Sulle ali di luce di un’aurora – Anna Galiano

Immaginate di trovarvi per strada di notte e di vedere in cielo delle enormi fiamme di un colore verdastro o rossastro talmente luminose che vi permetterebbero di leggere il vostro libro preferito, immersi in un’atmosfera surreale e romantica. Strano, vero? Forse per noi poveri sfortunati che viviamo in prossimità della fascia equatoriale della Terra, ma non per coloro che si trovano a latitudini maggiori, i quali possono assistere al meraviglioso fenomeno delle aurore. Le aurore si manifestano nelle regioni polari e sono dette perciò “Northern (Southern)Lights”; tipicamente sono visibili in luoghi quali Alaska, Danimarca, Scozia, Groenlandia, Islanda, Finlandia, Norvegia, Russia, mentre le aurore australi sono osservabili in regioni opposte quali Antartide, Sud America, Nuova Zelanda ed Australia. Questi fenomeni sono stati spiegati nell’antichità con racconti mitologici, a volte anche terribili, da parte delle popolazioni nordiche: i Vichinghi sostenevano che quelle luci derivassero dalle abbaglianti armature delle guerriere Valchirie, quando di notte solcavano i cieli scandinavi; gli Inuit, popolo originario della Groenlandia, attribuivano una spiegazione più macabra, ritenendo che le aurore fossero gli spiriti dei bambini che avevano perso la vita in maniera molto violenta oppure che fossero deceduti proprio il giorno del loro compleanno. Oggi sappiamo che le Valchirie e gli spiriti dei bambini in realtà non c’entrano nulla con un fenomeno la cui origine è strettamente e puramente di natura fisica: questi bagliori luminosi si verificano quando le particelle cariche provenienti dal vento solare vengono intrappolate nella magnetosfera terrestre e che in seguito interagiscono con gli atomi che si trovano nella parte superiore della nostra atmosfera.

Procediamo in dettaglio e con ordine: il Sole è una stella composta essenzialmente da Idrogeno (H) ed Elio (He) ed è inoltre dotata di un’atmosfera propria, la cui parte più esterna, la corona, raggiunge una temperatura (cinetica) di circa 2 milioni di gradi centigradi. La corona emette in tutte le direzioni un gas di elettroni liberi e particelle cariche positivamente (ioni) che può essere inteso come un plasma molto caldo. Questo gas viaggia nello spazio interplanetario con una velocità media di 400 Km/s e trasportando una densità di particelle pari a circa 5 ioni per cm3 di volume, raggiunge la Terra sotto forma di vento solare.

La Terra è un pianeta dotato di un campo magnetico di intensità media pari a 0.3 Gauss. La componente principale (circa il 97%) è originata dalla rotazione della Terra attorno al proprio asse che permette alle particelle cariche nello strato di ferro liquido che circonda il nucleo, di generare correnti elettriche e queste, grazie al loro moto, generano il campo nucleare. In più le rocce della crosta terrestre vengono magnetizzate dal campo nucleare e forniscono esse stesse un campo magnetico secondario (seppur in percentuale molto minore) noto come campo crostale.

Le linee di forza del campo magnetico terrestre, che definiscono la magnetosfera, sembrerebbero essere quelle generate da un dipolo magnetico, ossia linee simmetriche rispetto all’asse geomagnetico del campo che decorrono dal polo sud al polo nord. In realtà la forza esercitata dal vento solare sulla magnetosfera provoca una compressione e deformazione tale da determinarne la forma a goccia.

magnetosfera terrestre

Figura 1: Immagine che rappresenta la magnetosfera terrestre nella quale le linee di forza sono deformate dall’azione del vento solare.

La magnetosfera, che è sostanzialmente costituita da particelle cariche, funge da ottimo scudo per la Terra, dato che estendendosi per diversi Km, impedisce alla maggior parte dei raggi cosmici e particelle cariche nocive per la vita umana di raggiungere la superficie terrestre. Questa protezione, però è assente ai poli. Mentre alcune particelle vengono deviate ed allontanate dalla magnetosfera terrestre, altre un po’ più energetiche riescono a penetrarla. Secondo ciò che viene chiamata riconnessione magnetica, le linee di forza di due corpi magnetici, direzionate in senso opposto possono distruggersi e ricombinarsi con altre linee di forza e di conseguenza liberare energia. In questo modo, quando le linee di forza del campo magnetico solare (di intensità pari ad 1 Gauss) interagiscono con quelle della Terra, le particelle cariche provenienti dal Sole riescono ad immettersi nella magnetosfera. Giunte all’interno della magnetosfera, una buona parte delle particelle viene intrappolata in particolari zone dette Fasce di Van Allen: vi è una fascia esterna a 40000 Km di distanza dalla Terra costituita da elettroni, ed una più interna a 6300 Km, ricca di protoni ed elettroni. Che fine hanno fatto le particelle rimanenti? Queste collidono con le particelle della magnetosfera e tramite le collisioni riescono a liberarsi dalla trappola innescata dallo scudo che circonda la Terra, subiscono un’accelerazione da parte del campo magnetico terrestre e raggiungono i poli. Questi, come già accennato, sono gli unici punti della Terra che non sono circondati dalla magnetosfera, pertanto le particelle del vento solare possono interagire con gli atomi che sono presenti nella parte superiore dell’atmosfera terrestre, la cosiddetta ionosfera. Queste interazioni generano un’ulteriore componente del campo magnetico terrestre (campo esterno). La ionosfera è uno strato atmosferico che si estende dagli 85 Km ai 600 Km dal suolo e l’origine del nome proviene proprio dal fatto che gli atomi in questo strato interagiscono con la radiazione solare e vengono ionizzati, perdendo o acquisendo elettroni. Come si nota dall’immagine seguente, la ionosfera appartiene a tre fasce dell’atmosfera, che sono mesosfera, termosfera ed esosfera.

Struttura dell’atmosfera terrestre

Figura 2: Struttura dell’atmosfera terrestre.

Dunque come quelle antiche armate alla ricerca di nuovi territori da conquistare, che dopo aver percorso un lungo tragitto ed aver individuato la fortezza da espugnare, riescono a vincerne le difese ed innescare una battaglia interna, così alcune particelle del vento solare, dopo aver attraversato circa 150 milioni di Km ed essere riuscite a svincolarsi dalla protezione della magnetosfera terrestre, interagiscono e collidono con gli atomi dell’alta atmosfera. Questi ultimi vengono eccitati, quindi raggiungono un livello di energia superiore ma instabile e di conseguenza decadono, ritornando nello stato stabile ed emettendo radiazione elettromagnetica al seguito della transizione avvenuta. Le aurore sono i fotoni di luce emessi dagli atomi diseccitati che giacciono nella ionosfera. Le aurore terrestri si manifestano per qualche ora e possono avere forme, colore ed intensità variabili. Il colore è associato alla presenza di atomi diversi nell’atmosfera; al di sopra dei 100 Km dal suolo vi è principalmente abbondanza di Azoto (che costituisce il 78% dell’atmosfera terrestre) ed Ossigeno (20%). L’Azoto predomina sull’Ossigeno fino a 100 Km, mentre si ha maggior abbondanza di Ossigeno al di sopra dei 200 Km, come si evince dal grafico seguente.

Grafico che descrive la quantità di Ossigeno ed Azoto alle diverse altitudini.

Figura 3: Grafico che descrive la quantità di Ossigeno ed Azoto alle diverse altitudini. Si nota come l’Azoto predomini intorno ai 100 Km, mentre viene sovrastato dalla quantità di Ossigeno oltre i 200 Km.

L’Ossigeno eccitato decade dopo circa 1 secondo ed emette radiazione di colore verde quando si trova ad altitudini inferiori, mentre produce, ad altezze più elevate, luce rossa corrispondente ad una lunghezza d’onda λ pari a 6300 Ǻ (Angstrom). Quest’ultima componente determina la “auroral red line” ed è spesso difficile da individuare per la bassa sensibilità del nostro occhio al colore rosso e per la ridotta presenza di atomi di Ossigeno nell’atmosfera.

L’Azoto, inoltre, decade istantaneamente dallo stato eccitato ed emette radiazione di colore rosso, blu e violetto, le cui lunghezze d’onda sono indicate con gli stessi colori nella Figura 4, che descrive lo spettro di emissione dell’Azoto molecolare.

Spettro di emissione dell’Azoto molecolare

Figura 4: Spettro di emissione dell’Azoto molecolare, in cui sono evidenziate le radiazioni emesse alle diverse lunghezze d’onda corrispondenti al blu, violetto e rosso.

Di conseguenza, l’emissione di luce da parte di Azoto ed Ossigeno e la loro diversa combinazione alle differenti quote, determina la colorazione dell’aurora, complessivamente verdastra ad altitudini più basse e di un tenue colore rossastro alle quote superiori.

In più le molecole di Azoto eccitate possono interagire con l’Ossigeno atomico e determinare un’ulteriore emissione di luce verde (auroral green line), corrispondente alla lunghezza d’onda di 5570 Ǻ e visibile al di sotto dei 100 Km di altitudine.

Le emissioni di luce di cui abbiamo appena accennato, la auroral green line che corrisponde ad una riga di emissione con λ=5570 Ǻ e la auroral red line con λ=6300 Ǻ sono quelle che principalmente dominano le aurore e per questo sono chiamate righe aurorali. Le si può individuare nello spettro di emissione dell’Ossigeno Atomico riportato di seguito.

Emissione di radiazione elettromagnetica dell’Ossigeno

Figura 5: Emissione di radiazione elettromagnetica dell’Ossigeno, tendente al verde quando è ad altitudini superiori ed al rosso quando è presente in altitudini più basse. Inoltre le due frecce indicano le righe aurorali.

Le righe aurorali sono radiazioni emesse al seguito di particolari transizioni che avvengono tra i livelli energetici del’Ossigeno neutro, rispettivamente tra i livelli 1S0 1D2 e 1D23P2. L’apice è dato dall’espressione 2S+1, dove S è il momento totale di spin degli elettroni coinvolti (il valore 1 suggerisce che S è 0, ossia gli elettroni ruotano attorno al proprio asse in sensi opposti e per questo sono detti antiparalleli, il valore 3 suggerisce S pari ad 1, quindi gli elettroni coinvolti hanno spin paralleli). Il pedice invece è definito dal valore J, la somma del momento angolare totale L (il quale descrive la rotazione delle particelle nello spazio) e del momento totale di spin S, individuato come termine di accoppiamento spin-orbita. Le lettere dei livelli S, P e D corrispondono a dei particolari valori del momento angolare totale L pari a 0, 1, 2, che permettono di individuare i diversi livelli energetici che un atomo può raggiungere.

Nei casi in cui le particelle del vento solare sono altamente energetiche si manifestano aurore fortemente intense e brillanti in cui il colore verdastro giace su di un sottile strato rosso.

Aurora dal colore verdastro

Figura 6: Aurora dal colore verdastro, con uno strato rossastro sottostante, indice che tale fenomeno è stato prodotto da particelle cariche fortemente energetiche.

Le Aurore possono essere distinte in diffuse e discrete. Le prime sono debolmente percettibili, anche in una notte buia, mentre le altre sono facilmente visibili all’interno di quelle diffuse, variando da bagliori deboli a quelli così intensi da poter riuscire a leggere un foglio di giornale.

Le emissioni aurorali assumono forme diverse, somigliando a degli archi oppure a delle corone, fino ad apparire come dei drappeggi fissi o “danzanti” nel cielo, richiamando alla mente il movimento di una tenda quando è sfiorata da una mano. Queste “tende” sono composte da raggi paralleli, ciascuno in allineamento con le linee di forza del campo magnetico terrestre, dimostrando che l’aurora è un fenomeno modellato proprio da quest’ultimo. Osservazioni mediante i satelliti hanno in effetti dato prova di come gli elettroni catturati dalla magnetosfera si dirigano verso i poli spiraleggiando attorno alle linee di forza del campo magnetico.

Il mozzafiato gioco di luci e forme che decora i cieli polari ed australi può essere apprezzato totalmente un’ora prima della mezzanotte quando l’osservatore, il polo magnetico ed il Sole sono perfettamente allineati, ossia nel momento in cui scatta la “mezzanotte magnetica”.

Le collisioni che originano le aurore avvengono in zone ovali asimmetriche attorno ai poli, cosiddette “ovali aurorali” e le loro proiezioni sulla terra determinano le “zone aurorali”, regioni dove si ha la massima osservabilità di aurore, localizzate ad una latitudine di 67°N e 67°S e con un’estensione di circa 6 gradi. Gli ovali aurorali possono variare le proprie dimensioni ed estendersi anche fino all’equatore al seguito di un’attività solare fortemente intensa. A tal proposito, si deve considerare che, come si è già osservato, le aurore sono legate al plasma emesso dal Sole e di conseguenza la loro intensità dipende dalla quantità di particelle cariche che lo costituisce, il quale a sua volta è strettamente connesso con la comparsa della macchie solari. Queste ultime sono delle piccole regioni irregolari sulla superficie del Sole, dal colore più scuro rispetto alle zone circostanti perché relativamente più fredde. Si ritiene che queste siano dovute a dei flussi magnetici in salita verso la superficie e il picco massimo di intensità si raggiunge ogni undici anni, determinando il ciclo solare. Durante il picco massimo del ciclo solare o negli anni immediatamente successivi la quantità di materiale espulsa dal Sole è così elevata che si scatenano delle forti tempeste geomagnetiche, allargando l’ovale aurorale fino alle zone temperate. E’ in queste rare occasioni che gli abitanti delle regioni vicine all’equatore possono avere qualche probabilità di assistere al fenomeno delle aurore. Pare che l’ultimo picco massimo sia stato raggiunto nel Febbraio 2012, in cui sono state registrate circa 67 macchie solari; attualmente siamo ancora nella fase attiva del ciclo, con circa 63-65 macchie solari e tutto ciò spiegherebbe la recente comparsa di aurore in una regione insolita della Terra, come quella che ospita il sud della Gran Bretagna.

Grafico che mostra il ciclo solare di durata pari ad 11 anni

Figura 7: Grafico che mostra il ciclo solare di durata pari ad 11 anni. Si nota come negli anni il picco massimo abbia gradualmente ridotto la sua intensità.

Nella notte tra il 27 e il 28 Febbraio scorso le aurore boreali hanno colorato i cieli di Norfolk, Essex, Galles e Scozia, affascinando gli abitanti per un paio d’ore con i loro colori tendenti al rosso, verde e giallo. Gli scienziati che monitorano l’attività solare avevano registrato il 7 Gennaio 2014 un’espulsione di massa solare molto intensa. Di seguito, i ricercatori dello Space Weather Prediction Centre in Boulder (Colorado) avevano predetto un’imminente tempesta solare. L’intensità di luce visibile al seguito di tempeste geomagnetiche viene misurata tramite l’indice KP che può assumere valori compresi tra 0 e 9. In quell’occasione l’indice KP variò dal valore 1 (il quale indica che la luce aurorale si manifesta nel Nord della Scandinavia) al valore 7 suggerendo che le aurore potevano essere avvistate anche nel Sud del Galles e nel Sud dell’Inghilterra. Ci si aspettava dunque di riuscire a vedere le “Northern Lights” in tali zone il 9 Gennaio, ma anche se questo fenomeno si è fatto attendere, il risultato è stato comunque strabiliante.

Aurora boreale nei cieli meridionali della Gran Bretagna.

Figura 8: Aurora boreale nei cieli meridionali della Gran Bretagna.

Aurora boreale nei cieli meridionali della Gran Bretagna.

Figura 8b: Aurora boreale nei cieli meridionali della Gran Bretagna.

Sembra, inoltre, che le aurore non siano dei fenomeni silenziosi: infatti come la precedente armata espugna la fortezza facendo echeggiare le proprie urla, così questi fenomeni generano dei suoni. Alcuni viaggiatori sostengono di aver udito, in concomitanza con la manifestazione aurorale, dei suoni somiglianti a degli applausi o crepitii, deboli e istantanei, giurando che provenissero dalle aurore stesse. Per molto tempo gli scienziati sono stati scettici a tal proposito, sostenendo che lo strato alto dell’atmosfera in cui si formano le aurore è così sottile che non può permettere la propagazione di onde sonore. Ma nel 2012 un gruppo di ricercatori appartenenti alla Aalto University in Finlandia ha pubblicato un articolo nella quale affermava di aver registrato un suono, prodotto a 70 m di altezza dal suolo, simile a degli applausi e in contemporanea con la manifestazione delle aurore. Secondo il parere di questi ricercatori i suoni provengono da particelle del vento solare che sono responsabili delle luci aurorali, proprio come sostenuto dai viaggiatori “fortunati”. Infatti non possiamo aspettarci di sentire un suono paragonabile a quello che fuoriesce dalle casse musicali durante un concerto, ma tutt’altro: udire questi particolari segnali acustici è molto difficile, innanzitutto perché si manifestano durante periodi di massima attività aurorale e in secondo luogo si presentano in notti prive di vento e di qualsiasi altra fonte di rumore. Ascoltare i suoni dell’aurora è un evento così raro che può capitare una sola volta nella vita.

Pare che le aurore più intense fino ad ora registrate siano state quelle avvenute il 28 Agosto e il 2 Settembre del 1859. In particolar modo l’aurora del 2 Settembre si è manifestata a distanza di un giorno dal rilascio di un’enorme quantità di energia (flare solare) da parte del Sole, l’espulsione di massa coronale più intensa mai registrata. Il flare solare ha raggiunto la Terra ed ha prodotto aurore così intense e brillanti da venir ammirate anche negli Stati Uniti, in Europa, in Giappone ed in Australia. Tempeste geomagnetiche talmente forti, oltre a provocare fenomeni così luminosi possono interrompere le comunicazioni radio, ma quella volta due operatori dell’”American Telegraph Line” riuscirono a comunicare tra loro dalle due diverse sedi, Boston e Portland per circa due ore. Ciò può essere spiegato supponendo che le antenne di alcuni telegrafi avessero il giusto orientamento perché il campo elettromagnetico formatosi da quella tempesta inducesse una corrente geomagnetica, permettendo ai due operatori di comunicare a grandi distanze senza alimentatore.

Non cerchiamo, però di essere egocentrici e pensare che noi terrestri siamo gli unici ad ospitare il fenomeno delle aurore: luci aurorali, anche abbastanza spettacolari, sono state osservate su Venere, Marte, Giove, Saturno, Urano e Nettuno.

Venere non è dotato di un campo magnetico nucleare quindi è priva di magnetosfera, pertanto le particelle provenienti dal vento solare impattano contro l’atmosfera venusiana e danno luogo ad aurore che si diffondono su tutto il disco planetario come delle macchie con luminosità e forma diverse, visibili sul lato del pianeta non illuminato dal Sole.

La manifestazione di aurore su Marte è stata una scoperta abbastanza recente: il 14 Agosto 2004 lo strumento SPICAM a bordo della sonda Mars Express dell’ESA (Agenzia Spaziale Europea) ha rivelato un’aurora nell’emisfero sud del pianeta, nella regione denominata “Terra Cimmeria”. L’emissione aurorale presentava un diametro di 30 Km ed un’estensione in altitudine di 8 Km. I ricercatori hanno notato come la regione in cui si è manifestata l’aurora presenti un campo magnetico fortemente localizzato. Così l’origine del fenomeno può essere attribuita ad un flusso di elettroni che muovendosi lungo le linee di forza del campo magnetico crostale generato da rocce magnetizzate (Marte, come Venere non è dotato di un campo magnetico principale nel nucleo) eccitano gli atomi della parte superiore dell’atmosfera marziana.

Il gigante gassoso del nostro Sistema Solare, Giove, dà luogo ad aurore che hanno un’intensità 100 volte maggiori rispetto a quelle terrestri poiché presenta un campo magnetico molto più forte di quello della Terra, pari a 4.3 Gauss. Le aurore su Giove sono state osservate per la prima volta nel 1979, ad opera della missione Voyager 1. L’Hubble Space Telescope (HST) ha catturato un’immagine di un’aurora che, ondeggiando come una tenda, colora il polo nord del pianeta, visibile nella parte ultravioletta (UV) dello spettro elettromagnetico. Si ritiene che le cause di questo fenomeno siano dovute non solo all’interazione del vento solare con l’atmosfera di Giove ma anche, e forse soprattutto, al proprio satellite Io.

 Fenomeno aurorale manifestatosi sul pianeta Giove e ripreso nell’UV.

Figura 9: Fenomeno aurorale manifestatosi sul pianeta Giove e ripreso nell’UV. Credit: John Clarke (University of Michigan) and NASA

Io presenta un’intensa attività vulcanica ed emette nello spazio circostante elementi come Zolfo ed Ossigeno, i quali sfuggono al suo campo gravitazionale, si dispongono in una regione a forma di “ciambella” nella regione circostante il pianeta gigante e interagiscono con il campo magnetico di Giove. In questo modo vengono generate delle aurore visibili nella regione X dello spettro elettromagnetico. Come prova che gli atomi emessi dai vulcani di Io siano in grado di influenzare il fenomeno aurorale che si manifesta su Giove i ricercatori hanno tenuto sotto controllo un particolare elemento prodotto dal satellite, il Sodio. Nel 2007 i dati hanno registrato un aumento di Sodio nella regione che circonda Giove al seguito di un’attività vulcanica di Io particolarmente forte; ma come conseguenza di questa emissione, è stato rilevato un basso segnale radio, indice che sono state prodotte poche aurore sul pianeta gigante. Infatti prima di raggiungere l’atmosfera, le particelle cariche possono emettere onde radio. In conclusione, Io ha un’enorme influenza sulla manifestazione di aurore sul pianeta Giove, ma così come può creare il fenomeno, è anche in grado di ridurlo.

Su Saturno hanno origine spettacolari ed intense aurore che durano per giorni, visibili però, anch’esse, nell’UV. Furono osservate per la prima volta ai poli nel 1979, dalla sonda Pioneer 11 di appartenenza della NASA. Le aurore di Saturno si estendono per diversi Km dai poli e l’emissione di radiazione ultravioletta è dovuta alla presenza di atomi di Idrogeno nell’atmosfera. Le prime immagini che raffiguravano questi fenomeni nelle regioni settentrionali di Saturno sono state ottenute nel 1994/1995 dall’HST, mentre recentemente la sonda Cassini ha fornito una più vasta gamma di manifestazioni aurorali, indagando nelle regioni dello spettro elettromagnetico corrispondenti all’IR (infrarosso), UV e Visibile. Le osservazioni comprendono sia le regioni settentrionali complementari che quelle meridionali e la sonda ha inoltre ripreso le aurore sulla faccia del pianeta non visibile dalla Terra.

 Ovale aurorale al polo di Saturno, visibile nell’UV.

Figura 10: Ovale aurorale al polo di Saturno, visibile nell’UV. Credit NASA

La prima volta che venne osservata un’aurora su Urano fu nel 1986, quando la sonda della NASA Voyager 2 vi orbitò attorno e una recente foto di manifestazioni aurorali è stata ottenuta dall’HST nel 2011. Urano è un pianeta particolare per l’inclinazione del proprio asse di rotazione, quasi giacente sul piano orbitale: ciascuna regione polare è illuminata dal Sole per 40 anni e rimane in ombra per altrettanti anni. Ha inoltre un asse di campo magnetico inclinato di circa 60° rispetto all’asse di rotazione. A causa della particolare inclinazione dell’asse rotazionale l’aurora vista da Voyager 2 è diversa rispetto a quella fotografata dall’HST. Nel 1986 l’asse di rotazione puntava in direzione del Sole (solstizio) e la sonda, orbitandogli attorno, ha potuto notare le aurore formatesi sul lato in ombra del pianeta. Nel 2011, invece, l’asse di rotazione era perpendicolare al Sole (punto equinoziale) e in più la visibilità dell’HST era ridotta poiché questo telescopio spaziale osserva il Sistema Solare rimanendo in orbita attorno alla Terra. HST è riuscito, nonostante tutto, a catturare dei deboli bagliori luminosi (visibili nella seguente Figura 11) della durata di pochi minuti, nella regione destra del pianeta, corrispondente al polo nord magnetico di Urano.

Piccole macchie aurorali fotografate dall’HST nel 2011 in corrispondenza del polo nord magnetico di Urano.

Figura 11: Piccole macchie aurorali fotografate dall’HST nel 2011 in corrispondenza del polo nord magnetico di Urano. Credit NASA and Erich Karkoschka, U. of Arizona

Anche su Nettuno sono state individuate delle aurore, con una potenza pari a 50 milioni di Watt, molto minore rispetto ai 100 miliardi di Watt delle aurore terrestri. Il campo magnetico di Nettuno però è molto complesso e questo dà origine a fenomeni aurorali altrettanto difficili da studiare, dislocati in diverse regioni del pianeta e non solo ai poli.

Infine, varcando i confini del nostro quartiere ed uscendo dal Sistema Solare, ritroviamo nuovamente le aurore che animano le pseudo-stelle di massa molto piccola, minore di 0.08Mּ (Mּ indica la massa solare che equivale a 2×1033g), le “nane brune”. Un gruppo di ricercatori capeggiato da Jonathan Nichols ha dimostrato che l’emissione di onde radio da parte di alcune nane ultrafredde potrebbe essere spiegata tramite fenomeni simili a quelli che originano le aurore. In questo modo si potrebbe riuscire ad individuare pianeti di cui altrimenti non si verrebbe mai a conoscenza. In più tale meccanismo può essere sfruttato per conoscere il campo magnetico di altri pianeti ed avere informazioni sulle interazioni con le loro stelle e i propri satelliti.

Le transizioni che generano le aurore terrestri sono state individuate anche in ammassi di gas rarefatto e pulviscolo cosmico, note come nebulose gassose. Queste si suddividono in: nebulose diffuse (luminose ed oscure), nebulose planetarie e nebulose extragalattiche. Le nebulose planetarie sono il risultato di una stella di massa pari alla massa del nostro Sole, che cessata la reazione nucleare che converte Idrogeno (H) in Elio (He) nel proprio nucleo (core) e quindi uscita dalla fase di sequenza principale, si presenta con un nucleo di He e con l’H nelle regioni circostanti. In più, attorno al nucleo vi è una fascia di He in combustione che avanzando verso l’esterno, libera un’energia tale da far espellere il materiale circostante lasciando a nudo il nucleo di He: in questo modo si forma la nebulosa planetaria. Agli inizi dello scorso secolo erano state individuate, nello spettro delle nebulose, delle righe di emissione insolite, la cui origine era sconosciuta. In un primo momento si ipotizzò l’esistenza di un nuovo elemento, il “Nebulio” che decadendo da livelli energetici di energia superiore emetteva radiazione a lunghezze d’onda anomale, specialmente a λ=4959 Ǻ e a λ=5007 Ǻ. Successivamente si intuì che tali righe venivano emesse da materiali noti che si trovavano però in particolari condizioni ed in effetti ciò venne confermato nel 1928 dal fisico statunitense Ira Bowen. Infatti Bowen analizzò i livelli energetici dell’Ossigeno O++ notando che le due righe spettrali sopra citate corrispondevano alle rispettive transizioni: 1D23P1 e 1D23P2. Un’altra insolita riga veniva generata dalla transizione 1S01D2, la transizione che sulla Terra genera l’auroral green line e per questo nominata, come già detto, “transizione aurorale”. All’interno delle nebulose avvengono anche processi di foto-ionizzazione ossia un fotone interagendo con un atomo od uno ione, lo priva di uno o più elettroni. Questi ultimi sono così energetici che collidendo con l’O++ nella sua configurazione fondamentale, lo eccitano e gli permettono di raggiungere livelli più energetici ed instabilie favorire di conseguenza i decadimenti sopra descritti. Si può stimare il rapporto tra l’energia emessa durante la transizione aurorale (1S→1D) e quella emessa durante la transizione nebulare (1D→3P) e in questo modo i ricercatori potrebbero riuscire a conoscere la temperatura degli elettroni coinvolti nel processo e la loro densità. In questo modo si possono comprendere meglio le modalità in cui si verificano questi processi proibiti, la cui esistenza viola una delle regole che permettono la transizione tra livelli energetici. Il motivo sostanziale del perché queste transizioni si notano nelle nebulose risiede nelle grandi dimensioni dell’oggetto considerato, il quale possiede un’elevata densità di particelle che possono dar luogo ad un gran numero di collisioni. Da questi rapporti di energia si può tra l’altro venire a conoscenza della sezione d’urto delle collisioni tra elettroni ed atomi, ossia determinare la probabile area attorno all’atomo nella quale avviene la collisione ad opera dell’elettrone.

Le aurore sono dei fenomeni che suscitano sorpresa e stupore ma i meccanismi che sono alla base della loro origine sono un importante oggetto di studio. Ammirandole e studiandole, possiamo permettere al nostro occhio di contemplarne la bellezza e fornire alla nostra mente i mezzi per comprendere fenomeni che avvengono in tutto l’Universo.

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Credit: Simone Renoldi

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Credit: Simone Renoldi

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Credit: Simone Renoldi

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Credit: Simone Renoldi
Come fotografare l’aurora boreale:
http://www.phototutorial.net/2013/10/28/fotografare-aurora-boreale/

BLUE AURORAS

BLUE AURORAS: Northern Lights are usually green, and sometimes red. Those are the colors produced by oxygen when it is excited by electrons raining down from space. On Feb. 22nd, Micha Bäuml of Straumfjord, Norway, witnessed an appariton of aurora-blue
“All of a sudden the sky exploded,” says Micha. “The aurora looked like a giant flame.”
In auroras, blue is a sign of nitrogen. Energetic particles striking ionized molecular nitrogen (N2+) at very high altitudes produces a cold azure glow of the type captured in Micha’s photo. Why it overwhelmed the usual hues of oxygen on Feb 22nd is unknown. Auroras still have the capacity to surprise.

 Anna Galiano – 2014

Astronomiæ Pars Optica – Livio Ruggiero

Breve storia dell’ottica (astronomica) antica, ma non solo

Giorgio Abetti nella sua Storia dell’Astronomia del 1949 scrive:

“La storia dell’Astronomia si può ordinare in grandi periodi legati alla storia e alla civiltà dei diversi popoli della terra, essi possono prendere il nome di astronomia antica, medioevale e moderna, intendendo che fra le ultime due ha avuto luogo una fondamentale riforma dopo la quale l’astronomia moderna in circa quattro secoli ha fatto, fino al giorno d’oggi, enormi progressi quali, nei precedenti periodi, non si sarebbero mai potuti immaginare.”

L’astronomia antica può farsi risalire probabilmente a circa 4000 anni prima di Cristo, ad opera di popolazioni dell’Asia centrale, dalle quali si sarebbe poi diffusa, nel giro di un migliaio di anni, agli Egiziani e agli Indiani, per passare poi ai Babilonesi e agli Ebrei fino ad Alessandro Magno.

Solo con i Greci, però, si può dire che l’Astronomia acquisti le caratteristiche di una disciplina scientifica, grazie a personaggi come Talete, Anassimandro, Pitagora, Platone e Aristotele, per raggiungere il maggior fulgore nella Magna Grecia con Archimede e alla Scuola di Alessandria con Aristarco da Samo, Eratostene ed Ipparco, che può essere considerato il più grande astronomo dell’antichità, i cui lavori sono stati tramandati e completati da Tolomeo, tre secoli dopo. L’Almagesto, la famosa opera in tredici libri di Tolomeo, contiene praticamente tutte le conoscenze astronomiche sviluppatesi da Ipparco in poi arricchite soprattutto dai metodi matematici e geometrici usati da Tolomeo.

La_scuola_di_Atenet

La Scuola di Atene di Raffaello Sanzio. L’uomo di spalle, con la corona, che regge un globo terracqueo in mano è Claudio Tolomeo

Secondo Schiaparelli il periodo dell’Astronomia antica si può considerare concluso intorno al 650 dopo Cristo.

L’Astronomia medievale copre il periodo che va dal 500 al 1500 dopo Cristo, con un praticamente nullo contributo dei romani e con un fondamentale apporto degli Arabi, ma fino a Copernico il contributo di tutti è sostanzialmente una ripetizione dell’Almagesto di Tolomeo.

Aspetti particolari della storia dell’Astronomia sono costituiti dalle ricche tradizioni assiro-babilonesi ed egiziane, da quelle di scarso livello, per motivi religiosi, degli Ebrei e dei Fenici, da quelle essenzialmente leggendarie di Indù e Cinesi e da quelle sorprendenti dei Maya e di altre popolazioni dell’America Centrale.

Con Copernico, considerato il continuatore della scuola greca, Tycho Brahe, Keplero, Galileo e Newton comincia la nuova era che può essere ritenuta a buon diritto quella della riforma dell’Astronomia.

Fino all’invenzione del cannocchiale di Galileo gli strumenti utilizzati per l’Astronomia furono essenzialmente le sfere armillari, l’astrolabio e il quadrante. Con questi strumenti, noti già ai Greci e perfezionati nel Medioevo soprattutto dagli Arabi, si misuravano la posizione delle stelle, le ore del levare e del tramontare del sole e delle stelle ed altre grandezze legate alla struttura del cielo, alcune determinanti per le osservazioni astrologiche.

Dopo Newton si può fissare l’inizio dell’era moderna, in cui, grazie agli sviluppi delle tecnologie osservative (cannocchiale, telescopio) e delle idee fondamentali della Fisica (legge di gravitazione universale) l’Astronomia muoverà passi da gigante nella conoscenza dell’Universo, che conosceranno un ulteriore fondamentale incremento con la scoperta dell’analisi spettrale (Kirchhoff, 1859), che ha permesso di avviare lo studio della costituzione chimica dei corpi celesti.

Il 24 agosto del 1609 Galileo scrisse una lettera al Doge Leonardo Donato presentando il cannocchiale che aveva realizzato perfezionando un “occhiale” realizzato in Olanda, che permetteva di vedere ingrandite le cose lontane come se fossero vicine. Si trattò dell’evento che diede il via al meraviglioso sviluppo dell’Astronomia, ma fu anche l’inizio del miglioramento tecnologico delle lenti, che avrebbe portato alla costruzione di strumenti ottici sempre più perfezionati, consentendo lo sviluppo altrettanto meraviglioso delle altre scienze, e al miglioramento degli occhiali, tanto importanti per risolvere i problemi della visione.

Fin dall’antichità filosofi e scienziati hanno cercato di rispondere alle domande: perché vediamo? come avviene il processo che ci mette in relazione con il mondo esterno attraverso i nostri occhi?

Nell’antica Grecia e negli ambienti culturali che gravitavano attorno ai suoi uomini di pensiero vennero elaborate alcune teorie, che oggi ci fanno sorridere ma che furono in auge, anche se con qualche aggiustamento, fino a quando, solo pochi secoli fa, non cominciarono a migliorare le conoscenze sulla natura della luce, sul suo modo di propagarsi nello spazio e nei mezzi materiali e sul funzionamento fisico-fisio-psicologico del sistema occhio-cervello. Le teorie principali furono tre, legate alle grandi scuole di pensiero dell’epoca: la teoria delle eidole, la teoria dei raggi visuali, la teoria platonica.

Teoria delle eidole – Dall’oggetto osservato si staccano delle immagini (eidole) che vanno verso l’occhio, rimpicciolendosi man mano in modo da poter entrare nella pupilla, portando alla psiche le informazioni sulla forma e i colori degli oggetti. Questa teoria nacque nell’ambito della scuola atomistica fondata da Leucippo (V secolo a.C.), che ebbe Democrito tra i suoi seguaci più illustri.

Teoria delle eidole

Teoria delle eidole

Teoria dei raggi visuali  – Dall’occhio partono dei raggi che vanno ad analizzare l’oggetto osservato e ritornano nell’occhio portando le informazioni raccolte. Questa teoria nacque nell’ambito della scuola fondata da Pitagora (V secolo a. C.).

Teoria dei raggi visuali

Teoria dei raggi visuali

Teoria platonica Dall’occhio e dall’oggetto partono due fluidi che incontrandosi danno luogo alla visione. Secondo Platone (427 a. C. – ca. 347 a. C.) dagli oggetti parte un fluido speciale, che egli chiama “fuoco”, che si incontra con la “mite luce del giorno” che parte dai nostri occhi. Solo se i due fluidi, incontrandosi, si “uniscono strettamente” si ha la sensazione visiva.

Teoria platonica

Teoria platonica

Contemporaneamente a quello della conoscenza dei meccanismi della visione altri problemi, senz’altro più gravi per la gente comune, richiedevano delle soluzioni: quelli posti dai difetti visivi, che si potevano acquisire dalla nascita o per l’avanzare dell’età, escludendo naturalmente la cecità.

Per la soluzione di questi problemi si sarebbe dovuto attendere quando negli ultimi secoli del primo millennio dopo Cristo, forse casualmente, qualcuno alle prese con la fabbricazione dei dischi di vetro che, collegati tra loro con un nastro di piombo, erano utilizzati nelle finestre, si accorse che attraverso alcuni di essi, abbastanza trasparenti, si potevano vedere ingranditi gli oggetti retrostanti. I dischi di vetro venivano prodotti prelevando con il cannello da soffiatore una massa di vetro fuso che veniva trasformata in disco ruotando energicamente il cannello. Lo spessore del disco era massimo al centro, per la connessione con il cannello, e diminuiva verso il bordo.

Era nata la lente!

Pare che la denominazione di lente derivi dal popolare lentecchia, che sta per lenticchia, legume che è proprio “a forma di lente”.

In realtà c’è da chiedersi come mai si sia atteso tanto per intravedere la soluzione, dal momento che già da tempo si conosceva la proprietà di ingrandimento dell’acqua e di sostanze trasparenti come il cristallo di rocca o varie pietre preziose. Basti pensare che nel I secolo dopo Cristo il filosofo Lucio Anneo Seneca scriveva:

“…le lettere, anche piccole e confuse, appaiono ingrandite e chiare attraverso un globo pieno di acqua.”

Comunque siano andate le cose si pensa che solo intorno al 1286 siano stati inventati gli occhiali per correggere con lenti convesse la presbiopia, che affligge le persone anziane, mentre si dovette aspettare ancora per quasi due secoli per poter correggere con lenti concave la miopia, che affligge anche i giovani.

Anche se qualcuno attribuisce erroneamente al fiorentino Salvino degli Armati l’invenzione degli occhiali, fino ad oggi è stato possibile solo definire che la data dell’invenzione deve essere posta intorno al 1286, non si può però non tener conto che il filosofo e scienziato inglese Ruggero Bacone (1214-1292) debba essere considerato quasi certamente come il primo ad aver scritto della possibilità di correggere con le lenti i difetti della visione:

“Se un uomo guarda le lettere o altre cose minute per mezzo di un cristallo o di un vetro o di altro perspicuo sovrapposto alle lettere, e sia minore della sfera la parte la cui convessità è rivolta verso l’occhio, e l’occhio sia in aria, vedrà le lettere molto meglio e gli appariranno maggiori … E perciò questo strumento è utile ai vecchi e a quelli che hanno la vista debole, perché essi possono vedere la lettera, per quanto piccola, di sufficiente grandezza.”

La storia degli occhiali è una storia molto tormentata, perché tormentata è la storia delle lenti, la cui fabbricazione avveniva levigando a mano dei pezzi di vetro di qualità molto scadente, per cui il loro uso, pur risolvendo in parte i problemi posti dai difetti visivi, era reso difficoltoso dalle aberrazioni, che distorcevano le immagini colorandone inoltre i bordi con tutti i colori dell’arcobaleno.

I primi occhiali erano costituiti da due lenti unite da una montatura inizialmente snodata e poi “a stringinaso”, di metallo, di cuoio o di osso. Gli occhiali, le cui due lenti difficilmente potevano avere esattamente le stesse caratteristiche, non erano prescritti da un medico dopo l’analisi della vista e non erano venduti da negozi specializzati, tutte cose di là da venire, ma venivano acquistati al mercato, scegliendo sulla bancarella del venditore di occhiali quelli che meglio si adattavano alla vista dell’acquirente.

Fino all’avvento del Rinascimento le lenti, per il fatto di fornire una visione distorta degli oggetti, furono per così dire “snobbate” dagli scienziati, che le consideravano “ingannevoli e fallaci”, anche se alcuni di essi dovettero adattarsi all’uso degli occhiali. Ecco cosa scrissero di esse due studiosi molto famosi:

Girolamo Fracastoro (1478-1553) “Le lenti per gli occhi sono fabbricate, alcune in modo da far apparire volti deformi, altri ironici, altri di aspetto più turpe; ce ne sono alcune che fanno apparire ogni cosa colorata, altre di un anello posto nel mezzo di un banco mostrano una dozzina di cerchi, così uguali che, se uno vuole individuare quello vero, si inganna, con grande divertimento dei presenti.”

Girolamo Cardano (1501-1576) “… gli specchi piani, concavi e convessi e le lenti rimandano immagini false.”

Ma era tanto l’entusiasmo dei “non scienziati” per uno strumento che, nonostante i suoi difetti, attenuava i problemi di una vista difettosa, che spesso gli artisti lo inserirono in situazioni storicamente o fisicamente impossibili. In un quadro del 1472 di M. Schongauer rappresentante la morte della Madonna uno dei discepoli usa un paio di occhiali, in un ritratto, dipinto nel 1518 da L. van Leyden, S. Girolamo porta gli occhiali pur essendo morto otto secoli prima della loro invenzione e in un quadro rinascimentale raffigurante la pesca dei coralli i pescatori si immergono portando sul naso gli occhiali a stringinaso, che sarebbero stati di nessun giovamento sott’acqua.

Death of the Virgin, M. Schongauer

Ci furono però anche studiosi che indagarono a fondo sul comportamento della luce attraverso le lenti, riconoscendone l’utilità per la correzione dei difetti visivi, gettando le basi per lo studio scientifico del loro funzionamento.

Di particolare importanza sono i contributi dati da Leonardo da Vinci, Francesco Maurolico, Giovan Battista Della Porta, Giovanni Kepler. Leonardo da Vinci (1452-1519) diede fondamentali contributi allo sviluppo dell’ottica e pare abbia fabbricato personalmente delle lenti, con l’intenzione di costruire degli occhiali “da vedere la luna grande”. Il benedettino Francesco Maurolico (1494-1575) si interessò in maniera molto approfondita delle lenti, sottolineandone l’importanza per correggere i difetti della vista. I suoi scritti sono forse i primi in cui vengano trattate le lenti divergenti:

“… i raggi visivi fatti passare attraverso un corpo trasparente convesso da ambedue le parti convergono presto in un piccolo spazio; così passando attraverso un corpo trasparente concavo da ambedue le parti divergono …”

Giovan Battista Della Porta (1535-1615), dalla personalità fantasiosa e sempre preoccupato di mettersi in mostra, fu il primo a tentare di costruire una teoria organica sulle lenti:

“La trattazione delle lenti è cosa difficile, meravigliosa, utile, piacevole, mai da alcuno finora tentata: è immenso il beneficio di coloro che sono quasi privi della vista e che, per mezzo delle lenti, allungano la vista a distanza grandissima, di tutto ciò non conoscendo la causa. Noi, essendoci procurata questa conoscenza, abbiamo raggiunto effetti così meravigliosi da poter distinguere anche cose minutissime portate a notevole distanza.”

Quando Galileo rese pubblica la descrizione del suo cannocchiale, Della Porta, in una lettera al presidente dell’Accademia dei Lincei Federico Cesi, lo accusò immediatamente di avergli rubato l’idea, prendendola da uno dei suoi libri.

La storia del cannocchiale è piuttosto tormentata, la sua invenzione non può essere attribuita interamente a Galileo, dal momento che le idee di uno strumento per vedere gli oggetti lontani sono databili fin dal XIII secolo (Ruggero Bacone) e alcuni suggerimenti per realizzarlo si trovano già a metà del Cinquecento in scritti di studiosi italiani (Giovan Battista Della Porta, fra Paolo Sarpi, Ettore Ausonio) e inglesi (John Dee, Thomas Digges, William Bourne).

Il primo cannocchiale presentato da Galileo al Senato Veneto nell’estate del 1609, con un potere di ingrandimento di 9 volte, era il miglioramento di un “occhiale” olandese, con solo tre ingrandimenti, che era pervenuto a Galileo l’anno precedente.

Galileo presenta al Doge e al Senato Veneto il suo cannocchiale. Affresco di Luigi Sabatelli.

Galileo presenta al Doge e al Senato Veneto il suo cannocchiale. Affresco di Luigi Sabatelli.

D’altro canto pare che lo strumento olandese fosse in realtà una copia di uno inventato in Italia nel 1590 e poi arrivato in Francia. Contemporaneamente in Inghilterra Thomas Harriott utilizzava un cannocchiale da sei ingrandimenti.

Ma qual è allora l’importanza del ruolo svolto in tutta la storia da Galileo, che oltretutto non era neanche, per fortuna, uno studioso di ottica? Il “per fortuna” si deve agli storici della Scienza (per es. Vasco Ronchi), per i quali Galileo poté costruire e utilizzare il suo cannocchiale senza essere impedito dai preconcetti e dalle prevenzioni che erano propri di tutti gli studiosi di ottica del tempo. Preconcetti e prevenzioni che non avrebbero mai portato alla realizzazione dello strumento e, soprattutto, non avrebbero mai consentito di dare valore scientifico alle osservazioni fatte con esso.

Galileo affrontò quelli che erano i problemi centrali della costruzione dello strumento: la qualità del vetro e la fabbricazione di lenti con ridotte aberrazioni e sufficiente potere di ingrandimento. Galileo stimolò le vetrerie di Venezia e di Firenze a realizzare vetri migliori e curò personalmente la fabbricazione delle lenti, con l’aiuto anche del suo grande allievo Evangelista Torricelli. Alla fine del 1609 Galileo realizzò un cannocchiale con un potere di ingrandimento di 20 volte, che gli consentì di “allungare lo sguardo” ben al di là della Luna.

Era iniziata un’era di spettacolari progressi non solo nell’Astronomia ma in tutte le scienze.

Nel marzo 1610 Galileo pubblicò il Sidereus nuncius, che può essere considerato lo scritto fondante dell’Astronomia moderna. L’opera si apre con la descrizione dell’invenzione del cannocchiale, cui fanno seguito le prime scoperte meravigliose effettuate mediante il suo uso.

sidereus nuncius

All’osservazione della superficie lunare e a quelle della costellazione di Orione e delle Pleiadi, fanno seguito quelle della Via Lattea e delle nebulose. Ma la più meravigliosa delle scoperte, fatta con l’ausilio dell’affascinante strumento, è quella dei quattro satelliti di Giove, quattro punti luminosi che Galileo chiamò “Pianeti Medicei”, in onore della famiglia di Cosimo II.

M24, la grande nube stellare immersa nella Via Lattea col suo contorno di nebulose ed ammassi stellari

M24, la grande nube stellare immersa nella Via Lattea col suo contorno di nebulose ed ammassi stellari

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La Luna attorno al primo quarto

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La pubblicazione del Sidereus nuncius ebbe l’effetto di un grosso sasso lanciato in uno stagno (quello dell’Ottica) in quiete da 20 secoli. Nel giro di poche settimane circolarono tra le Corti, le Ambasciate e gli ambienti universitari di tutta Europa decine e decine di lettere, poche a favore di quanto scriveva Galileo e molte, anche con toni violenti e decisamente offensivi, contro le meraviglie che egli descriveva di aver visto attraverso il suo cannocchiale, qualificate come illusioni e inganni visivi causati da uno strumento che, molti dicevano, era stato da lui copiato da altri costruiti in precedenza. Un fatto sorprendente considerando il tempo che occorreva all’epoca perché quelle lettere, spesso addirittura stampate in più esemplari, viaggiassero non solo tra Venezia, Firenze, Roma, Padova, Perugia, Pisa e Napoli, ma anche tra Italia, Francia, Germania, Polonia, Paesi Bassi e Inghilterra.

Questo esemplare è uno degli unici due cannocchiali esistenti certamente di Galileo.

Questo esemplare è uno degli unici due cannocchiali esistenti certamente di Galileo. Rivestito in pelle con dorature impresse a caldo, lo strumento fu donato a Cosimo II subito dopo la pubblicazione del Sidereus Nuncius (19 marzo 1610). Vetro, legno, pelle; lunghezza 92 cm, diametro 6 cm
Firenze, Istituto e Museo di Storia della Scienza

Per conoscere in maniera avvincente e dettagliata il “polverone” suscitato da Galileo negli ambienti scientifici e filosofici dell’epoca si può leggere il bel libro di Vasco Ronchi “Galileo e il suo cannocchiale” (Einaudi, 1964).

Il vero contributo allo sviluppo dell’ottica moderna dato da Galileo con il suo cannocchiale è stato l’aver affermato e provato che quanto si vedeva attraverso di esso era reale, spazzando così via tutti i preconcetti e le prevenzioni sull’uso delle lenti, che costituivano la caratteristica saliente dell’ottica che si era consolidata fino ad allora.

Con il cannocchiale di Galileo si apre l’era dell’uso delle tecnologie ottiche per la costruzione di strumenti per uso scientifico.

L’Astronomia compie un balzo in avanti, che verrà potenziato ulteriormente dal telescopio di Newton, ma sono anche le Scienze Naturali e le Scienze Mediche ad imboccare, con la costruzione del microscopio, una strada che le porterà nel giro di due secoli agli sviluppi che conosciamo.

Giovanni Keplero (1571-1630), oltre che astronomo, fu uno studioso profondo di ottica, i cui contributi allo sviluppo di questa scienza sono ancora validi oggi. Partecipò in modo determinante al dibattito sulle scoperte di Galileo e sull’uso del suo cannocchiale, in modo critico all’inizio ma sviluppando la teoria scientifica dello strumento decretando alla fine la piena vittoria del Fiorentino sulle idee del passato. A lui si deve la denominazione di “fuoco”, per il punto in cui converge un fascio di raggi paralleli che attraversi una sfera di vetro, e lo studio della combinazione di più lenti, che lo portò a ideare un cannocchiale che, a differenza di quello di Galileo, fornisce immagini rovesciate.

Il cannocchiale di Keplero pare sia stato costruito da Christoph Scheiner nel 1630, ma la priorità della sua costruzione fu rivendicata dal napoletano Francesco Fontana (1580 ca.-1656), che affermò di esser giunto alla sua realizzazione nel 1608. Ma le sue considerazioni sono contenute in uno scritto apparso solo nel 1645, un po’ tardi per avvalorare il diritto di priorità!

I cannocchiali costruiti da Galileo rimasero i migliori per i venti anni successivi alla pubblicazione del Sidereus Nuncius. La qualità venne rapidamente migliorando raggiungendo livelli molto elevati ad opera del già citato Francesco Fontana, i cui cannocchiali pare suscitassero la gelosia di Torricelli, che aveva ricevuto direttamente dal suo maestro i consigli per la lavorazione delle lenti, che gli avevano consentito di costruire ottimi strumenti. Iniziarono rapidamente a migliorare le tecniche di fabbricazione delle lenti, utilizzando macchine sempre più raffinate e vetro sempre più omogeneo ed esente da bolle d’aria.

Gli occhiali furono senz’altro i primi strumenti a beneficiare di questa rivoluzione tecnologica, che già nella seconda metà del Settecento vedrà l’invenzione degli occhiali bifocali ad opera di Beniamino Franklin (1706 – 1790), uomo politico e scienziato di grande fama. Si dovrà aspettare, però, fino alla metà dell’Ottocento perché la medicina oculistica diventi pienamente l’unico mezzo per determinarne l’uso scientificamente corretto. L’ultimo “grido” in fatto di lenti saranno le lenti a contatto, realizzate nel Novecento.

Ai cannocchiali di Galileo e di Keplero, utilizzati in una grande varietà di strumenti ottici, si aggiunse un secolo dopo il telescopio di Newton, spalancando all’Uomo una finestra sull’Universo che si sarebbe rapidamente ampliata, arrivando in 300 anni a portare il punto di osservazione fuori dalla Terra con i telescopi spaziali.

Telescopio in configurazione Newton utilizzato principalmente per ricerche fotometriche

Telescopio in configurazione Newton utilizzato principalmente per ricerche fotometriche

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Il telescopio spaziale Hubble

Insieme alla possibilità di lanciare lo sguardo molto lontano cominciò a svilupparsi contemporaneamente anche quella di dirigerlo verso oggetti tanto piccoli da dover essere avvicinati a distanze “impossibili” per l’occhio. Si deve forse allo stesso Galileo la costruzione di un “occhialino” per vedere ingrandite le cose piccole, ma si ritiene che i primi efficaci “microscopi semplici”, costituiti cioè da una sola lente, siano stati costruiti da Antoni van Leeuwenhoek (1632-1723).

A differenza di cannocchiali e telescopi, che ebbero un perfezionamento a partire dal Settecento, il microscopio dovette attendere fino all’inizio dell’Ottocento per veder migliorate le sue prestazioni, ma da quel momento il miglioramento fu vertiginoso, fino ad arrivare, nel secolo successivo all’invenzione del microscopio elettronico, che invece della luce utilizza fasci di elettroni, e del microscopio a forza atomica che permette di localizzare le molecole e gli atomi.

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Sezione longitudinale di un apice vegetativo in falsi colori ripresa al microscopio ottico. L’apice appuntito mostra numerose cellule in attiva divisione. Le strutture a mezzaluna sono abbozzi fogliari. I due nuclei tondi ai lati al centro sono primordi di gemme ascellari.

Non si può parlare di sviluppo tecnologico dell’ottica senza considerare un altro strumento di fondamentale importanza anche dal punto di vista sociale: la macchina fotografica.

La si può considerare la pronipote della camera oscura, una stanza buia con un piccolo foro in una parete attraverso il quale la luce va a formare, sulla parete opposta, un’immagine capovolta del paesaggio esterno, che può essere trasferita col disegno su un foglio di carta. Il fenomeno pare fosse noto fin dai tempi di Aristotele, che doveva aver capito che le macchie luminose che si vedono a terra sotto un albero sono le immagini del sole, formate dalla luce che filtra attraverso gli interstizi tra le foglie.

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Lo studio della camera oscura da parte di scienziati arabi ed europei condusse alla realizzazione anche di strumenti portatili, il cui funzionamento fu migliorato inserendo nel foro una lente convessa. Nella prima metà dell’Ottocento l’immagine fu fissata su un supporto mediante un processo chimico (dagherrotipia) e nella seconda metà vennero costruiti i primi apparecchi con pellicola, che diventarono rapidamente le macchine fotografiche che conosciamo. La sostituzione della pellicola con supporti informatici per la registrazione dell’immagine ha aperto la recentissima era della fotografia digitale.

Livio Ruggiero – 2014

Per saperne di più:

  • G. Abetti, Storia dell’Astronomia, Vallecchi 1949
  • V. Ronchi, Galileo e il suo cannocchiale, Boringhieri 1964
  • V. Ronchi, Storia della Luce. Da Euclide a Einstein, Laterza 1983
  • C. Abati, E. Borchi, A. de Cola, Storia dell’Ottica per immagini, Fabiano Editore 1997