della nebulosa B33 (la dimensione della “Testa” è di 5 a.l.) vi è una grande quantità di stelle che si stanno attualmente formando.

Un altro importante oggetto Messier presente nella costellazione di Orione è M78. Questa è una nebulosa a riflessione, che insieme a M42 e B33 fa parte del Complesso Molecolare di Orione. M78 è caratterizzata da un filamento di polvere opaca che riflette ed assorbe la radiazione proveniente dalle giovani stelle blu al suo interno (dotate di temperature intorno ai 30000°K), conferendo a questa nebulosa un aspetto minaccioso.

Per individuare la costellazione del Leone, invece, si può ricorrere all’aiuto del Grande Carro. Prolungando la retta che congiunge le due stelle del lato minore dell’Orsa Maggiore verso Nord si giunge alla stella polare, mentre se ci si muove verso Sud si individua la testa del Leone rappresentata da un triangolo rettangolo. L’intera costellazione è simile ad un arco e la stella più luminosa è Regolo, in realtà un sistema binario.

La costellazione di Boote (o anche Bifolco, poiché rimanda alla figura di un contadino) è estremamente semplice da individuare grazie alle tre stelle della coda del Grande Carro. Infatti, seguendo la disposizione ad arco di questi astri, si giunge alla stella più luminosa della costellazione di Boote, Arturo (che rappresenterebbe la vita del contadino). Le restanti stelle della costellazione formano un aquilone, mentre le stelle meno luminose sotto Arturo individuano le gambe del bracciante agricolo.

Il Cigno è una costellazione estiva che si sovrasta la Via Lattea. Questo volatile astronomico ha la forma di una croce, dove l’asse maggiore è formato dalle stelle Deneb e Albireo, mentre quello minore da Gienah e Rukh. La stella Sadr è il punto di intersezione tra i due assi. Per maggiori informazioni sugli oggetti astronomici compresi all’interno di questa costellazione si può fare riferimento all’articolo La costellazione del Cigno.

Pegaso è una costellazione autunnale che raffigura il cavallo alato guidato da Perseo per liberare Andromeda dal mostro marino, rappresentato dalla costellazione della Balena. Si individua facilmente il corpo del cavallo alato cercando il quadrato che costeggia la Via Lattea. La testa e il resto del corpo si estendono all’esterno del quadrato.

La costellazione invernale di Perseo è composta da stelle che sono disposte in modo tale da somigliare ad un cosiddetto “osso a forchetta”. La stella più luminosa rappresenta il petto di Perseo.

La campagna Globe at Night ha già raccolto 5512 osservazioni provenienti da 65 Stati ma i dati osservativi sono in costante aumento. Nel grafico seguente è riportato il numero di osservazioni effettuate dall’inizio di Gennaio 2015 ad oggi, 15 Marzo.

Di seguito invece è riportato un grafico che illustra il grado di magnitudine del cielo registrato nelle diverse osservazioni.

Il grado di magnitudine 0 implica l’impossibilità di osservare la costellazione cercata o per via di un eccessivo inquinamento luminoso o per la presenza di fitte nubi. Nel diagramma accanto si nota come il 70% delle osservazioni che hanno registrato una magnitudine 0 avvenivano in presenza di un cielo non molto limpido, poiché più del 50% era coperto da nuvole. Di conseguenza tale risultato non è legato all’inquinamento luminoso ed è per questo motivo che nel grafico sovrastante il valore 0 non è stato rappresentato. Figura 19: Grafico che descrive le condizioni di nuvolosità del cielo durante le osservazioni che hanno fornito un grado 0 di magnitudine. Si evidenzia come la maggior percentuale delle osservazioni (70%) sono avvenute in presenza di una nuvolosità maggiore del 50%.

Chiunque voglia partecipare attivamente nella lotta contro l’inquinamento luminoso può farlo aderendo alla campagna Globe at Night. Il mondo purtroppo non può salvarsi da solo ed un piccolo contributo da parte di ognuno di noi può condurre ad un grande cambiamento. Come ogni singolo pezzo è importante per completare un puzzle, così una giusta azione da parte di tutti noi è fondamentale per salvare il pianeta Terra.  

Il drammatico peggioramento dell’Inquinamento luminoso sul Salento in soli 2 anni. Quasi non esiste più alcun luogo in cui ci sia una parvenza di buio. In un momento di crisi come l’attuale è uno dei modi più stupidi di sprecare le risorse comunali faticosamente raccolte aumentando a dismisura le tasse ai cittadini. Data courtesy of Earth Observation Group (EOG) NOAA.

Il Braccio di Orione – Anna Galiano

Nel primo appuntamento sulla Via Lattea abbiamo descritto la struttura a spirale barrata della nostra galassia. Dal centro di essa si dipartono dei bracci a spirale logaritmica, alcuni principali ed altri secondari, come il Braccio di Orione (o Local Arm o Sperone di Orione). Ma è realmente così? Studi attuali stanno pian piano ribaltando le nostre certezze sulle reali dimensioni e posizionamento del Local Arm. Ma procediamo con ordine.

Il nostro Sistema Solare giace nella parte interna del Local Arm, la cosiddetta “zona abitabile galattica” ad una distanza dal centro della galassia di circa 26000 a.l.. Lo spessore del Local Arm è di 3500 a.l. ed ha una lunghezza di 10000 a.l. La nostra posizione periferica nella Via Lattea è stata scoperta dall’astronomo americano Harlow Shapley agli inizi del XX secolo. Grazie alle sue osservazioni non solo evidenziò che la nostra galassia era più grande di quanto ritenuto fino ad allora ma, grazie alle proprie convinzioni copernicane, comprese che la Terra con i suoi egocentrici terrestri, oltre a non essere il centro del Sistema Solare, non è neanche il centro della Via Lattea. Non è stato facile riuscire a capire la nostra posizione nella Via Lattea poiché siamo all’interno di essa, ma Shapley osservando i corpi celesti all’esterno della fascia biancastra che solca i nostri cieli notturni (la galassia osservata di taglio) riuscì ad individuare degli ammassi globulari che presentavano una luminosità ed una concentrazione di stelle maggiore in certe direzioni mentre si diradavano pian piano in altre. Da qui ipotizzò che la Terra giace in una regione periferica della Via Lattea dato che si ha una maggiore concentrazione di stelle in corrispondenza della costellazione del Sagittario, in cui doveva trovarsi quindi il centro galattico. Queste ipotesi hanno trovato definitiva conferma nelle indagini radioastronomiche sviluppatesi dopo la seconda guerra mondiale.

Fino a poco tempo fa si aveva la convinzione che il Braccio di Orione fosse un ramo secondario della nostra spirale, una struttura stellare minore compresa tra due più estese, il braccio interno del Sagittario e quello più esterno di Perseo. Recenti indagini da parte di Xu et al. (2013) mediante lo studio della cinematica e della distanza (usando il metodo della parallasse trigonometrica) di un campione di 30 masers distribuiti lungo il Local Arm hanno contribuito a modificare tale concezione. I masers sono dei corpi celesti, tipicamente all’interno di nubi molecolari, il cui nome è un acronimo che significa “amplificazione di microonde per effetto di emissione stimolata di radiazione”. In seguito ad una collisione oppure per via di irraggiamento esterno, alcuni composti come acqua (H2O), metanolo (CH3OH) o radicali idrossili (OH) vengono “pompati” dallo stato energetico fondamentale fino a popolare un livello metastabile, da cui decadono successivamente su uno di energia inferiore emettendo radiazione con basse frequenze, le microonde. Nello spettro di emissione di questi oggetti le righe che evidenziano tale fenomeno risultano essere molto strette, adatte perciò per accurate misurazioni. Il metodo della parallasse trigonometrica (Figura 2) consiste nel registrare la collocazione dell’oggetto considerato rispetto allo sfondo celeste da due posizioni differenti dell’orbita terrestre a distanza di 6 mesi l’una dall’altra. In questo modo, nota la distanza (d) Terra-Sole (pari ad 1 UA) e l’angolo A sotteso dall’oggetto, si può ricavare la distanza oggetto-Sole (x), mediante la formula seguente: x=d/tangA

Con i risultati ottenuti Xu e colleghi hanno notato che questi oggetti si comportano come se stessero in un braccio principale della spirale. L’unico punto a sfavore del lavoro appena esposto è quello di aver considerato una regione di indagine attorno al Sole molto limitata, di circa 28000 a.l. rendendo così difficile dichiarare con certezza che il Braccio di Orione sia un braccio principale della nostra galassia.

Ma precedenti indagini focalizzate su regioni più estese, come gli ammassi stellari aperti ad opera di Moitinho et al. (2006) e Vézquez (2008) hanno messo in luce un comportamento analogo da parte di altri oggetti presenti nel Local Arm. Pare, quindi, che il Braccio di Orione sia un vero e proprio braccio principale indipendente della nostra galassia, costituito da un’ampia regione di formazione stellare, o in alternativa una diramazione del Braccio di Perseo. A sostegno di quest’ultima ipotesi si nota come in effetti, il Local Arm sia più vicino al Braccio di Perseo piuttosto che a quello del Sagittario e che anzi, attraversi il Braccio di Perseo prima di giungere nel Braccio più esterno, il Norma Arm. Questa conclusione comporterebbe dimensioni maggiori del Braccio di Orione ed un possibile passo indietro nel considerare quello di Perseo come un braccio principale.

Si sa ormai da secoli che la Luna ruota attorno alla Terra e che la Terra e gli altri pianeti ruotano attorno al Sole, così analogamente il Sole e per estensione il Sistema Solare compie un moto di rivoluzione attorno al centro galattico. Si ritiene che l’orbita del Sole attorno alla galassia sia ellittica, per via delle perturbazioni esercitate dai bracci a spirale della stessa e da una distribuzione non uniforme della massa. La direzione verso cui il Sole si muove (chiamata solar apex) punta verso la stella Altair. Il tempo impiegato dal Sistema Solare a compiere una rotazione attorno alla galassia è stato stimato di circa 225-250 milioni di anni, quindi considerata l’età del Sole di oltre 4 miliardi di anni, sembra che la nostra stella abbia ripercorso tale orbita per 18-20 volte nella sua vita. La velocità orbitale del Sistema Solare rispetto al centro della galassia è stato stimato in circa 220 Km/s. Il Sistema Solare si sta attualmente muovendo all’interno di una nube del mezzo interstellare chiamata Local Interstellar Cloud, posta all’interno di una cavità del Braccio di Orione e costituita da materiale con ridotta densità ed alta temperatura, nota come Local Bubble. Tutto ciò è racchiuso nella cosiddetta Gould Belt. Quest’ultima è un insieme di stelle brillanti e massive la cui proiezione in cielo assume la forma di un anello ed è inclusa in una nube molecolare che incrocia le zone interne alla Via Lattea, corrispondenti a quelle in cui si ha una maggiore concentrazione di regioni di formazione stellare.

Il Braccio di Orione prende il nome dalla costellazione di Orione verso cui sembra proiettarsi la sua regione più ricca. Contiene diversi oggetti Messier ossia un elenco di un centinaio di corpi celesti come nebulose, galassie e ammassi stellari individuati ed annotati principalmente dall’astronomo francese Charles Messier, con l’aiuto del suo collega Pierre Méchain e pubblicato nel 1771. Messier era un cacciatore di comete e durante le sue ricerche aveva elencato su di una lista gli oggetti che non erano delle comete pur presentando delle somiglianze, in modo da poterli escludere e facilitare così la sua indagine. Messier visse e fece le proprie ricerche in Francia perciò nella sua lista si trovano solo oggetti che potevano essere osservati nell’emisfero nord: ad esempio le Nubi di Magellano, visibili nell’emisfero australe non sono presenti in quegli appunti. La lista compilata da Messier è stata con il tempo estesa da parte di altri astronomi divenendo un’importante raccolta di oggetti del profondo cielo.

Alcuni degli oggetti Messier presenti nel Local Arm sono:

Messier 7: è un ammasso aperto di stelle all’interno della costellazione dello Scorpione, posto nei pressi del pungiglione dell’aracnide, facilmente visibile ad occhio nudo. Noto già agli antichi romani, era stato scoperto dall’astronomo Tolomeo e scambiato per una nebulosa: da qui nasce il nome alternativo degli anglosassoni con cui viene riconosciuto questo oggetto, Ptolemy Cluster. L’età stimata di questo ammasso è di 220 milioni di anni e contiene al suo interno circa 80 stelle di differente magnitudine.

Messier 23: altro ammasso di stelle, nella costellazione del Sagittario, facilmente visibile nelle notti estive anche utilizzando dei semplici binocoli. Scoperto da Messier il 20 Giugno 1764, è stata provata la presenza di almeno 150 stelle al suo interno, alcune di magnitudine 10 fino a quelle di magnitudine maggiore di 13.5. L’età stimata è 220 – 300 milioni di anni e il diametro di tale ammasso è pari a 15 a.l..

http://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/thumb/e/e8/M27_-_Dumbbell_Nebula.jpg/595px-M27_-_Dumbbell_Nebula.jpg

In this three-colour composite, a short exposure was first made through a wide-band filtre registering blue light from the nebula. It was then combined with exposures through two interference filtres in the light of double-ionized oxygen atoms and atomic hydrogen. They were colour-coded as “blue”, “green” and “red”, respectively, and then combined to produce this picture that shows the structure of the nebula in “approximately true” colours. Credit: ESO

Dumbbell Nebula (Messier 27): posta all’interno della costellazione della Volpetta, è forse la nebulosa planetaria più bella che popola il nostro cielo ed è stata la prima, tra questo tipo di nebulose, a venir scoperta. Una nebulosa planetaria è una nebulosa ad emissione e corrisponde alla fase finale di una stella che espellendo i suoi strati più esterni genera un involucro di materiale attorno ad essa che si riduce così ad un oggetto di ridotte dimensioni ma molto denso, una nana bianca. Quando Messier la scoprì la registrò, erroneamente, come una nebulosa priva di stelle. M27 è facilmente osservabile anche con piccoli binocoli e i telescopi di moderata risoluzione sono in grado di distinguere la sua caratteristica forma che richiama vagamente quella di una clessidra. La stella centrale ha una magnitudine di 13.5 ed è una calda nana bluastra, con una temperatura di 85000 Kelvin. Si ritiene che vicino ad essa vi sia una debole stella gialla di magnitudine 17.

Come per molte nebulose planetarie, non si conosce ancora con esattezza la distanza che separa M27 da noi (anche se alcuni studiosi hanno ipotizzato distanze comprese tra i 490 e 3500 a.l.) e pertanto non si ha alcun dato certo sulla luminosità e sulle sue reali dimensioni. Il fatto che una nebulosa risulti essere più luminosa della stella al suo interno suggerisce che la stella emette radiazione altamente energetica nella regione non visibile dello spettro elettromagnetico; questa viene assorbita dai gas della nebulosa che eccitandosi e diseccitandosi la riemettono sotto forma di radiazione visibile. Per la maggior parte delle nebulose planetarie si è notato che la radiazione visibile viene emessa ad un’unica lunghezza d’onda, quella corrispondente alla luce verde dell’OIII (5007 Angstrom). Infine, confrontando alcune immagini della Dumbbell Nebula, Leos Ondra ha scoperto una stella variabile situata nella parte esterna della nebulosa, che ha chiamato Goldilocks’ Variable.

m57Ring Nebula (Messier 57): è una nebulosa planetaria nella costellazione della Lira ed è uno dei maggiori protagonisti dell’emisfero boreale estivo. Recenti ricerche hanno portato alla conclusione che, come suggerisce il nome, è un anello di materiale brillante emesso dalla stella posta nel centro. Dalle immagini della nebulosa si nota come il livello di ionizzazione dei gas (la capacità di strappare alle molecole del gas uno o più elettroni) tende a diminuire all’aumentare della distanza dalla calda stella centrale che ha una temperatura di 100000 Kelvin: la regione centrale è scura suggerendo un’emissione di radiazione UV, mentre nella parte interna dell’anello la ionizzazione di ossigeno e azoto conferisce il colore verde, per poi avere un colore rossastro nella parte esterna dell’anello a causa del processo di eccitazione delle sole molecole di idrogeno. La stella al centro della nebulosa planetaria è una nana bianca di magnitudine 15, ed è il residuo di una stella un tempo molto simile al Sole.

Come detto precedentemente, non si sa con esattezza la distanza di una nebulosa planetaria, ma supponendo sia posta a circa 2300 a.l., questa avrebbe una magnitudine assoluta di -0.3 (circa 100 volte quella del Sole). Questa è stata la seconda nebulosa planetaria a venir scoperta nel 1779 ad opera di Antoine Darquier de Pellepoix. Messier quando la notò, la catalogò come una fioca nebulosa ma perfettamente definita. Il nome di “nebulosa planetaria” proviene dalla somiglianza che Herschel notò tra questo tipo di oggetti e il pianeta Urano che aveva appena scoperto. La prima idea che egli si fece della Ring Nebula fu quella di “una nebulosa traforata o un anello di stelle”, ma soprattutto la riteneva “una curiosità dei cieli”.

Messier 41: ammasso aperto nella costellazione del Cane Maggiore; è facilmente individuabile poiché si trova esattamente a sud della stella più luminosa del cielo, Sirio. M41 contiene un centinaio di stelle, tra cui delle giganti rosse e la più luminosa, di magnitudine 6.9 (700 volte più brillante del nostro Sole) è quasi al centro dell’ammasso. Dall’indagine delle giganti rosse all’interno di questo ammasso si è evidenziata una composizione chimica molto simile a quella della nostra stella. Messier 41 si estende per circa 25-26 a.l., l’età stimata è compresa tra i 190 e i 240 milioni di anni e pare si allontani da noi ad una velocità di 34 km/s. ·

Messier 73: è un falso oggetto Messier dato che si è scoperto essere semplicemente un asterismo di 4 stelle principali totalmente indipendenti tra di loro, nella costellazione dell’Acquario. Quando Messier lo scoprì nel 1780 notò un gruppo di 4 stelle immerse in una debole luminosità e per questo motivo lo catalogò insieme agli altri oggetti come un ammasso stellare. Successive osservazioni da parte dell’astronomo inglese John Herschel misero in discussione tale natura poiché quest’ultimo non notò alcuna nebulosità. L’oggetto Messier 73 è stato al centro di un dibattito una decina di anni fa: da un lato Bassino, Waldhausen e Martinez (2000) sostenevano l’idea di ammasso aperto poiché le stelle che lo costituivano seguivano un rapporto colore-luminosità tipico di queste strutture, dall’altro Carraro (2000) riteneva che fosse un semplice asterismo. Quando Odenkirchen e Soubiran (2002) pubblicarono i risultati di un’indagine spettrale ad alta risoluzione delle sei stelle più brillanti poste al centro del Messier 73, rivelando distanze differenti rispetto alla Terra e moti completamente non correlati tra di loro, il dibattito si concluse ritenendo tale oggetto un semplice asterismo.

Messier 78: è una nebulosa diffusa, ossia un’ampia nebulosa con limiti non definiti che può essere una nebulosa a riflessione (nube di polvere interstellare in grado di riflettere la luce delle stelle vicine) o ad emissione, come la M 42. M78 è la più brillante nebulosa a riflessione posta nella costellazione di Orione. Scoperta da Pierre Méchain nel 1780, appartiene al complesso di Orione, nube di gas e polveri all’interno della Nebulosa di Orione (di cui ne parleremo più avanti). La nebulosa in questione, di estensione pari a 4 a.l., brilla della luce riflessa delle due luminose stelle blu di magnitudine 10 vicino ad essa. L’indagine nel campo dell’infrarosso ha evidenziato come M78 sia una regione in cui sta avvenendo la formazione di giovani stelle, contandone al suo interno 192. Sono stati notati  inoltre, dei getti di materiale che vengono espulsi, molto probabilmente, da giovani stelle intrappolate nella nube di gas entro la quale è avvenuta la loro formazione. Questi getti vengono chiamati oggetti Herbig-Haro e ne sono stati rilevati almeno 17. M78 può essere osservata, in assenza di inquinamento luminoso, anche con un semplice binocolo anche se quello che si può notare attraverso le lenti è un oggetto che presenta una forte somiglianza con una cometa.

m42

The Orion Nebula is a picture book of star formation, from the massive, young stars that are shaping the nebula to the pillars of dense gas that may be the homes of budding stars. Credit: NASA,ESA, M. Robberto (Space Telescope Science Institute/ESA) and the Hubble Space Telescope Orion Treasury Project Team

Orion Nebula (Messier 42): è la nebulosa diffusa in emissione più brillante nel cielo, visibile anche ad occhio nudo in condizione moderatamente favorevoli ed è la regione di formazione stellare più vicina a noi. Situata nella costellazione di Orione, è un oggetto che si estende per oltre 1 grado, ossia quattro volte lo spazio occupato dalla luna piena. La nebulosa di Orione fu molto probabilmente scoperta nel 1610 da un legale francese, Nicholas-Claude Fabri de Peiresc, ma rimase celata tra i suoi appunti fino al 1916, quando l’astronomo Bigourdan li rese noti. Altri astronomi però, nel corso dei secoli, la individuarono indipendentemente l’uno dall’altro. E’ alquanto strano che questa nebulosa si trovi all’interno della lista Messier perché questi annotava nel suo catalogo gli oggetti di luminosità moderata che potevano essere scambiati per delle comete. La spiegazione può risiedere nel fatto che Messier abbia registrato questa nebulosa semplicemente per raggiungere facilmente un numero di 45 oggetti nel suo catalogo e pubblicarne così una prima edizione nel 1771, superando la lista di 42 oggetti celesti dell’emisfero australe pubblicata da Lacaille nel 1755.

Questa nebulosa è posta ad una distanza di 1500 a.l., ha un diametro di circa 30 a.l. e nella parte nord essa è troncata da un’evidente linea scura. A nord-est vi è una nebulosa più piccola, anch’essa a emissione (M 43) la cui luminosità è dovuta ai suoi stessi atomi che vengono eccitati dalla radiazione altamente energetica proveniente dalla calda e massiva stella giovane al suo interno. In queste stesse plaghe celesti vi è una regione di formazione stellare, la più giovane finora conosciuta, chiamata Trapezium cluster. Questa, costituita da caldo e luminoso gas ionizzato non è altro che un sottile strato all’interno di una più estesa nube di materiale più denso nominata Orion Molecular Cloud 1 (OMC1).

Beehive Cluster (Messier 44): è un ammasso aperto di stelle nella costellazione del Cancro facilmente visibile ad occhio nudo e per questo motivo, già noto nell’antichità. I greci e i romani vedevano in esso, ritenuto all’epoca una nebulosa, una mangiatoia in cui vi erano due asini a cibarsi, l’Asino Boreale (rappresentato dalla stella γ Cancer) e l’Asino Australe (ossia la stella δ Cancer). Non a caso, questo ammasso è noto anche con il nome di Praesepe, che in latino significa “mangiatoia”. Galileo fu il primo a smascherare la sua vera natura di ammasso stellare riuscendo a risolvere all’interno 40 stelle. Oggigiorno si sa che a questo ammasso appartengono con certezza almeno 200 tra le 350 stelle ipotizzate. Messier 44, distante 577 a.l. e con un’età stimata di 730 milioni di anni presenta una comportamento analogo ad un altro ammasso stellare facilmente visibile ad occhio nudo, le Iadi. Questo, con un’età stimata di 790 milioni di anni, pur non facente parte del catalogo Messier e abbastanza distante da Praesepe, presenta molte similitudini con esso, tanto che si è ipotizzata un’origine comune tra i due ammassi. Un’ulteriore conferma di questa ipotesi è la popolazione stellare al loro interno. Entrambi presentano giganti rosse e alcune nane bianche.

m45

M45: The Pleiades Star Cluster Image Credit & Copyright: Robert Gendler

Pleiadi (Messier 45): è un ammasso aperto nella costellazione del Toro, distante circa 380 a.l.. Ad occhio nudo si riescono a distinguere, a circa 10 gradi a nord-ovest dalla stella gigante rossa Aldebaran, almeno sei membri del gruppo, in condizioni abbastanza favorevoli se ne individuano nove e in zone in cui il cielo è completamente scuro e privo di inquinamento luminoso il numero delle componenti raggiunge la dozzina. Le Pleiadi erano già note ad Omero il quale le cita nelle proprie opere, l’Iliade (in cui adornano lo scudo di Achille) e l’Odissea (le quali aiutano Ulisse ad orientarsi nel cielo durante la sua navigazione per tornare ad Itaca) e sono conosciute con il nome alternativo di “Sette sorelle”. In effetti gli antichi greci riconoscevano in questo ammasso le sette sorelle figlie del padre Atlas e della madre Pleione: Alcyone, Asterope, Electra, Maia, Merope, Taygeta e Celaeno.

E’ stato dimostrato che le stelle all’interno di questo ammasso si muovono nello spazio in gruppo, con un moto comune, confermando l’ipotesi di un ammasso fisico e non di un semplice raggruppamento ottico. Si è notata la presenza di una nebulosa a riflessione nella zona in cui vi sono le Pleiadi, che presenta un colore bluastro poiché riflette la luce proveniente dalle stelle poste nelle vicinanze o al suo interno. Si ritiene però che non vi sia alcun legame tra l’ammasso delle Pleiadi e questa nebulosa a riflessione. L’età stimata di questo ammasso è di 100 milioni di anni e alcuni studi sostengono che le Pleiadi continueranno a mantenere tale aspetto per altri 250 milioni di anni per poi separarsi l’una dall’altra e proseguire per il proprio percorso individuale. Le Pleiadi hanno una velocità di rotazione molto elevata (evidenziata da righe di assorbimento dello spettro elettromagnetico molto spesse) e perciò, molto probabilmente hanno una forma oblata e non sferica. La stella che ruota più velocemente è Pleione, una stella variabile con una magnitudine che varia da 4.77 a 5.50. Una stranezza all’interno di questo ammasso relativamente giovane è la presenza di nane bianche, stelle nell’ultima fase della loro vita e perciò molto vecchie. Molto probabilmente queste stelle, un tempo molto massive, si sono generate all’interno dell’ammasso stesso e non sono state catturate dall’esterno, ma per qualche causa ancora da chiarire hanno perso la maggior parte della propria massa per poi perderne un’altra rilevante percentuale sotto forma di nebulosa planetaria. Le Pleiadi sono situate in prossimità dell’eclittica (il percorso apparente compiuto dal Sole in un anno proiettato sulla sfera celeste) e molto spesso sono occultate dalla Luna fornendo una spettacolare immagine del nostro satellite immerso nella luce emanata dalle “Sette Sorelle”. Dopo questo breve viaggio all’interno del Braccio di Orione ci si rende conto che facciamo parte di un meccanismo complesso e allo stesso tempo affascinante che non possiamo fare altro che ammirare e cercare di comprendere. La nostra indagine si è limitata, però, solo all’interno della Via Lattea; chissà se riusciremo mai a conoscere del tutto l’immenso universo a cui apparteniamo.  

Sulle ali di luce di un’aurora – Anna Galiano

Immaginate di trovarvi per strada di notte e di vedere in cielo delle enormi fiamme di un colore verdastro o rossastro talmente luminose che vi permetterebbero di leggere il vostro libro preferito, immersi in un’atmosfera surreale e romantica. Strano, vero? Forse per noi poveri sfortunati che viviamo in prossimità della fascia equatoriale della Terra, ma non per coloro che si trovano a latitudini maggiori, i quali possono assistere al meraviglioso fenomeno delle aurore. Le aurore si manifestano nelle regioni polari e sono dette perciò “Northern (Southern)Lights”; tipicamente sono visibili in luoghi quali Alaska, Danimarca, Scozia, Groenlandia, Islanda, Finlandia, Norvegia, Russia, mentre le aurore australi sono osservabili in regioni opposte quali Antartide, Sud America, Nuova Zelanda ed Australia. Questi fenomeni sono stati spiegati nell’antichità con racconti mitologici, a volte anche terribili, da parte delle popolazioni nordiche: i Vichinghi sostenevano che quelle luci derivassero dalle abbaglianti armature delle guerriere Valchirie, quando di notte solcavano i cieli scandinavi; gli Inuit, popolo originario della Groenlandia, attribuivano una spiegazione più macabra, ritenendo che le aurore fossero gli spiriti dei bambini che avevano perso la vita in maniera molto violenta oppure che fossero deceduti proprio il giorno del loro compleanno. Oggi sappiamo che le Valchirie e gli spiriti dei bambini in realtà non c’entrano nulla con un fenomeno la cui origine è strettamente e puramente di natura fisica: questi bagliori luminosi si verificano quando le particelle cariche provenienti dal vento solare vengono intrappolate nella magnetosfera terrestre e che in seguito interagiscono con gli atomi che si trovano nella parte superiore della nostra atmosfera.

Procediamo in dettaglio e con ordine: il Sole è una stella composta essenzialmente da Idrogeno (H) ed Elio (He) ed è inoltre dotata di un’atmosfera propria, la cui parte più esterna, la corona, raggiunge una temperatura (cinetica) di circa 2 milioni di gradi centigradi. La corona emette in tutte le direzioni un gas di elettroni liberi e particelle cariche positivamente (ioni) che può essere inteso come un plasma molto caldo. Questo gas viaggia nello spazio interplanetario con una velocità media di 400 Km/s e trasportando una densità di particelle pari a circa 5 ioni per cm3 di volume, raggiunge la Terra sotto forma di vento solare.

La Terra è un pianeta dotato di un campo magnetico di intensità media pari a 0.3 Gauss. La componente principale (circa il 97%) è originata dalla rotazione della Terra attorno al proprio asse che permette alle particelle cariche nello strato di ferro liquido che circonda il nucleo, di generare correnti elettriche e queste, grazie al loro moto, generano il campo nucleare. In più le rocce della crosta terrestre vengono magnetizzate dal campo nucleare e forniscono esse stesse un campo magnetico secondario (seppur in percentuale molto minore) noto come campo crostale.

Le linee di forza del campo magnetico terrestre, che definiscono la magnetosfera, sembrerebbero essere quelle generate da un dipolo magnetico, ossia linee simmetriche rispetto all’asse geomagnetico del campo che decorrono dal polo sud al polo nord. In realtà la forza esercitata dal vento solare sulla magnetosfera provoca una compressione e deformazione tale da determinarne la forma a goccia.

magnetosfera terrestre

Figura 1: Immagine che rappresenta la magnetosfera terrestre nella quale le linee di forza sono deformate dall’azione del vento solare.

La magnetosfera, che è sostanzialmente costituita da particelle cariche, funge da ottimo scudo per la Terra, dato che estendendosi per diversi Km, impedisce alla maggior parte dei raggi cosmici e particelle cariche nocive per la vita umana di raggiungere la superficie terrestre. Questa protezione, però è assente ai poli. Mentre alcune particelle vengono deviate ed allontanate dalla magnetosfera terrestre, altre un po’ più energetiche riescono a penetrarla. Secondo ciò che viene chiamata riconnessione magnetica, le linee di forza di due corpi magnetici, direzionate in senso opposto possono distruggersi e ricombinarsi con altre linee di forza e di conseguenza liberare energia. In questo modo, quando le linee di forza del campo magnetico solare (di intensità pari ad 1 Gauss) interagiscono con quelle della Terra, le particelle cariche provenienti dal Sole riescono ad immettersi nella magnetosfera. Giunte all’interno della magnetosfera, una buona parte delle particelle viene intrappolata in particolari zone dette Fasce di Van Allen: vi è una fascia esterna a 40000 Km di distanza dalla Terra costituita da elettroni, ed una più interna a 6300 Km, ricca di protoni ed elettroni. Che fine hanno fatto le particelle rimanenti? Queste collidono con le particelle della magnetosfera e tramite le collisioni riescono a liberarsi dalla trappola innescata dallo scudo che circonda la Terra, subiscono un’accelerazione da parte del campo magnetico terrestre e raggiungono i poli. Questi, come già accennato, sono gli unici punti della Terra che non sono circondati dalla magnetosfera, pertanto le particelle del vento solare possono interagire con gli atomi che sono presenti nella parte superiore dell’atmosfera terrestre, la cosiddetta ionosfera. Queste interazioni generano un’ulteriore componente del campo magnetico terrestre (campo esterno). La ionosfera è uno strato atmosferico che si estende dagli 85 Km ai 600 Km dal suolo e l’origine del nome proviene proprio dal fatto che gli atomi in questo strato interagiscono con la radiazione solare e vengono ionizzati, perdendo o acquisendo elettroni. Come si nota dall’immagine seguente, la ionosfera appartiene a tre fasce dell’atmosfera, che sono mesosfera, termosfera ed esosfera.

Struttura dell’atmosfera terrestre

Figura 2: Struttura dell’atmosfera terrestre.

Dunque come quelle antiche armate alla ricerca di nuovi territori da conquistare, che dopo aver percorso un lungo tragitto ed aver individuato la fortezza da espugnare, riescono a vincerne le difese ed innescare una battaglia interna, così alcune particelle del vento solare, dopo aver attraversato circa 150 milioni di Km ed essere riuscite a svincolarsi dalla protezione della magnetosfera terrestre, interagiscono e collidono con gli atomi dell’alta atmosfera. Questi ultimi vengono eccitati, quindi raggiungono un livello di energia superiore ma instabile e di conseguenza decadono, ritornando nello stato stabile ed emettendo radiazione elettromagnetica al seguito della transizione avvenuta. Le aurore sono i fotoni di luce emessi dagli atomi diseccitati che giacciono nella ionosfera. Le aurore terrestri si manifestano per qualche ora e possono avere forme, colore ed intensità variabili. Il colore è associato alla presenza di atomi diversi nell’atmosfera; al di sopra dei 100 Km dal suolo vi è principalmente abbondanza di Azoto (che costituisce il 78% dell’atmosfera terrestre) ed Ossigeno (20%). L’Azoto predomina sull’Ossigeno fino a 100 Km, mentre si ha maggior abbondanza di Ossigeno al di sopra dei 200 Km, come si evince dal grafico seguente.

Grafico che descrive la quantità di Ossigeno ed Azoto alle diverse altitudini.

Figura 3: Grafico che descrive la quantità di Ossigeno ed Azoto alle diverse altitudini. Si nota come l’Azoto predomini intorno ai 100 Km, mentre viene sovrastato dalla quantità di Ossigeno oltre i 200 Km.

L’Ossigeno eccitato decade dopo circa 1 secondo ed emette radiazione di colore verde quando si trova ad altitudini inferiori, mentre produce, ad altezze più elevate, luce rossa corrispondente ad una lunghezza d’onda λ pari a 6300 Ǻ (Angstrom). Quest’ultima componente determina la “auroral red line” ed è spesso difficile da individuare per la bassa sensibilità del nostro occhio al colore rosso e per la ridotta presenza di atomi di Ossigeno nell’atmosfera.

L’Azoto, inoltre, decade istantaneamente dallo stato eccitato ed emette radiazione di colore rosso, blu e violetto, le cui lunghezze d’onda sono indicate con gli stessi colori nella Figura 4, che descrive lo spettro di emissione dell’Azoto molecolare.

Spettro di emissione dell’Azoto molecolare

Figura 4: Spettro di emissione dell’Azoto molecolare, in cui sono evidenziate le radiazioni emesse alle diverse lunghezze d’onda corrispondenti al blu, violetto e rosso.

Di conseguenza, l’emissione di luce da parte di Azoto ed Ossigeno e la loro diversa combinazione alle differenti quote, determina la colorazione dell’aurora, complessivamente verdastra ad altitudini più basse e di un tenue colore rossastro alle quote superiori.

In più le molecole di Azoto eccitate possono interagire con l’Ossigeno atomico e determinare un’ulteriore emissione di luce verde (auroral green line), corrispondente alla lunghezza d’onda di 5570 Ǻ e visibile al di sotto dei 100 Km di altitudine.

Le emissioni di luce di cui abbiamo appena accennato, la auroral green line che corrisponde ad una riga di emissione con λ=5570 Ǻ e la auroral red line con λ=6300 Ǻ sono quelle che principalmente dominano le aurore e per questo sono chiamate righe aurorali. Le si può individuare nello spettro di emissione dell’Ossigeno Atomico riportato di seguito.

Emissione di radiazione elettromagnetica dell’Ossigeno

Figura 5: Emissione di radiazione elettromagnetica dell’Ossigeno, tendente al verde quando è ad altitudini superiori ed al rosso quando è presente in altitudini più basse. Inoltre le due frecce indicano le righe aurorali.

Le righe aurorali sono radiazioni emesse al seguito di particolari transizioni che avvengono tra i livelli energetici del’Ossigeno neutro, rispettivamente tra i livelli 1S0 1D2 e 1D23P2. L’apice è dato dall’espressione 2S+1, dove S è il momento totale di spin degli elettroni coinvolti (il valore 1 suggerisce che S è 0, ossia gli elettroni ruotano attorno al proprio asse in sensi opposti e per questo sono detti antiparalleli, il valore 3 suggerisce S pari ad 1, quindi gli elettroni coinvolti hanno spin paralleli). Il pedice invece è definito dal valore J, la somma del momento angolare totale L (il quale descrive la rotazione delle particelle nello spazio) e del momento totale di spin S, individuato come termine di accoppiamento spin-orbita. Le lettere dei livelli S, P e D corrispondono a dei particolari valori del momento angolare totale L pari a 0, 1, 2, che permettono di individuare i diversi livelli energetici che un atomo può raggiungere.

Nei casi in cui le particelle del vento solare sono altamente energetiche si manifestano aurore fortemente intense e brillanti in cui il colore verdastro giace su di un sottile strato rosso.

Aurora dal colore verdastro

Figura 6: Aurora dal colore verdastro, con uno strato rossastro sottostante, indice che tale fenomeno è stato prodotto da particelle cariche fortemente energetiche.

Le Aurore possono essere distinte in diffuse e discrete. Le prime sono debolmente percettibili, anche in una notte buia, mentre le altre sono facilmente visibili all’interno di quelle diffuse, variando da bagliori deboli a quelli così intensi da poter riuscire a leggere un foglio di giornale.

Le emissioni aurorali assumono forme diverse, somigliando a degli archi oppure a delle corone, fino ad apparire come dei drappeggi fissi o “danzanti” nel cielo, richiamando alla mente il movimento di una tenda quando è sfiorata da una mano. Queste “tende” sono composte da raggi paralleli, ciascuno in allineamento con le linee di forza del campo magnetico terrestre, dimostrando che l’aurora è un fenomeno modellato proprio da quest’ultimo. Osservazioni mediante i satelliti hanno in effetti dato prova di come gli elettroni catturati dalla magnetosfera si dirigano verso i poli spiraleggiando attorno alle linee di forza del campo magnetico.

Il mozzafiato gioco di luci e forme che decora i cieli polari ed australi può essere apprezzato totalmente un’ora prima della mezzanotte quando l’osservatore, il polo magnetico ed il Sole sono perfettamente allineati, ossia nel momento in cui scatta la “mezzanotte magnetica”.

Le collisioni che originano le aurore avvengono in zone ovali asimmetriche attorno ai poli, cosiddette “ovali aurorali” e le loro proiezioni sulla terra determinano le “zone aurorali”, regioni dove si ha la massima osservabilità di aurore, localizzate ad una latitudine di 67°N e 67°S e con un’estensione di circa 6 gradi. Gli ovali aurorali possono variare le proprie dimensioni ed estendersi anche fino all’equatore al seguito di un’attività solare fortemente intensa. A tal proposito, si deve considerare che, come si è già osservato, le aurore sono legate al plasma emesso dal Sole e di conseguenza la loro intensità dipende dalla quantità di particelle cariche che lo costituisce, il quale a sua volta è strettamente connesso con la comparsa della macchie solari. Queste ultime sono delle piccole regioni irregolari sulla superficie del Sole, dal colore più scuro rispetto alle zone circostanti perché relativamente più fredde. Si ritiene che queste siano dovute a dei flussi magnetici in salita verso la superficie e il picco massimo di intensità si raggiunge ogni undici anni, determinando il ciclo solare. Durante il picco massimo del ciclo solare o negli anni immediatamente successivi la quantità di materiale espulsa dal Sole è così elevata che si scatenano delle forti tempeste geomagnetiche, allargando l’ovale aurorale fino alle zone temperate. E’ in queste rare occasioni che gli abitanti delle regioni vicine all’equatore possono avere qualche probabilità di assistere al fenomeno delle aurore. Pare che l’ultimo picco massimo sia stato raggiunto nel Febbraio 2012, in cui sono state registrate circa 67 macchie solari; attualmente siamo ancora nella fase attiva del ciclo, con circa 63-65 macchie solari e tutto ciò spiegherebbe la recente comparsa di aurore in una regione insolita della Terra, come quella che ospita il sud della Gran Bretagna.

Grafico che mostra il ciclo solare di durata pari ad 11 anni

Figura 7: Grafico che mostra il ciclo solare di durata pari ad 11 anni. Si nota come negli anni il picco massimo abbia gradualmente ridotto la sua intensità.

Nella notte tra il 27 e il 28 Febbraio scorso le aurore boreali hanno colorato i cieli di Norfolk, Essex, Galles e Scozia, affascinando gli abitanti per un paio d’ore con i loro colori tendenti al rosso, verde e giallo. Gli scienziati che monitorano l’attività solare avevano registrato il 7 Gennaio 2014 un’espulsione di massa solare molto intensa. Di seguito, i ricercatori dello Space Weather Prediction Centre in Boulder (Colorado) avevano predetto un’imminente tempesta solare. L’intensità di luce visibile al seguito di tempeste geomagnetiche viene misurata tramite l’indice KP che può assumere valori compresi tra 0 e 9. In quell’occasione l’indice KP variò dal valore 1 (il quale indica che la luce aurorale si manifesta nel Nord della Scandinavia) al valore 7 suggerendo che le aurore potevano essere avvistate anche nel Sud del Galles e nel Sud dell’Inghilterra. Ci si aspettava dunque di riuscire a vedere le “Northern Lights” in tali zone il 9 Gennaio, ma anche se questo fenomeno si è fatto attendere, il risultato è stato comunque strabiliante.

Aurora boreale nei cieli meridionali della Gran Bretagna.

Figura 8: Aurora boreale nei cieli meridionali della Gran Bretagna.

Aurora boreale nei cieli meridionali della Gran Bretagna.

Figura 8b: Aurora boreale nei cieli meridionali della Gran Bretagna.

Sembra, inoltre, che le aurore non siano dei fenomeni silenziosi: infatti come la precedente armata espugna la fortezza facendo echeggiare le proprie urla, così questi fenomeni generano dei suoni. Alcuni viaggiatori sostengono di aver udito, in concomitanza con la manifestazione aurorale, dei suoni somiglianti a degli applausi o crepitii, deboli e istantanei, giurando che provenissero dalle aurore stesse. Per molto tempo gli scienziati sono stati scettici a tal proposito, sostenendo che lo strato alto dell’atmosfera in cui si formano le aurore è così sottile che non può permettere la propagazione di onde sonore. Ma nel 2012 un gruppo di ricercatori appartenenti alla Aalto University in Finlandia ha pubblicato un articolo nella quale affermava di aver registrato un suono, prodotto a 70 m di altezza dal suolo, simile a degli applausi e in contemporanea con la manifestazione delle aurore. Secondo il parere di questi ricercatori i suoni provengono da particelle del vento solare che sono responsabili delle luci aurorali, proprio come sostenuto dai viaggiatori “fortunati”. Infatti non possiamo aspettarci di sentire un suono paragonabile a quello che fuoriesce dalle casse musicali durante un concerto, ma tutt’altro: udire questi particolari segnali acustici è molto difficile, innanzitutto perché si manifestano durante periodi di massima attività aurorale e in secondo luogo si presentano in notti prive di vento e di qualsiasi altra fonte di rumore. Ascoltare i suoni dell’aurora è un evento così raro che può capitare una sola volta nella vita.

Pare che le aurore più intense fino ad ora registrate siano state quelle avvenute il 28 Agosto e il 2 Settembre del 1859. In particolar modo l’aurora del 2 Settembre si è manifestata a distanza di un giorno dal rilascio di un’enorme quantità di energia (flare solare) da parte del Sole, l’espulsione di massa coronale più intensa mai registrata. Il flare solare ha raggiunto la Terra ed ha prodotto aurore così intense e brillanti da venir ammirate anche negli Stati Uniti, in Europa, in Giappone ed in Australia. Tempeste geomagnetiche talmente forti, oltre a provocare fenomeni così luminosi possono interrompere le comunicazioni radio, ma quella volta due operatori dell’”American Telegraph Line” riuscirono a comunicare tra loro dalle due diverse sedi, Boston e Portland per circa due ore. Ciò può essere spiegato supponendo che le antenne di alcuni telegrafi avessero il giusto orientamento perché il campo elettromagnetico formatosi da quella tempesta inducesse una corrente geomagnetica, permettendo ai due operatori di comunicare a grandi distanze senza alimentatore.

Non cerchiamo, però di essere egocentrici e pensare che noi terrestri siamo gli unici ad ospitare il fenomeno delle aurore: luci aurorali, anche abbastanza spettacolari, sono state osservate su Venere, Marte, Giove, Saturno, Urano e Nettuno.

Venere non è dotato di un campo magnetico nucleare quindi è priva di magnetosfera, pertanto le particelle provenienti dal vento solare impattano contro l’atmosfera venusiana e danno luogo ad aurore che si diffondono su tutto il disco planetario come delle macchie con luminosità e forma diverse, visibili sul lato del pianeta non illuminato dal Sole.

La manifestazione di aurore su Marte è stata una scoperta abbastanza recente: il 14 Agosto 2004 lo strumento SPICAM a bordo della sonda Mars Express dell’ESA (Agenzia Spaziale Europea) ha rivelato un’aurora nell’emisfero sud del pianeta, nella regione denominata “Terra Cimmeria”. L’emissione aurorale presentava un diametro di 30 Km ed un’estensione in altitudine di 8 Km. I ricercatori hanno notato come la regione in cui si è manifestata l’aurora presenti un campo magnetico fortemente localizzato. Così l’origine del fenomeno può essere attribuita ad un flusso di elettroni che muovendosi lungo le linee di forza del campo magnetico crostale generato da rocce magnetizzate (Marte, come Venere non è dotato di un campo magnetico principale nel nucleo) eccitano gli atomi della parte superiore dell’atmosfera marziana.

Il gigante gassoso del nostro Sistema Solare, Giove, dà luogo ad aurore che hanno un’intensità 100 volte maggiori rispetto a quelle terrestri poiché presenta un campo magnetico molto più forte di quello della Terra, pari a 4.3 Gauss. Le aurore su Giove sono state osservate per la prima volta nel 1979, ad opera della missione Voyager 1. L’Hubble Space Telescope (HST) ha catturato un’immagine di un’aurora che, ondeggiando come una tenda, colora il polo nord del pianeta, visibile nella parte ultravioletta (UV) dello spettro elettromagnetico. Si ritiene che le cause di questo fenomeno siano dovute non solo all’interazione del vento solare con l’atmosfera di Giove ma anche, e forse soprattutto, al proprio satellite Io.

 Fenomeno aurorale manifestatosi sul pianeta Giove e ripreso nell’UV.

Figura 9: Fenomeno aurorale manifestatosi sul pianeta Giove e ripreso nell’UV. Credit: John Clarke (University of Michigan) and NASA

Io presenta un’intensa attività vulcanica ed emette nello spazio circostante elementi come Zolfo ed Ossigeno, i quali sfuggono al suo campo gravitazionale, si dispongono in una regione a forma di “ciambella” nella regione circostante il pianeta gigante e interagiscono con il campo magnetico di Giove. In questo modo vengono generate delle aurore visibili nella regione X dello spettro elettromagnetico. Come prova che gli atomi emessi dai vulcani di Io siano in grado di influenzare il fenomeno aurorale che si manifesta su Giove i ricercatori hanno tenuto sotto controllo un particolare elemento prodotto dal satellite, il Sodio. Nel 2007 i dati hanno registrato un aumento di Sodio nella regione che circonda Giove al seguito di un’attività vulcanica di Io particolarmente forte; ma come conseguenza di questa emissione, è stato rilevato un basso segnale radio, indice che sono state prodotte poche aurore sul pianeta gigante. Infatti prima di raggiungere l’atmosfera, le particelle cariche possono emettere onde radio. In conclusione, Io ha un’enorme influenza sulla manifestazione di aurore sul pianeta Giove, ma così come può creare il fenomeno, è anche in grado di ridurlo.

Su Saturno hanno origine spettacolari ed intense aurore che durano per giorni, visibili però, anch’esse, nell’UV. Furono osservate per la prima volta ai poli nel 1979, dalla sonda Pioneer 11 di appartenenza della NASA. Le aurore di Saturno si estendono per diversi Km dai poli e l’emissione di radiazione ultravioletta è dovuta alla presenza di atomi di Idrogeno nell’atmosfera. Le prime immagini che raffiguravano questi fenomeni nelle regioni settentrionali di Saturno sono state ottenute nel 1994/1995 dall’HST, mentre recentemente la sonda Cassini ha fornito una più vasta gamma di manifestazioni aurorali, indagando nelle regioni dello spettro elettromagnetico corrispondenti all’IR (infrarosso), UV e Visibile. Le osservazioni comprendono sia le regioni settentrionali complementari che quelle meridionali e la sonda ha inoltre ripreso le aurore sulla faccia del pianeta non visibile dalla Terra.

 Ovale aurorale al polo di Saturno, visibile nell’UV.

Figura 10: Ovale aurorale al polo di Saturno, visibile nell’UV. Credit NASA

La prima volta che venne osservata un’aurora su Urano fu nel 1986, quando la sonda della NASA Voyager 2 vi orbitò attorno e una recente foto di manifestazioni aurorali è stata ottenuta dall’HST nel 2011. Urano è un pianeta particolare per l’inclinazione del proprio asse di rotazione, quasi giacente sul piano orbitale: ciascuna regione polare è illuminata dal Sole per 40 anni e rimane in ombra per altrettanti anni. Ha inoltre un asse di campo magnetico inclinato di circa 60° rispetto all’asse di rotazione. A causa della particolare inclinazione dell’asse rotazionale l’aurora vista da Voyager 2 è diversa rispetto a quella fotografata dall’HST. Nel 1986 l’asse di rotazione puntava in direzione del Sole (solstizio) e la sonda, orbitandogli attorno, ha potuto notare le aurore formatesi sul lato in ombra del pianeta. Nel 2011, invece, l’asse di rotazione era perpendicolare al Sole (punto equinoziale) e in più la visibilità dell’HST era ridotta poiché questo telescopio spaziale osserva il Sistema Solare rimanendo in orbita attorno alla Terra. HST è riuscito, nonostante tutto, a catturare dei deboli bagliori luminosi (visibili nella seguente Figura 11) della durata di pochi minuti, nella regione destra del pianeta, corrispondente al polo nord magnetico di Urano.

Piccole macchie aurorali fotografate dall’HST nel 2011 in corrispondenza del polo nord magnetico di Urano.

Figura 11: Piccole macchie aurorali fotografate dall’HST nel 2011 in corrispondenza del polo nord magnetico di Urano. Credit NASA and Erich Karkoschka, U. of Arizona

Anche su Nettuno sono state individuate delle aurore, con una potenza pari a 50 milioni di Watt, molto minore rispetto ai 100 miliardi di Watt delle aurore terrestri. Il campo magnetico di Nettuno però è molto complesso e questo dà origine a fenomeni aurorali altrettanto difficili da studiare, dislocati in diverse regioni del pianeta e non solo ai poli.

Infine, varcando i confini del nostro quartiere ed uscendo dal Sistema Solare, ritroviamo nuovamente le aurore che animano le pseudo-stelle di massa molto piccola, minore di 0.08Mּ (Mּ indica la massa solare che equivale a 2×1033g), le “nane brune”. Un gruppo di ricercatori capeggiato da Jonathan Nichols ha dimostrato che l’emissione di onde radio da parte di alcune nane ultrafredde potrebbe essere spiegata tramite fenomeni simili a quelli che originano le aurore. In questo modo si potrebbe riuscire ad individuare pianeti di cui altrimenti non si verrebbe mai a conoscenza. In più tale meccanismo può essere sfruttato per conoscere il campo magnetico di altri pianeti ed avere informazioni sulle interazioni con le loro stelle e i propri satelliti.

Le transizioni che generano le aurore terrestri sono state individuate anche in ammassi di gas rarefatto e pulviscolo cosmico, note come nebulose gassose. Queste si suddividono in: nebulose diffuse (luminose ed oscure), nebulose planetarie e nebulose extragalattiche. Le nebulose planetarie sono il risultato di una stella di massa pari alla massa del nostro Sole, che cessata la reazione nucleare che converte Idrogeno (H) in Elio (He) nel proprio nucleo (core) e quindi uscita dalla fase di sequenza principale, si presenta con un nucleo di He e con l’H nelle regioni circostanti. In più, attorno al nucleo vi è una fascia di He in combustione che avanzando verso l’esterno, libera un’energia tale da far espellere il materiale circostante lasciando a nudo il nucleo di He: in questo modo si forma la nebulosa planetaria. Agli inizi dello scorso secolo erano state individuate, nello spettro delle nebulose, delle righe di emissione insolite, la cui origine era sconosciuta. In un primo momento si ipotizzò l’esistenza di un nuovo elemento, il “Nebulio” che decadendo da livelli energetici di energia superiore emetteva radiazione a lunghezze d’onda anomale, specialmente a λ=4959 Ǻ e a λ=5007 Ǻ. Successivamente si intuì che tali righe venivano emesse da materiali noti che si trovavano però in particolari condizioni ed in effetti ciò venne confermato nel 1928 dal fisico statunitense Ira Bowen. Infatti Bowen analizzò i livelli energetici dell’Ossigeno O++ notando che le due righe spettrali sopra citate corrispondevano alle rispettive transizioni: 1D23P1 e 1D23P2. Un’altra insolita riga veniva generata dalla transizione 1S01D2, la transizione che sulla Terra genera l’auroral green line e per questo nominata, come già detto, “transizione aurorale”. All’interno delle nebulose avvengono anche processi di foto-ionizzazione ossia un fotone interagendo con un atomo od uno ione, lo priva di uno o più elettroni. Questi ultimi sono così energetici che collidendo con l’O++ nella sua configurazione fondamentale, lo eccitano e gli permettono di raggiungere livelli più energetici ed instabilie favorire di conseguenza i decadimenti sopra descritti. Si può stimare il rapporto tra l’energia emessa durante la transizione aurorale (1S→1D) e quella emessa durante la transizione nebulare (1D→3P) e in questo modo i ricercatori potrebbero riuscire a conoscere la temperatura degli elettroni coinvolti nel processo e la loro densità. In questo modo si possono comprendere meglio le modalità in cui si verificano questi processi proibiti, la cui esistenza viola una delle regole che permettono la transizione tra livelli energetici. Il motivo sostanziale del perché queste transizioni si notano nelle nebulose risiede nelle grandi dimensioni dell’oggetto considerato, il quale possiede un’elevata densità di particelle che possono dar luogo ad un gran numero di collisioni. Da questi rapporti di energia si può tra l’altro venire a conoscenza della sezione d’urto delle collisioni tra elettroni ed atomi, ossia determinare la probabile area attorno all’atomo nella quale avviene la collisione ad opera dell’elettrone.

Le aurore sono dei fenomeni che suscitano sorpresa e stupore ma i meccanismi che sono alla base della loro origine sono un importante oggetto di studio. Ammirandole e studiandole, possiamo permettere al nostro occhio di contemplarne la bellezza e fornire alla nostra mente i mezzi per comprendere fenomeni che avvengono in tutto l’Universo.

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Credit: Simone Renoldi

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Credit: Simone Renoldi

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Credit: Simone Renoldi

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Credit: Simone Renoldi
Come fotografare l’aurora boreale:
http://www.phototutorial.net/2013/10/28/fotografare-aurora-boreale/

BLUE AURORAS

BLUE AURORAS: Northern Lights are usually green, and sometimes red. Those are the colors produced by oxygen when it is excited by electrons raining down from space. On Feb. 22nd, Micha Bäuml of Straumfjord, Norway, witnessed an appariton of aurora-blue
“All of a sudden the sky exploded,” says Micha. “The aurora looked like a giant flame.”
In auroras, blue is a sign of nitrogen. Energetic particles striking ionized molecular nitrogen (N2+) at very high altitudes produces a cold azure glow of the type captured in Micha’s photo. Why it overwhelmed the usual hues of oxygen on Feb 22nd is unknown. Auroras still have the capacity to surprise.

 Anna Galiano – 2014

La Via Lattea: la nostra isola nell’Universo – Anna Galiano

Estate è sinonimo di serate all’aperto, di chiacchiere con gli amici e, per gli appassionati di Astronomia, di caccia al tesoro celeste lungo la Via Lattea. Il Sistema Solare fa parte di un grande ammasso di stelle, materiale interstellare e polveri, noto come galassia, che nel nostro caso specifico è, appunto, la Via Lattea. Questa è una galassia a spirale barrata con un diametro maggiore di 100000 a.l. (anni luce); il Sole con i pianeti che gli ruotano attorno, è localizzato in uno dei suoi bracci. La Via Lattea attraversa il nostro cielo notturno come una banda biancastra, poiché le stelle che la compongono le conferiscono la debole nebulosità che ha dato origine al suo nome. Con una estensione di circa 30° nella nostra sfera celeste, la debole luce della Via Lattea può venire facilmente mascherata dall’inquinamento luminoso o dalla luce della Luna. Vi sono, inoltre, alcune zone scure all’interno della banda dovute alla presenza di materiale interstellare che blocca la radiazione luminosa proveniente dalle sorgenti luminose retrostanti.

Via Lattea estivaLa conferma che la nostra galassia è composta da stelle si è avuta nel 1610 quando Galileo Galilei puntò il proprio telescopio e scoprì che l’aspetto nebuloso era in realtà prodotto da una moltitudine di astri molto vicini tra loro, ben al di sotto del potere risolutivo dell’occhio nudo. Indagini moderne stimano la presenza di un numero compreso tra 100 e 400 miliardi di stelle al suo interno. Agli inizi del XX secolo le osservazioni condotte dall’astronomo e astrofisico statunitense Edwin Hubble hanno dimostrato che la Via Lattea è solo una delle tante galassie presenti nell’Universo.

La reale struttura della nostra galassia è ancora oggetto di discussione. Si è certi che questa sia una galassia con un nucleo barrato dalla quale si dipartono dei bracci a spirale logaritmica che racchiudono gas, polveri e stelle, dando origine, così, al disco galattico ed in particolare alla regione denominata thin disk, laddove avvengono i maggior processi di formazione stellare. Nella parte centrale del disco vi è il centro galattico, formato da una gran quantità di vecchie stelle disposte in maniera sferoidale, le quali generano una protuberanza (bulge). Visto dalla Terra il centro galattico, che risulta essere la regione più luminosa della Via Lattea, si trova in corrispondenza della costellazione del Sagittario, in prossimità della sorgente denominata Sagittarius A* caratterizzata da una forte emissione radio. Il moto dei corpi attorno ad essa tradisce la sua natura di oggetto compatto ma con una massa di 4.1-4.5 milioni di volte la massa del Sole, ossia un buco nero supermassivo. L’anticentro galattico, la parte opposta al centro galattico, si trova nella costellazione dell’Auriga.

Gli studi per comprendere la struttura della Via Lattea iniziarono negli anni ‘50 tramite l’indagine spettrale di alcune stelle di tipo O e B (stelle con elevate temperature superficiali) presenti nei bracci a spirale di alcune galassie esterne. I risultati maggiormente soddisfacenti si sono ottenuti però, con le osservazioni nella banda radio. Il mezzo interstellare presente nella nostra galassia è prevalentemente costituito da Idrogeno allo stato neutro, otticamente non osservabile, ma visibile nel radio. Lo stato neutro dell’Idrogeno corrisponde ad un protone e ad un elettrone che occupa lo stato più basso in energia corrispondente al livello 1s. Dall’interazione tra lo spin dell’elettrone e quello del protone tale livello 1s si sdoppia in due sottolivelli: quello con energia maggiore è descritto da elettrone e protone avente lo spin nello stesso verso (Spin totale pari a 1), quello con energia inferiore presenta elettrone e protone con spin opposto (Spin totale nullo). L’elettrone transitando dal livello con energia maggiore a quello con energia minore emette un quanto di energia (fotone) alla lunghezza d’onda pari a 21 cm. Questo è ciò che fu osservato dai radiotelescopi, permettendo così di evidenziare la presenza di Idrogeno e mappare la struttura della nostra galassia. Questa transizione è molto rara, ma essendo lo spazio interstellare costituito da una gran quantità di atomi di Idrogeno, tale riga è facilmente osservabile. La riga di emissione a 21 cm dell’Idrogeno ha permesso di identificare i due bracci principali che costituiscono la Via Lattea: il Braccio di Perseo e il Braccio Scudo-Centauro. Vi sono dei bracci complementari, come il Braccio del Cigno (parte esterna del Norma Arm) e il Braccio del Sagittario ed alcuni secondari, come Carina, e il Braccio di Orione, sede oltre che della Nebulosa di Orione da cui prende il nome, anche del Sistema Solare, il quale giace nella parte interna del braccio ad una distanza di circa 30000 a.l. dal centro galattico.

Dal confronto tra i risultati ottenuti nel campo ottico (utilizzando gli ammassi aperti di giovani stelle che ben descrivono la struttura esterna dei bracci di una galassia a spirale) e quelli acquisiti nell’indagine nelle onde radio (tramite addensamenti di gas molecolare CO, composto da Carbonio e Ossigeno) si è analizzato il Braccio del Cigno e il Braccio di Perseo. Il primo è ben tracciato sia dalle componenti stellari che dagli addensamenti di CO, mentre il Braccio di Perseo è individuato solo dalle componenti CO. La mancanza di tracce stellari nella parte esterna del Braccio di Perseo indica che il braccio Locale, ossia il Braccio di Orione lo stia lentamente perturbando. Si è inoltre notato, in un primo momento, che lungo il piano galattico, ad una distanza di circa 45000 a.l. dal centro galattico, in direzione dell’anticentro, la densità di materiale termina quasi bruscamente. In realtà, osservazioni più dettagliate hanno evidenziato che questa interruzione la si nota in tutte le direzioni; probabilmente tale comportamento è dovuto ad una deformazione del disco galattico. L’assenza di materiale a quelle distanze è solo un’illusione, poiché il disco galattico a circa 43000- 49000 a.l. subisce una deformazione verso il basso. Pertanto per osservare il prolungamento della galassia bisogna considerare latitudini inferiori a 0° rispetto all’equatore galattico. Inoltre, a distanza di circa 65000 a.l. dal centro galattico, sono state osservate stelle giovani, suggerendo che tale zona è una regione attiva di formazione stellare, tutt’altro che priva di materiale.

Gli ultimi risultati, in conclusione, suggeriscono che la nostra galassia abbia in realtà un diametro maggiore di quello sinora conosciuto, circa 130000 a.l..NGC6744Il disco galattico è circondato da astri e ammassi globulari che si estendono per centinaia di migliaia di anni-luce secondo una disposizione sferica, generando l’alone galattico. Il Chandra X-ray Observatory ha dimostrato che nell’alone galattico vi è una grande quantità di gas caldo con temperature comprese tra 1 milione e 2.2 milioni di gradi Kelvin e una massa confrontabile con la massa delle stelle nella galassia.

Una simulazione al computer molto dettagliata realizzata nel 2011 fornisce una spiegazione soddisfacente sulla struttura a spirale della Via Lattea, che sarebbe prodotta principalmente dall’interazione gravitazionale con la vicina Galassia  Ellittica Nana del Sagittario, che pian piano è distrutta ed assorbita dalla nostra galassia.

La Via Lattea, la Galassia di Andromeda, di cui ci occuperemo in un secondo momento data la sua importanza, e altre 70 galassie circa, formano il Gruppo Locale, che insieme ad altri 5 gruppi di galassie, appartiene all’Ammasso della Vergine, componente di una struttura ancora più complessa ed estesa, nota come Superammasso della Vergine. Attorno alla Via Lattea ruotano due galassie più piccole e delle galassie nane, tra le quali la Grande e la Piccola Nube di Magellano. Nell’Universo locale vi sono delle galassie simili alla Via Lattea, ma ce n’è una in particolare con la quale mostra più di un elemento in comune, NGC 6744 nella costellazione del Pavone a circa 30 milioni di a.l. di distanza. La galassia NGC 6744 ha la stessa struttura a spirale, con un diametro pari a 175000 a.l.. Inoltre, una galassia più piccola, NGC 6744A, confrontabile con la Grande Nube di Magellano, le ruota attorno. Per queste somiglianze la galassia a spirale NGC 6744 viene vista come un “fratello maggiore della Via Lattea”,  il “Big brother to the Milky Way”.