I segreti della luce degli asteroidi – IYL2015 – Domenico Licchelli

Un mucchio di sassi rotanti disseminati nello spazio tra Marte e Giove, laddove sarebbe stato meglio che ci fosse un bel pianeta. Punti luminosi con la pessima abitudine di rovinare le fotografie a lunga posa con le loro tracce, senza peraltro fornire alcuna utile informazione, a parte l’evidente e fastidioso segno del loro percorso in cielo. Questo sono stati considerati per lungo tempo gli asteroidi, corpi celesti troppo poco interessanti per giustificare importanti programmi di ricerca loro dedicati.

Comparative imagery of nine asteroids. With a diameter of about 330 miles (530 kilometers), Vesta dwarfs all of these small bodies. Many scientists think it's a protoplanet left over from the solar system's first few million years. Credit: NASA/JPL-Caltech/JAXA/ESA

Comparative imagery of nine asteroids. With a diameter of about 330 miles (530 kilometers), Vesta dwarfs all of these small bodies. Many scientists think it’s a protoplanet left over from the solar system’s first few million years.
Credit: NASA/JPL-Caltech/JAXA/ESA

Negli ultimi decenni ci si è resi conto che si trattava, invece, di tasselli fondamentali per capire l’origine del nostro Sistema Solare e, in ultima istanza, di noi stessi. Perché una rivoluzione così radicale potesse avvenire, erano però necessarie idee molto forti, di quelle che in qualche modo segnano un prima e un dopo. Nel caso in questione si è trattato di due distinte prese di coscienza, legate rispettivamente alla vita e alla morte, una sorta di Eros e Thanatos su scala planetaria.

Da sempre l’uomo si chiede quale sia stata l’origine dell’Universo. Alcuni secoli di ricerche scientifiche non hanno ancora fornito risposte definitive, ammesso che ciò sia possibile. Tuttavia, hanno permesso di definire con sufficiente grado di precisione le caratteristiche principali del grande affresco cosmico. Restano però bisognose di ulteriori ed approfondite indagini alcune questioni cruciali, una delle quali ci interessa direttamente. Come si è formato il Sistema Solare ed in particolare il bel pianeta blu che ci ospita? Si potrebbe pensare che per venirne a capo, basti studiare in maniera accurata lo straordinario campionario di strutture geologiche disseminate sul globo terracqueo, la sua correlazione con le immani forze che ancora oggi agiscono all’interno del pianeta e l’interazione con gli elementi atmosferici e marini che ne hanno modellato il paesaggio per miliardi di anni. Tutto ciò è molto sensato, ed in effetti è quanto tentano di fare, con ottimi risultati, schiere di geologi, oceanografi e meteorologi. Ma la descrizione, per quanto dettagliata, deve inevitabilmente arrestarsi davanti ad una sorta di piccolo orizzonte degli eventi terrestre, costituito dal momento in cui l’intero pianeta era poco più di una massa fusa in continua trasformazione. All’interno dell’immensa sfera infuocata, sconvolgimenti di straordinaria potenza rimescolavano da cima a fondo tutta la materia, facendo così perdere quasi completamente le informazioni riguardanti il materiale primigenio da cui tutto aveva preso forma. Fine della storia e delle nostre ricerche? Fortunatamente no.

Un raffinato lampadario di vetro di Murano ci dice poco della sua origine, ma se guardandoci attorno troviamo pezzi di vetro semifuso, una fornace ancora accesa, un mucchietto di silice ed un pizzico di soda in un sacchetto, forse possiamo ancora ricostruire la sequenza delle trasformazioni che l’hanno portato ad essere quel che è. Su scala planetaria, il mucchietto di sabbia con i resti di fusione è rappresentato dagli asteroidi e dalle comete, corpi le cui caratteristiche chimiche e isotopiche sono state poco o punto modificate da processi di differenziazione e di evoluzione termica su larga scala e che conservano ancora oggi al loro interno preziosissime informazioni relative alla composizione della nebulosa primordiale. Avanzi, certo, di uno dei più straordinari processi di costruzione di nuovi mondi che si possa immaginare, ma al contempo, preziosi scrigni ricolmi di gioielli e, secondo alcuni, perfino diretti portatori della vita sulla Terra, un gesto degno di un magnifico Eros cosmico.

E Thanatos? In una notte calma e senza vento dirigiamo il nostro fidato telescopio verso il primo quarto di luna. Nell’oculare balza subito all’occhio il grande bacino circolare del Mare Serenitatis interamente ricoperto di lava, nonostante i quasi 700 km di diametro.

Luna_08_08_08In direzione opposta, verso il polo sud lunare, un’incredibile selva di crateri di tutte le dimensioni ricopre completamente la regione. Aumentando gli ingrandimenti, anche quelle zone che in precedenza sembravano lisce, si rivelano essere una moltitudine di piccoli crateri addossati gli uni agli altri. I più antichi sono stati quasi del tutto demoliti dai nuovi arrivati che hanno saturato completamente ogni spazio disponibile, distruggendo gli originali terrazzamenti e riempiendo a forza le platee, quasi vigesse una sorta di horror vacui che richiama alla mente certe architetture barocche leccesi o siciliane.

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Terminatore lunare nei pressi del cratere Ticho – 2004

Oggi sappiamo che questi crateri sono stati generati da impatti di un gran numero di asteroidi e di meteoriti con la superficie del nostro satellite, soprattutto nelle prime fasi dell’evoluzione del Sistema Solare. Anzi, la Luna stessa si è con molta probabilità formata dalla collisione con la giovane Terra di un planetoide delle dimensioni di Marte. Anche il nostro pianeta ha sicuramente sperimentato questa fase di bombardamento cosmico dalle conseguenze più o meno catastrofiche che, seppur diradandosi progressivamente col passare del tempo, non è mai cessato del tutto.

Almeno in un caso, circa 65 milioni di anni fa, si ha ormai la quasi certezza che la caduta di un asteroide di qualche chilometro di diametro abbia portato ad una delle più grandi estinzioni di massa nella storia evolutiva della biosfera, la ben nota scomparsa dei dinosauri. Per la verità, secondo autorevoli studiosi, i mammiferi, compresi noialtri, devono la loro esistenza proprio all’immane catastrofe che seguì l’impatto e che spazzò via, in un colpo solo, i giganteschi rettili che avevano regnato incontrastati fino a quel momento. Tuttavia, lo stesso meccanismo che ha forse permesso la nostra esistenza potrebbe un giorno, si spera mai, portare alla nostra estinzione.

Ed ecco la seconda idea fondamentale. Gli asteroidi possono essere una grave minaccia per la sopravvivenza della nostra specie. In particolare, è diventato evidente che è di vitale importanza individuare tutti quei corpi che, per le loro caratteristiche dinamiche, possono entrare in rotta di collisione con la Terra, i cosiddetti PHAs (Potential Hazardous Asteroids, al 27 Gennaio 2015 sono 1541 quelli noti) e studiarne le caratteristiche, soprattutto la struttura interna e la loro composizione chimica e mineralogica, al fine di poter approntare le eventuali contromisure con cognizione di causa. Un impatto di un asteroide metallico avrebbe, infatti, conseguenze ben più catastrofiche di quello di un analogo roccioso, costituito da un aggregato incoerente di frammenti tenuti assieme dalla gravità.

I PHAs sono una piccolissima frazione della più numerosa famiglia dei NEO (Near Earth Object), costituita da una popolazione piuttosto eterogenea di corpi minori comprendente asteroidi, comete attive ed estinte e corpi progenitori di alcune classi di meteoriti. Provengono da tutte le regioni del Sistema Solare e sono caratterizzati dall’avere orbite caotiche e instabili che, nel volgere di pochi milioni di anni, concludono la loro esistenza cadendo sul Sole o impattando uno dei pianeti interni, se non sono finiti nel frattempo su orbite che li portano ad essere espulsi dal Sistema Solare.

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An image mapping the orbits of all the potentially hazardous asteroids (PHAs) known. Image Credit: NASA/JPL-Caltech

La loro breve esistenza, su tempi scala cosmici, implica che la popolazione di NEO che osserviamo ai giorni nostri, non può certamente essere la stessa di quella che avremmo trovato anche solo qualche centinaio di milioni di anni fa. Deve perciò esistere un qualche meccanismo che rifornisce continuamente la popolazione dei NEO, compensandone le perdite e mantenendo relativamente alta nel tempo la probabilità che uno di essi finisca col prenderci di mira. Sono state individuate varie sorgenti che possono iniettare questi oggetti verso il Sistema Solare interno, portandoli ad intersecare o quantomeno ad avvicinarsi all’orbita terrestre. La parte del leone sembra svolta dalle potenti risonanze esistenti nella Fascia Principale, in particolare quelle con Giove, e dagli incontri ravvicinati con Marte. Per valutare correttamente le probabilità di un eventuale impatto è fondamentale conoscere con grande precisione i parametri orbitali.

Se sulla base di accurate misure astrometriche sembra che il rischio di collisione non sia trascurabile, osservazioni condotte con potenti radiotelescopi possono indicare le reali possibilità. Il fascio ad alta potenza emesso da un radar, 1Megawatt nel caso del radiotelescopio di 305 metri di Arecibo, è estremamente coerente, cosicché la fase dell’onda elettromagnetica è la stessa su tutto il fronte d’onda. Sfruttando la tecnica del time-delay, ossia della misura del tempo che intercorre tra l’emissione del fascio e la ricezione dell’eco, è possibile determinare la distanza del target con una precisione attorno ai cento metri e stimare la componente della velocità lungo la linea di vista, con un margine d’errore dell’ordine del millimetro al secondo, come dire che si potrebbe ricostruire il moto di una formica che si arrampica su un muro. L’analisi dell’eco permette anche di determinare le proprietà fisiche della superficie dell’asteroide. La rugosità superficiale influenza il modo in cui l’onda radar è riflessa: una superficie liscia tende a mantenere la coerenza del fascio al contrario di una scabra, mentre una metallica riflette molto più intensamente di una rocciosa coperta da regolite. Inoltre, siccome l’oggetto è in moto, la frequenza dell’onda riflessa è diversa da quella incidente, per effetto Doppler. Un’accurata analisi di queste variazioni consente di ricostruire la forma dell’asteroide con sorprendente precisione, ottenendo una sorta di fotografia, tanto più dettagliata quanto più l’oggetto è vicino. La potenza dell’eco ricevuta è, infatti, inversamente proporzionale alla quarta potenza della distanza dell’oggetto, il che spiega come mai i NEO, transitando in certi casi a distanza inferiore a quella Terra-Luna, sono i candidati ideali per questo tipo di indagini.

Proprio ieri, 26 Gennaio 2015, gli scienziati della NASA, sfruttando l’antenna di 70m di Goldstone, hanno ricostruito le immagini radar dell’asteroide 2004 BL86 che stava transitando a circa 1.2 milioni di chilometri dalla Terra, e che ha riservato una gradita sorpresa: è un asteroide di circa 325metri con una piccola luna di 70 metri che gli orbita attorno.

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This GIF shows asteroid 2004 BL86, which safely flew past Earth on Jan. 26, 2015. Image Credit: NASA/JPL-Caltech

Solo di recente si è iniziato a studiare anche gli oggetti della Fascia Principale. La prima osservazione di questo tipo è stata quella di (216) Kleopatra, un asteroide lungo circa 217 km e largo 94 km, dalla caratteristica forma ad osso. Le osservazioni sono state condotte ad Arecibo, quando l’asteroide si trovava ad oltre 170 milioni di km di distanza da Terra; il fascio radar impiegava circa 19 minuti per raggiungerlo e tornare al ricevitore.

Ricostruzione radar della forma dell’asteroide 216 Kleopatra ottenuta col grande radiotelescopio di Arecibo, sfruttando la tecnica del Doppler imaging. Da notare la notevole finezza dei dettagli superficiali, soprattutto in considerazione del fatto che, al momento dell’osservazione, l’asteroide si trovava ad oltre 170 milioni di km di distanza.

Ricostruzione radar della forma dell’asteroide (216) Kleopatra ottenuta col grande radiotelescopio di Arecibo, sfruttando la tecnica del Doppler imaging. Da notare la notevole finezza dei dettagli superficiali, soprattutto in considerazione del fatto che, al momento dell’osservazione, l’asteroide si trovava ad oltre 170 milioni di km di distanza.

Il grande limite delle misure radar sta nel fatto che è possibile studiare un numero molto limitato di oggetti, almeno con gli attuali strumenti a disposizione. Viceversa, i planetologi vorrebbero poterne osservare il più grande numero possibile, per poter poi applicare considerazioni di tipo statistico, inevitabili quando si tratta di caratterizzare una popolazione che, verosimilmente, è composta di parecchi milioni di oggetti. Nell’attesa dei dati della missione spaziale GAIA, che si ripromette di rivoluzionare per quantità e qualità le conoscenze sugli asteroidi, le osservazioni fotometriche condotte da Terra continuano ad essere, da questo punto di vista, uno strumento fondamentale, poiché permettono di ottenere un discreto numero di informazioni, tutto sommato in maniera relativamente semplice anche con strumentazione commerciale.

Gli asteroidi hanno forme più o meno allungate e più o meno stravaganti, conseguenza il più delle volte di complicate esistenze dominate da violente collisioni reciproche. Se nelle prime fasi della formazione del Sistema Solare i detriti collidevano a velocità relativamente basse, favorendo in questo modo il progressivo accrescimento e la formazione di corpi di grandi dimensioni, la successiva evoluzione delle orbite, soprattutto di quelle caratterizzate da alte eccentricità ed inclinazioni, ha fatto sì che le collisioni avvenissero a velocità comprese tra i 5 ed i 20 km/s conferendo alle collisioni un carattere distruttivo. Spesso la violenza degli impatti è stata tale da sbriciolare letteralmente i corpi coinvolti. In alcuni casi dalle collisioni sono emerse le cosiddette famiglie dinamiche, costituite da piccoli e grandi oggetti con elementi propri e proprietà fisiche simili a quelle del corpo genitore.

Accurate simulazioni numeriche hanno dimostrato, per esempio, che le famiglie di Eunomia e Koronis hanno avuto un’origine di questo tipo e che tutti gli oggetti di dimensioni maggiori sono probabilmente costituiti di aggregati di frammenti debolmente legati tra loro (rubble-pile), tenuti assieme dalla gravità e dalle forze di stato solido. Un altro sottoprodotto di questo tipo di evento è la formazione di satelliti attorno al corpo principale. Attualmente sono stati individuati satelliti di asteroidi nella Fascia Principale, tra i NEO e tra i transnettuniani. E’ di qualche anno fa la scoperta di un asteroide triplo, (87) Sylvia, un oggetto di 280km di diametro con due piccole lune, rispettivamente a 710 e 1360km di distanza, che ruotano attorno ad esso su orbite equatoriali, circolari e prograde il che suggerisce con forza un’origine comune. In genere i satelliti sono piccoli rispetto ai corpi principali, ma a volte, come nel caso di (90) Antiope, le dimensioni sono confrontabili, tanto che, più correttamente, si deve parlare di asteroidi doppi.

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VLT observations of the double asteroid (90) Antiope during 2004. The adaptive optics NACO instrument was used, allowing the astronomers to perfectly distinguish the two components and so, precisely determine the orbit. The two objects are separated by 171 km, and they perform their celestial dance in 16.5 hours.

Il grande interesse per gli asteroidi binari o multipli deriva dal fatto che dallo studio dell’orbita dei componenti è possibile determinare la loro massa tramite le leggi di Keplero e, se si dispone anche di una stima delle dimensioni, di ricavare la densità, parametro fondamentale per capire la struttura interna dell’oggetto. (87) Sylvia, per esempio, è sicuramente un rubble-pile con una significativa percentuale di spazi vuoti al suo interno. L’importanza di questo dato risiede nel comportamento di questi corpi in caso di collisioni successive. La presenza di molti vuoti e giunzioni al loro interno fa sì che riescano ad assorbire in maniera molto efficiente l’energia dell’impatto, con la produzione di coltri di ejecta e notevoli quantità di regolite come nel caso di (433) Eros o, addirittura, la formazione di crateri di dimensioni confrontabili con quelle dell’asteroide stesso, senza distruggerlo. Emblematico in questo senso è (253) Mathilde, la cui superficie è dominata da grandi crateri da impatto di diametro superiore al raggio medio dell’asteroide.

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From fifty kilometers above asteroid Eros, the surface inside one of its largest craters appears covered with an unusual substance: regolith. The thickness and composition of the surface dust that is regolith remains a topic of much research. Much of the regolith on (433) Eros was probably created by numerous small impacts during its long history.

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An image of Asteroid (253) Mathilde taken by the space probe NEAR Shoemaker on 27 June 1997 from a distance of 2400 km. It is lit up by the sun from the top right. The part of the Asteroid visible in the picture has Dimensions of 59 km x 47 km. On the surface, numerous large craters are visible, like the Large Crater in the Center, named Karoo, which is more than 30 km wide. Most of it is shaded in the picture.

Un notevole salto di qualità nello studio fotometrico degli asteroidi si è avuto, come per tutti i settori dell’Astrofisica, con l’introduzione dei sensori a stato solido, i cosiddetti dispositivi ad accoppiamento di carica o CCD. Attualmente con un telescopio di 20 cm di diametro è possibile studiare asteroidi di 14-esima magnitudine con un buon grado di precisione ed affidabilità laddove, prima dell’avvento dei CCD, sarebbe stato necessario uno strumento di apertura nettamente maggiore.

Tutte le curve di luce a colori riportate di seguito sono state ottenute ormai una decina di anni fa presso l’Osservatorio Astrofisico R.P.Feynman con un Dall-Kirkham di 21cm di apertura nell’ambito dell’ALP (Asteroid Lightcurve Program) che avevo attivato in quegli anni.

(721)Tabora

In un ideale passaggio di consegne generazionale e tecnologico ecco la curva di luce di (721) Tabora il cui periodo di rotazione stimato da Zappalà et al. nel 1989 era di 8 ore (Rotational properties of outer belt asteroids, Based on observations performed mainly at the European Southern Observatory, ESO, La Silla, Chile. Icarus 82, 354-368.) e che riuscii a rifinire in 7.982 ± 0.001 ore

Dall’analisi della curva di luce si ricava innanzitutto il periodo di rotazione dell’asteroide che, in genere, ruota attorno ad un asse fisso, mostrando all’osservatore le superfici di area massima e minima in maniera ciclica.

Images of 433 Eros from NEAR Shoemaker. Courtesy of JHU/APL Two days after NEAR Shoemaker began its orbit of Eros, the spacecraft captured this rotation movie as it moved closer to the asteroid. The movie shows a full rotation on February 16, 2000, as viewed from a range of about 340 kilometers

Images of (433) Eros from NEAR Shoemaker.
Courtesy of JHU/APL. Two days after NEAR Shoemaker began its orbit of Eros, the spacecraft captured this rotation movie as it moved closer to the asteroid. The movie shows a full rotation on February 16, 2000, as viewed from a range of about 340 kilometers

Un sufficiente numero di curve di luce, ottenute con osservazioni a diverse longitudini eclittiche e distribuite nell’arco di tre o quattro apparizioni, consente di determinare la direzione dell’asse di rotazione. Inoltre, permette la costruzione di un modello tridimensionale abbastanza dettagliato della struttura su larga scala dell’asteroide mediante la tecnica matematica dell’inversione delle curve di luce.

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Tre curve di luce dell’asteroide (43) Ariadne affiancate dal modello tridimensionale ottenuto con la tecnica matematica dell’inversione di un cospicuo numero di curve di luce, acquisite in epoche differenti. La diversa forma e ampiezza delle curve è dovuta al cambiamento delle condizioni di illuminazione durante ogni apparizione. (Kaasalainen et al. Icarus 159 (2002) mod.)

Il motivo per cui è necessario osservare l’oggetto sotto diverse prospettive è che in questo modo l’illuminazione laterale e radente mette in evidenza, grazie al gioco di luci e di ombre, anche le eventuali irregolarità nella forma, almeno su scala macroscopica. Un asteroide sferico non mostra alcuna variazione significativa nella curva di luce nel corso della sua rotazione, ma anche un oggetto fortemente elongato esibisce un comportamento analogo se osservato in direzione del suo polo. Ma, mentre nel primo caso non ci sono variazioni di sorta nemmeno se la visione è equatoriale, nel secondo si ha un’alternanza evidentissima di massimi e minimi, dovuta alla grande differenza nell’estensione dell’oggetto lungo gli assi perpendicolari a quello di rotazione. Non è raro, in questo caso, riscontrare ampiezze nella curva di luce anche di una magnitudine che, nel caso di asteroide approssimabile nella forma ad un ellissoide di Jacobi, implica un rapporto di circa 5/2 tra i due assi principali.

In linea di principio per ottenere una buona curva di luce è sufficiente un centinaio di punti ben distribuiti lungo il periodo. Tuttavia, un numero maggiore è sicuramente preferibile, sia per evidenziare eventuali irregolarità morfologiche, sia per minimizzare gli errori nelle misure dovuti, per esempio, a peggioramento delle condizioni meteo durante le osservazioni. La maggior parte degli asteroidi ruota con periodi compresi tra 6 e 12 ore perciò un paio di notti di misure, almeno durante l’inverno, sono sufficienti per determinare in maniera accurata il periodo. E’ opportuno però aggiungere una terza sessione a distanza di qualche giorno per ottenere una maggiore precisione.

(573)Recha

Generalmente la curva di luce ha un andamento di tipo sinusoidale con due massimi e due minimi, spesso di altezza e profondità differenti. Un esempio è la curva di luce di (1459) Magnya; quest’oggetto era stato scelto come obiettivo della prima osservazione interferometrica di un asteroide con il VLTI dell’ESO, con l’intento di ricavarne il diametro per via diretta. La curva di luce, oltre a permettere di rifinire il periodo di rotazione, è stata utile anche per individuare in quale fase si trovava l’asteroide al momento delle osservazioni interferometriche.

(1459)Magnya

Curva di luce di (1459) Magnya, raro asteroide della zona esterna della Fascia principale con una crosta basaltica e target della prima osservazione interferometrica col VLTI dell’ESO (Delbò et al. “MIDI observations of (1459) Magnya: First attempt of interferometric observations of asteroids with the VLTI”, Icarus, vol. 181, pp. 618-622 (2006)

Analoghe considerazioni valgono quando lo studio fotometrico è contemporaneo alle osservazioni radar, soprattutto se di oggetti non ancora ben caratterizzati. Alcuni asteroidi di dimensioni abbastanza contenute e monolitici hanno periodi di rotazione di poche ore o addirittura di pochi minuti. Se fossero di tipo rubble-pile, sarebbero rapidamente disgregati dalla forza centrifuga. La barriera tra i due tipi sembra collocarsi attorno alle 2.25 ore, ma ulteriori osservazioni possono migliorare in modo rilevante la statistica relativa. Esistono anche asteroidi con periodi di rotazione di giorni e perfino di mesi ed altri per i quali questo dato non è univocamente determinabile, come i cosiddetti asteroidi ubriachi. Si tratta di oggetti che non ruotano attorno a nessuno degli assi principali d’inerzia, ed anzi la direzione dell’asse di rotazione è continuamente variabile nel tempo. Celebre è il caso di (4179) Toutatis, un asteroide costituito da due corpi irregolari di 2.5 e 4 chilometri, praticamente a contatto, la cui rotazione è il risultato di due diversi tipi di moto, con periodi di 5.4 e 7.3 giorni terrestri, che si combinano in maniera tale che l’orientazione nello spazio di questo asteroide, non si ripete mai con le stesse modalità. Si tratta di una sorta di relitto che testimonia la grande complessità della dinamica collisionale nelle prime fasi della formazione del Sistema Solare. A causa degli attriti e delle tensioni interne, che dissipano grandi quantità di energia, queste rotazioni ubriache tendono a regolarizzarsi su tempi scala dell’ordine di qualche decina di milioni di anni, in maniera tanto più rapida quanto più la rotazione è veloce per una data dimensione dell’asteroide, ma Toutatis ruota così lentamente che il tempo necessario perché questo processo di stabilizzazione diventi effettivo è più lungo di quello trascorso dalla formazione del Sistema Solare.

Anche quando la rotazione non è “ubriaca”, la determinazione del periodo, a volte, è un vero rompicapo e sono necessarie diverse notti di misure per risolvere il problema. Può succedere, infatti, che l’asteroide sia binario, cosicché nella curva di luce si sovrappongono periodi differenti e perfino eclissi. Un campanello d’allarme può essere la presenza di un numero maggiore dei canonici due estremi per ciclo. Un asteroide nella lista dei sospetti binari, che esibisce ben quattro massimi e minimi, è (2346) Lilio. Potrebbe anche trattarsi di un oggetto singolo di tipo ellissoidale, ma molto deformato.

Curva di luce di 2346 Lilio. La presenza di ben quattro massimi e minimi fa pensare che forse potrebbe trattarsi di un asteroide binario, ma non è da escludersi la possibilità che si tratti solo di un oggetto dalla complicata morfologia.

Curva di luce di (2346) Lilio. La presenza di ben quattro massimi e minimi fa pensare che forse potrebbe trattarsi di un asteroide binario, ma non è da escludersi la possibilità che si tratti solo di un oggetto dalla complicata morfologia.

Irregolarità macroscopiche nella forma sono evidenti anche nel caso di (126) Velleda. Sarà sicuramente interessante tornare a studiare questi oggetti durante le prossime apparizioni, quando le differenti condizioni geometriche di illuminazione potranno evidenziare o anche nascondere alcune delle caratteristiche presenti nelle curve di luce e quindi fornire ulteriori indicazioni sulla loro morfologia.

(126)Velleda

Curva di Luce di (126) Velleda, un asteroide caratterizzato da una morfologia piuttosto accidentata, dovuta probabilmente ad una tumultuosa esistenza, con frequenti collisioni con altri suoi simili.

Ha un certo fascino iniziare a misurare un asteroide di cui non se ne sa assolutamente niente. E’ come intraprendere l’esplorazione di un’isola che fino a quel momento era solo un punto su una mappa. E non è detto che non celi un piccolo tesoro.

Domenico Licchelli – 2015

Approfondimento

Mentre la determinazione del periodo di rotazione è normalmente cosa rapida e facile (una volta bastava un buon fotometro fotoelettrico, oggi un buon CCD), più complicata è la determinazione della forma e dell’asse di rotazione. In questo articolo voglio raccontarvi uno dei vari metodi, quello che ho usato più spesso (in quanto messo a punto proprio da … me) e che risulta anche il più semplice da spiegare geometricamente e senza utilizzare formule più o meno complicate.
L’ipotesi fondamentale che bisogna fare per poter arrivare a un risultato accettabile è che la forma dell’asteroide sia assimilabile a un ellissoide a tre assi (a>b>c), rotante attorno al semiasse minore c. Attenzione! Questo non vuol dire che tutti gli asteroidi siano forme di equilibrio, ma solo che, come tutti i frammenti collisionali, hanno forme più o meno allungate e non simmetriche. La rotazione intorno all’asse minore è comprovata dalla teoria e dalla casistica, e si lega a condizioni che si riferiscono al momento angolare.
Le forme a tre assi sono più che giustificabili, guardando i sassi di una spiaggia ciottolosa in cui il mare abbia smussato gli angoli delle pietre (Fig. 2).

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Ammettiamo, quindi, che il nostro asteroide si presenti come un ellissoide a tre assi, rotante attorno all’asse minore. Magnifico. Tuttavia, noi continuiamo a vedere, da terra, solo un punto luminoso e quindi l’ellissoide può essere orientato in qualsiasi modo nella sua posizione celeste.
La sua prima curva di luce, in genere, ci aiuta già a capire la forma grossolana: se l’ampiezza, ossia la differenza tra massimi e minimi, è abbastanza rilevante vuol dire che l’ellissoide è piuttosto allungato. Come mai? Presto detto. Prendiamo ad esempio un oggetto che abbia l’asse di rotazione perfettamente perpendicolare alla linea di vista. In Fig. 3, nella parte alta, vi è l’ellissoide visto dal polo (e quindi l’ellisse mostra proprio gli assi maggiori a e b), mentre le due rappresentazioni sottostanti si riferiscono a vari istanti.

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Figura 3. In alto un ellissoide a tre assi visto dalla direzione dell’asse polare. Durante la sua rotazione l’area rimane costante. Se, invece, viene visto dalle posizioni 1, 2, 3, 4 l’area cambia continuamente e passa da un minimo a un massimo. Come conseguenza, durante un intero periodo di rotazione d’identificano due massimi e due minimi di luce.

In particolare, l’area della superficie ellittica vista da terra passa da un minimo (1) quando si vede l’asse intermedio b (πbc) a un massimo (2) (dopo novanta gradi di rotazione) quando si vede l’asse maggiore a (πac). Poi, dopo altri 90°, di nuovo πbc (3), seguita da πac (4), per concludersi, infine, nuovamente con πbc (1). L’asse minore c si vede sempre, proprio perché l’asse di rotazione è perpendicolare alla linea di vista.

In questo caso così favorevole si potrebbe immediatamente risalire al rapporto tra gli assi maggiori dell’ellissoide (a/b), scrivendo la formula:

m2 – m1 = – 2.5 log (Imax/Imin) = – 2.5 log (Amax/Amin) = – 2.5 log (πac/ πbc) = – 2.5 log (a/b)

notando che m2 – m1 è proprio l’ampiezza della curva di luce in quanto è la differenza di magnitudine tra massimo e minimo, mentre l’intensità luminosa che entra nel logaritmo è, nel caso di luce riflessa, proporzionale solo all’area apparente vista dall’osservatore. In altre parole, più uno “specchio” è grande e più luce riflette.
Se fossimo sicuri di essere nelle condizioni della Fig. 3 avremmo già ottenuto un risultato importante. Purtroppo, esso è solo un caso fortunato, che, però, si verifica sempre (prima o poi) per qualsiasi asteroide e per qualsiasi orientazione del suo asse di rotazione. Basta avere pazienza. Ora vi mostro perché…
Consideriamo due casi estremamente particolari, ma molto indicativi. L’asteroide si trova su un’orbita circolare e complanare con quella terrestre. La direzione del suo asse di rotazione è perpendicolare all’orbita stessa (Fig. 4).

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Figura 4. Asteroide e Terra rivolvono su orbite complanari e l’asse di rotazione è perpendicolare al piano orbitale.

Le mutue posizioni Terra-asteroide sono mostrate per 4 particolari opposizioni. In realtà, sarebbe stato inutile, in quanto l’angolo tra asse di rotazione e linea di vista rimane sempre uguale a 90° (visione equatoriale). In qualsiasi opposizione si osservi, si ricade nel caso di Fig. 3 (in basso). Otteniamo sempre la stessa ampiezza di curva di luce.

Già dalla prima curva di luce, si ricava subito il rapporto tra gli assi maggiori a/b, ma nessuna informazione sul rapporto a/c o b/c. Sappiamo anche la direzione dell’asse di rotazione (non variando l’ampiezza nelle varie opposizioni l’asse deve essere perpendicolare). Se facciamo un diagramma dove in ascissa mettiamo, ad esempio, la longitudine dell’asteroide e in ordinata l’ampiezza della curva di luce, otteniamo dei punti perfettamente allineati lungo una parallela all’asse delle ascisse.
Altrettanto peculiare, ma più interessante, il caso mostrato nella Fig. 5.

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Figura 5. Come la Figura 4, ma l’asse di rotazione giace sul piano orbitale.

In questo caso le orbite sono sempre complanari, ma l’asse di rotazione giace sul piano orbitale (un po’ come Urano). Vi è allora un punto in cui la Terra vede l’asteroide proprio lungo l’asse di rotazione (posizione a destra), ossia l’osservatore non rileva nessuna variazione luminosa durante il periodo di rotazione dell’oggetto celeste (visione polare). Siamo, infatti, nel caso mostrato in alto nella Fig. 3. Per un opposizione che cada a 90° da questa si ha, invece, un angolo tra asse di rotazione e linea di vista uguale a 90° (come in Fig. 3, in basso) e quindi l’ampiezza della curva raggiunge il suo valore massimo (visione equatoriale). Dopo altri 90° ricadiamo nella visione polare (anche se si vede il polo opposto) e poi ancora nella visione equatoriale.

Nelle configurazioni intermedie tra questi quattro casi peculiari, l’asse di rotazione dell’asteroide forma un angolo variabile tra 0° e 90°, che prende il nome di angolo di aspetto A. In realtà l’angolo andrebbe da 0° a 180° o da – 90° a + 90°, a seconda di come si misuri. Questo fatto ha poca importanza (per adesso, ma ne parleremo più avanti), dato che abbiamo assunto come forma dell’asteroide quella di un ellissoide perfetto, la cui luminosità dipende solo dall’area apparente mostrata all’osservatore.
Al variare dell’angolo di aspetto, l’ampiezza assume valori intermedi tra il valore minimo, uguale a zero (visione polare), e il valore massimo (visione equatoriale). Osservazioni eseguite in varie opposizioni permettono di costruire la curva ampiezza-longitudine. Questa volta non è più una retta parallela all’asse delle ascisse, ma una curva continua che assomiglia, in qualche modo, a una curva di luce. Il valore massimo è sicuramente la visione equatoriale e quindi ci permette di conoscere nuovamente a/b. Inoltre, la posizione in cui l’ampiezza diventa zero, indica proprio la longitudine del polo.
In questo caso peculiare, sappiamo anche che la latitudine della direzione dell’asse di rotazione è zero, dato che l’ampiezza minima è nulla e quindi l’asse deve giacere sul piano orbitale dell’asteroide. Calcolando, infine, la differenza di magnitudine tra la visione polare (valore costante durante l’intera rotazione) e quella della visione equatoriale al massimo della curva di luce, si ottiene subito anche il rapporto tra b e c. Si usa la solita formula:

mP – mE = – 2.5 log (A(polare)/Amax(equatoriale)) = – 2.5 log (πab/ πac) = – 2.5 log (b/c)

Il “caso” è risolto completamente.
Come già detto, però, questa è una situazione del tutto peculiare, molto didattica, ma poco realistica. La situazione “normale” è decisamente più complicata. Ciò che capita è quanto raffigurato in Fig. 6.

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Figura 6. Come Figura 5, ma questa volta l’asse forma un angolo qualsiasi col piano orbitale.

L’inclinazione del’asse di rotazione sul piano orbitale è diversa da 0° e da 90° (o, se preferite, la latitudine, nel caso di orbita complanare con quella dell’eclittica). Tuttavia, dobbiamo notare due cose importanti. Anche in questo caso realistico, prima o poi, si avrà un’opposizione con una visione equatoriale (angolo di aspetto A uguale a 90°).

Se questa asserzione vi lascia un po’ dubbiosi, pensate alle stagioni terrestri. Esistono sempre due punti in cui l’asse di rotazione della Terra è perpendicolare al piano dell’eclittica e questi sono gli equinozi. Essi vi sono comunque, indipendentemente da quanto vale l’angolo tra asse ed eclittica. La visione polare è invece impossibile da ottenere e si ha soltanto un valore minimo di ampiezza, in corrispondenza, però, della posizione a 90° dalla visione equatoriale. In altre parole, il minimo della curva ampiezza-longitudine indica, ancora una volta, la longitudine del polo dell’asteroide. Nel caso terrestre questi sono i punti dei solstizi. Alcuni esempi di curve ampiezza-longitudine sono riportate nella Fig. 7.

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Figura 7. Alcune curve ampiezza-longitudine. Qualsiasi asteroide raggiunge sempre il massimo di ampiezza (visione equatoriale). Il minimo, invece, può essere più alto o più basso, Indica comunque abbastanza bene la longitudine del polo.

Possiamo calcolare, come al solito, il rapporto a/b, sfruttando l’ampiezza misurata nella visione equatoriale (che si ha sempre, ripeto). Resta più problematica la determinazione del rapporto b/c e della latitudine del polo. Ci aiuta la Fig. 8 che riporta la situazione per un’opposizione e per un orientamento qualsiasi dell’asse di rotazione. L’osservatore vede, in realtà, una proiezione dell’asteroide-ellissoide su un piano perpendicolare alla linea di vista. Essa si ottiene, visivamente, come la sezione perpendicolare di un cilindro ellittico che abbia la direzione Terra-asteroide come asse e che sia tangente all’asteroide.

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Figura 8

L’angolo tra asse del cilindro e asse di rotazione è proprio l’angolo di aspetto A. La proiezione è anch’essa un’ellisse, ovviamente, ma i suoi assi sono, momento per momento, delle funzioni abbastanza semplici che legano angolo di aspetto e rapporti tra i semi-asse dell’asteroide.

Particolare rilevanza hanno, ovviamente, quelli relativi al massimo e al minimo della curva di luce. Non intendo sviluppare le formule, in quanto approfittano di un po’ di trigonometria e di qualche passaggio più o meno noioso, ma posso assicurarvi che esiste una soluzione che dona sia la forma che i rapporti tra gli assi.
Abbiamo fatto qualche ipotesi restrittiva, ma le applicazioni ai casi reali confermano che l’approccio è più che sufficiente per una determinazione abbastanza accurata. I risultati ottenuti per Eros, Kleopatra e Vesta (anche se in modo più elaborato) sono perfettamente in accordo con quanto osservato “in loco” (Eros e Vesta) o attraverso le immagini radar (Kleopatra).
La determinazione dell’asse di rotazione resta, comunque, un po’ ambigua. In altre parole, esistono quasi sempre due soluzioni altrettanto valide. Questo fatto si può notare nella Fig. 9.

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Figura 9. Si vedrebbe la stessa superficie apparente per qualsiasi posizione dell’asse lungo il cono con centro nella posizione dell’asteroide e ampiezza uguale all’angolo di aspetto.

Qualsiasi sia la configurazione dell’asteroide nello spazio, la curva di luce non cambia se l’asse di rotazione descrive un cono circolare, di ampiezza uguale all’angolo di aspetto A.
Fortunatamente, questa enorme ambiguità si ha solo per una singola opposizione. Se ne abbiamo altre e raffiguriamo, nel piano longitudine-latitudine celeste, le circonferenze che hanno centro nella posizione dell’asteroide e raggio uguale all’angolo di aspetto, esse hanno due soli punti in comune (Fig. 10).

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Figura 10. Se l’orbita non è inclinata ed è circolare, l’ambiguità tra i due poli non non può essere risolta.

La loro longitudine e latitudine sono i possibili valori del polo dell’asteroide. In modo analitico questo fatto si traduce dicendo che l’angolo di aspetto è calcolato solo in valore assoluto (ossia può essere sia positivo che negativo, come già accennato in precedenza).
Per risolvere l’ambiguità, è necessario che l’orbita non sia complanare con l’eclittica e, magari, che sia anche piuttosto ellittica. In questi casi vi è una piccola differenza tra le due soluzioni: una delle due intersezioni è meno “buona” dell’altra.
Tuttavia, dato che gli errori sono molti (macchie di albedo, forma non assimilabile completamente a un ellissoide a tre assi, rugosità superficiale, effetto dell’angolo di fase solare sulla luminosità della superficie esposta all’osservatore (ossia l’ombra su una superficie convessa), ecc.), l’ambiguità è difficilmente risolta e le differenze riscontrate negli errori stimati per le due soluzioni sono comparabili o minori di quelli introdotti da altre cause.
In ogni modo, si ottengono valori più che accettabili per lavori di tipo statistico e anche per pianificare missioni spaziali dirette agli asteroidi, per le quali è necessario avere una stima dell’asse di rotazione e della forma.

Vincenzo Zappalà

Rileggiamo il Sidereus Nuncius – I satelliti di Giove – Domenico Licchelli

Copertina_Rileggere-il-Sidereus-NunciusIn questo capitolo parleremo del Sidereus Nuncius, l’opera in cui il grande Galileo riporta le prime osservazioni eseguite con il suo perspicillum (cannocchiale). Descrive la Luna, la Via Lattea, le stelle, per concludere con la sua più importante scoperta: i satelliti di Giove. Per capire la genialità, l’entusiasmo e la freschezza del libro, ne estrarremo le parti più importanti (tradotte in italiano e scritte in corsivo); le accompagneremo con immagini riprese da telescopi moderni per mostrare la grande precisione delle osservazioni galileiane, eseguite con uno strumento oggi considerato “ridicolo”; inseriremo alcuni disegni originali; commenteremo passo dopo passo lo scritto del sommo pisano evidenziandone le conclusioni corrette (molte) e quelle errate (poche); quando necessario, aggiungeremo note più tecniche relative alle immagini. Sarà sicuramente una lettura entusiasmante e piena di sorprese, conosciuta da pochi e ricca di spunti di riflessione. Forse vi farà anche venire voglia di accostarvi maggiormente alla visione del Cielo …

Sidereus_Nuncius_1610.GalileoLa dedica
… Ecco dunque quattro stelle dedicate al vostro nome illustre, ma non scelte tra quelle fisse, numerose e servili, ma nella schiera dei pianeti. A voi ho riservato quelle che con movimento differente e veloce compiono l’orbita attorno a Giove, stella nobilissima, ed insieme ad essa, con mirabile concordia, compiono il giro intorno al centro del mondo, il Sole, in dodici anni. Quando le scoprii sotto i vostri auspici, serenissimo Cosimo, ancora ignote a tutti gli astronomi precedenti, con ragione decisi di insignirle con l’augusto nome della vostra Casa. Essendo stato io il primo ad averle studiate, chi mai potrà riprendermi se imporrò ad esse il nome di ASTRI MEDICEI? …
Anche Galileo doveva mangiare. Il suo dono al serenissimo Cosimo trasuda di rispetto, deferenza ed ossequio. E non dona al Signore di Firenze una “cosa” qualsiasi, ma “quelle che con movimento differente e veloce compiono l’orbita attorno a Giove, stella nobilissima …”. E’ ovvio: anche il suo dono deve essere nobile come chi lo riceve. E poi il finale: “chi mai potrà accusarmi di essere stato troppo generoso? I satelliti sono miei e ne faccio quello che voglio!” E’ quasi commovente l’umanità che se ne evince.

Le scoperte
… Grande cosa è stata aggiungere alla immensa moltitudine delle stelle fisse, visibili fino ad oggi ad occhio nudo, altre innumerevoli, mai prima osservate, il cui numero supera più di dieci volte quello delle conosciute …
… Bellissima e piacevole cosa è stato anche vedere il corpo della Luna, lontano da noi quasi sessanta raggi terrestri, così vicino come se si trovasse a soli due raggi. In tal modo il diametro di essa appariva trenta volte, la superficie novecento, ed il volume quasi ventisettemila volte più grande di quanto non si vedesse ad occhio nudo. Attraverso questa esperienza chiunque noterebbe che la Luna non è ricoperta da una superficie liscia e levigata, ma scabra ed ineguale e, proprio come la Terra, piena di sporgenze, cavità ed anfratti …
… Ma quello che supera ogni possibile meraviglia è stato aver scoperto quattro astri erranti, da nessuno mai visti precedentemente, che come Venere e Mercurio attorno al Sole, ruotano attorno ad un astro tra i più grandi conosciuti, ora precedendolo, ora inseguendolo, senza mai allontanarsene più di una breve distanza ben delimitata …”

Il cannocchiale
… Circa dieci mesi fa mi giunse notizia che un certo Fiammingo aveva costruito un “occhiale” attraverso il quale oggetti molto lontani e confusi si vedevano molto vicini e distinti. Questa cosa mi venne confermata dopo pochi giorni dal nobile francese Iacopo Badovere di Parigi. Ciò fu causa della mia disperata volontà di ottenere uno strumento analogo, che riuscii a costruire basandomi sulla teoria della rifrazione luminosa. Preparai un tubo di piombo alle cui estremità inserii due lenti, entrambe piane da una parte e dall’altra una convessa e una concava. Posto l’occhio dalla parte concava vidi gli oggetti tre volte più vicini e nove volte più grandi di quanto potessi fare ad occhio nudo. Poi ne costruii uno più accurato che mi permise di vedere gli oggetti ingranditi sessanta volte. Infine, senza risparmiare fatica e spese, riuscii a realizzare uno strumento eccezionale, con il quale arrivai a vedere le cose trenta volte più vicine e mille volte più grandi che viste ad occhio nudo …”

Questo esemplare è uno degli unici due cannocchiali esistenti certamente di Galileo. Rivestito in pelle con dorature impresse a caldo, lo strumento fu donato a Cosimo II subito dopo la pubblicazione del Sidereus Nuncius (19 marzo 1610). Vetro, legno, pelle; lunghezza 92 cm, diametro 6 cm Firenze, Istituto e Museo di Storia della Scienza

Questo esemplare è uno degli unici due cannocchiali esistenti certamente di Galileo. Rivestito in pelle con dorature impresse a caldo, lo strumento fu donato a Cosimo II subito dopo la pubblicazione del Sidereus Nuncius (19 marzo 1610). Vetro, legno, pelle; lunghezza 92 cm, diametro 6 cm Firenze, Istituto e Museo di Storia della Scienza

Anche se forse non fu proprio il primo a costruirlo, Galileo ama il suo gioiello quasi fisicamente. Sa che deve migliorarlo in tutti i modi e lo fa con grande fatica sia fisica che finanziaria.

I satelliti di Giove
… Descriverò adesso le osservazioni dei quattro PIANETI da me scoperti e mai visti prima d’ora dal principio del mondo e darò notizie delle loro posizioni, mutamenti, movimenti, invitando tutti gli astronomi a studiare e definire i loro periodi che finora non riuscii a stabilire per la limitatezza del tempo avuto a disposizione (due mesi soltanto). Ricordo però che per compiere queste osservazioni è necessario utilizzare un cannocchiale “esattissimo” come quello di cui parlai all’inizio …
Importantissimo brano per comprendere il carattere di Galileo e la sua emozione di fronte ad un nuovo Universo che gli si apre improvvisamente davanti agli occhi. Innanzitutto l’orgoglio non molto velato (“mai visti prima d’ora dall’inizio del mondo”), poi il suo caloroso invito a seguirlo nella conquista del Cosmo senza paure o remore (“invitando tutti gli astronomi”) ed infine la sua ammirazione per lo strumento da lui creato, ma anche la paura che le sue potenzialità non vengano adeguatamente comprese se riprodotto senza la necessaria abilità (“è necessario utilizzare un cannocchiale esattissimo”).”

La scoperta
“… Il giorno sette gennaio, dunque, dell’anno milleseicentodieci, a un’ora di notte, mentre col cannocchiale osservavo gli astri mi si presentò Giove; poiché avevo preparato uno strumento eccellente, vidi (e ciò prima non mi era accaduto per la debolezza dell’altro strumento) che intorno gli stavano tre stelle piccole ma luminosissime; sebbene le credessi fisse, mi destarono una certa meraviglia, perché apparivano disposte esattamente secondo una linea retta e parallela all’eclittica, e più splendenti delle altre di grandezza uguale alla loro. Esse e Giove erano in questo ordine:

satelliti Medicei-280708_2132T

cioè due stelle erano ad oriente ed una ad occidente. La più orientale e l’occidentale apparivano un po’ maggiori dell’altra. Non mi curai minimamente della loro distanza da Giove, perché, come ho detto, le avevo credute fisse. Quando, non ne so nemmeno il motivo, mi rivolsi di nuovo alla medesima indagine il giorno otto, vidi una disposizione ben diversa: le tre stelle infatti erano tutte ad occidente rispetto a Giove, e più vicine tra loro che la notte antecedente e separate da eguali intervalli, come mostra il disegno seguente:

satelliti medicei-290708_2133TC’è da rimanere estasiati di fronte alla semplicità, il rigore, l’emozione che scaturisco da queste poche righe. Galileo si accorge di avere fatto una scoperta epocale, ma cerca di mantenere la calma e non rigetta subito l’ipotesi di trovarsi di fronte a delle stelle fisse (quindi niente di speciale) ma non può non esprimere il suo dubbio in proposito (“disposte esattamente lungo una linea retta e parallela all’eclittica”). Mente sicuramente quando dice: “non so nemmeno il motivo, mi rivolsi di nuovo alla stessa indagine…”. Sicuramente non vedeva l’ora di riosservare quelle strane stelle la notte dopo!

A questo punto vale la pena di fare una breve constatazione. Nel corso dei secoli sono state molte le speculazioni riguardo alle capacità osservative di Galilei. In particolare ci si è chiesti come mai le osservazioni dei satelliti medicei siano state tanto accurate mentre al contrario i disegni lunari mostravano una certa approssimazione. In realtà se si analizzano accuratamente le posizioni dei satelliti si scopre che anche queste osservazioni sono abbastanza approssimative. In diversi casi il Nostro non riuscì a vedere distinti i satelliti quando erano piuttosto vicini tra loro oppure quando qualcuno era alla massima elongazione dal pianeta. Queste limitazioni sono dovute ad almeno due grandi cause: lo scarso potere risolutivo del telescopio usato, dovuto sia al ridotto diametro, sia alle pesanti aberrazioni presenti nella lente principale e negli oculari, oltre che al modesto campo di vista. E’ facile verificare che con un moderno binocolo si riesce ad osservare una zona ampia diversi gradi, ma è sufficiente utilizzare un piccolo rifrattore a lunga focale per vederlo ridursi drasticamente. Inoltre un normale binocolo è oggi in genere di gran lunga più corretto dei cannocchiali galileiani per cui è difficile rendersi conto delle difficoltà incontrate dal grande scienziato pisano. Anzi, rileggere le sue descrizione e le sue considerazioni è tuttora uno straordinario esempio di grande Scienza ed in particolare di grandissime capacità osservative e deduttive.

satelliti Medicei-060808_2208Tsatelliti medicei-210708_2221TLo stupore
“… A questo punto, non pensando assolutamente allo spostamento delle stelle, cominciai a chiedermi in qual modo Giove si potesse trovare più ad oriente di quelle stelle fisse, quando il giorno prima era ad occidente rispetto a due di esse. Ed ebbi il dubbio che Giove si muovesse ben diversamente da quanto descritto dai calcoli astronomici, ed avesse col proprio moto oltrepassato le tre stelle. Per questo aspettai con grande ansia la notte successiva. Purtroppo il cielo coperto di nubi mi precluse l’osservazione. Ma il giorno dieci le stelle mi apparvero in questa posizione rispetto a Giove:

satelliti medicei-130808_2249T_ombra

cioè ve n’erano due soltanto, ed entrambe orientali: la terza, come immaginai subito, era nascosta da Giove.
Lo stupore c’è davvero. Ma non siamo del tutto sicuri che Galileo pensasse veramente ad un movimento imprevisto di Giove che avrebbe distrutto le teorie in cui credeva ciecamente. Sapeva già di trovarsi di fronte a qualcosa di nuovo ed aveva quasi paura della sua eccezionale scoperta. Voleva esserne sicuro e non illudersi troppo presto (di nuovo esce la sua grande freddezza e precisione), ma questa volta non riesce a nascondere l’impazienza di tornare al suo cannocchiale. Quando ci riesce non ha alcun problema a pensare subito che “la terza stella” non visibile sia nascosta dal pianeta. Aveva già capito tutto, ma aspettava la prova definitiva.

La spiegazione
“… Erano sempre lungo la stessa direzione rispetto a Giove, e lungo la linea dello Zodiaco. Quando mi accorsi di questo compresi che simili spostamenti non potevano in alcun modo essere attribuiti a Giove, sapendo inoltre che le stelle osservate erano sempre le stesse (non vi erano altre stelle di pari luminosità lungo un notevole tratto della linea dello Zodiaco, sia prima che dopo). Mutando la perplessità in meraviglia, compresi che l’apparente mutazione non era di Giove ma delle stelle da me scoperte; e per questo pensai di dovere da allora in poi osservare il fenomeno attentamente, scrupolosamente ed a lungo …
Ogni reticenza cade e la spiegazione fluisce senza tentennamenti. Probabilmente il cambiamento da “perplessità a meraviglia” era già avvenuto nel suo intimo. Riesplode l’orgoglio, più che giustificato: “la mutazione … era delle stelle da me scoperte”. E chi mai poteva dubitare che Galileo avesse già deciso di continuare a studiare il suo fenomeno con attenzione e per molto tempo?
… Dopo pochi giorni capii anche che le stelle che compivano i loro giri attorno a Giove non sono erano solo tre, ma quattro. Misurai anche le loro reciproche distanze, annotai tutte le ore delle osservazioni, soprattutto quando ne feci molte in una stessa notte. Infatti le rivoluzioni di questi pianeti sono così veloci che spesso si notano differenze anche orarie …
L’emozione e la gioia dell’uomo lasciano nuovamente il posto alla precisione, al rigore ed allo scrupolo dello scienziato.

satelliti medicei-120808_2214TLe conclusioni
… Queste sono le osservazioni dei quattro Astri Medicei da me scoperti recentemente e per la prima volta, sulle quali, pur non essendo ancora possibile dedurre i loro periodi, si deducono già importanti conclusioni. In primo luogo, poiché talvolta seguono e talvolta precedono Giove ad intervalli uguali e si allontanano da esso solo per un breve tratto, sia ad oriente che a occidente, accompagnandolo sia nel suo moto retrogrado che in quello diretto, a nessuno può nascer dubbio che non compiano attorno a Giove le loro rivoluzioni e, nello stesso tempo, effettuino tutti insieme il loro giro intorno al centro del mondo in un periodo di dodici anni ..”
La spiegazione è precisa, attenta ed esauriente, permeata nuovamente di orgoglio (“da me scoperti”). Ed alla fine quasi accusa di stupidità chiunque osi confutargli la sua interpretazione.

Una nuova visione dell’Universo
“… Notai anche che sono più veloci le rivoluzioni dei pianeti che descrivono orbite più strette intorno a Giove. infatti le stelle più vicine a Giove spesso si vedevano orientali mentre il giorno prima erano apparse occidentali, e viceversa, mentre invece il pianeta che descrive l’orbita maggiore, ad un accurato esame, mostrava aver periodo semimensile. Ho ottenuto quindi un valido ed eccellente argomento per togliere ogni dubbio a coloro che, accettando tranquillamente nel sistema di Copernico la rivoluzione dei pianeti intorno al Sole, sono ancora turbati dal fatto che solo la Luna giri intorno alla Terra, mentre entrambi compiono ogni anno la loro rivoluzione attorno al Sole, sì da ritenere per tale motivo che si debba rigettare come impossibile l’intera struttura eliocentrica dell’universo. Ora, infatti, non abbiamo un solo pianeta che gira intorno a un altro (la Luna attorno alla Terra) mentre entrambi percorrono la grande orbita intorno al Sole, ma ben quattro stelle erranti fanno lo stesso attorno a Giove ed insieme al grande pianeta, completano la loro ampia orbita attorno al Sole in un periodo di dodici anni …”
Galileo pone l’accento sulla parte fondamentale della sua scoperta, di valenza non solo scientifica. Non solo la Terra ha un satellite, ma anche Giove, ed addirittura quattro. Questo non solo distrugge definitivamente le vecchie teorie geocentriche, ma leva ogni dubbio a chi ancora tentennava vedendo che il nostro pianeta era il solo ad avere il privilegio di una Luna tutta sua. La breve descrizione e le ferme e chiare conclusioni di Galileo fanno nascere la nuova visione dell’Universo, che aprirà in breve le porte all’astrofisica moderna.

L’atmosfera di Giove
“…Ed infine non bisogna tacere il motivo per cui gli Astri Medicei sembrano talvolta più grandi del doppio, mentre compiono attorno a Giove le loro piccolissime rivoluzioni. Certo la causa non risiede nei vapori terrestri, perché mentre essi appaiono più grandi e più piccoli Giove e le vicine stelle fisse si vedono invece immutati. Ed è anche impossibile che si allontanino così tanto dalla Terra nel loro apogeo e tanto le si avvicinino nel loro perigeo da causare un tale cambiamento: una stretta rotazione circolare non può in alcun modo produrre un simile effetto. Dato che non solo la Terra ma anche la Luna è circondata da vapori, possiamo ragionevolmente credere che la stessa cosa avvenga sugli altri pianeti, e quindi accettare che vi sia un involucro più denso del rimanente etere anche attorno a Giove. I Pianeti Medicei, con l’interposizione di questo involucro più denso, all’apogeo sembrano minori, mentre al perigeo maggiori per la mancanza o quantomeno l’attenuazione dell’involucro stesso …”
Non tutto è esatto in questa spiegazione, soprattutto nel richiamo all’atmosfera della Luna. E’ esatto invece il ragionamento che esclude la componente atmosferica terrestre ed il fatto che le orbite dei satelliti medicei devono essere molto piccole attorno a Giove rispetto alla distanza dalla Terra.

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La reale atmosfera di Giove vista oggi con un telescopio di 21 cm di apertura. Le grandi bande equatoriali sono i dettagli più appariscenti del gigante gassoso; se osservate con telescopi di elevata qualità, soprattutto sotto cieli con ottima trasparenza, rilevano una messe di particolari (gli ovali, le bande equatoriali piuttosto movimentate, i festoni e la Grande Macchia Rossa) spesso notevolmente variabili anche su scale temporali relativamente corte.

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Preistorica ripresa acquisita con una banale webcam nell’ormai lontano 2004

giove Celestron 14" @ PGR Flea3.  Damian Peach

L’enorme salto qualitativo ottenuto grazie a ottiche specializzate, nuovi rivelatori, e sofisticate tecniche di elaborazione delle immagini. Celestron 14″ @ PGR Flea3.
Damian Peach

This NASA/ESA Hubble Space Telescope image shows a gorgeous close-up view of the planet Jupiter. Astronomers were using Hubble to monitor changes in Jupiter's immense Great Red Spot (GRS) storm. During the exposures, on 21 April 2014, the shadow of the Jovian moon Ganymede swept across the center of the GRS. Giving the giant planet the uncanny appearance of having a pupil in the center of a 16 000 kilometre wide eye.

This NASA/ESA Hubble Space Telescope image shows a gorgeous close-up view of the planet Jupiter.
Astronomers were using Hubble to monitor changes in Jupiter’s immense Great Red Spot (GRS) storm. During the exposures, on 21 April 2014, the shadow of the Jovian moon Ganymede swept across the center of the GRS. Giving the giant planet the uncanny appearance of having a pupil in the center of a 16 000 kilometre wide eye.

This "family portrait," a composite of the Jovian system, includes the edge of Jupiter with its Great Red Spot, and Jupiter's four largest moons, known as the Galilean satellites. From top to bottom, the moons shown are Io, Europa, Ganymede and Callisto. The Great Red Spot, a storm in Jupiter's atmosphere, is at least 300 years old. Winds blow counterclockwise around the Great Red Spot at about 400 kilometers per hour (250 miles per hour). The storm is larger than one Earth diameter from north to south, and more than two Earth diameters from east to west. In this oblique view, the Great Red Spot appears longer in the north-south direction. Europa, the smallest of the four moons, is about the size of Earth's moon, while Ganymede is the largest moon in the solar system. North is at the top of this composite picture in which the massive planet and its largest satellites have all been scaled to a common factor of 15 kilometers (9 miles) per picture element. The Solid State Imaging (CCD) system aboard NASA's Galileo spacecraft obtained the Jupiter, Io and Ganymede images in June 1996, while the Europa images were obtained in September 1996. Because Galileo focuses on high resolution imaging of regional areas on Callisto rather than global coverage, the portrait of Callisto is from the 1979 flyby of NASA's Voyager spacecraft.

This “family portrait,” a composite of the Jovian system, includes the edge of Jupiter with its Great Red Spot, and Jupiter’s four largest moons, known as the Galilean satellites. From top to bottom, the moons shown are Io, Europa, Ganymede and Callisto. The Great Red Spot, a storm in Jupiter’s atmosphere, is at least 300 years old. Winds blow counterclockwise around the Great Red Spot at about 400 kilometers per hour (250 miles per hour). The storm is larger than one Earth diameter from north to south, and more than two Earth diameters from east to west. In this oblique view, the Great Red Spot appears longer in the north-south direction. Europa, the smallest of the four moons, is about the size of Earth’s moon, while Ganymede is the largest moon in the solar system. North is at the top of this composite picture in which the massive planet and its largest satellites have all been scaled to a common factor of 15 kilometers (9 miles) per picture element. The Solid State Imaging (CCD) system aboard NASA’s Galileo spacecraft obtained the Jupiter, Io and Ganymede images in June 1996, while the Europa images were obtained in September 1996. Because Galileo focuses on high resolution imaging of regional areas on Callisto rather than global coverage, the portrait of Callisto is from the 1979 flyby of NASA’s Voyager spacecraft.

Conclusioni
Quale miglior regalo si poteva fare al proprio “mecenate”? Sicuramente Galileo non riusciva ancora a rendersi conto della po rtata immensa delle sue scoperte. Aveva definitivamente distrutto la visione stereotipata, immutabile e rigida dell’Universo ed aveva offerto al suo Signore ed alla conoscenza dell’uomo un bene inimmaginabile.
Le foto del presente capitolo sono state tutte eseguite da uno degli autori  attraverso strumentazione amatoriale. Eppure le immagini, sia per la moderna tecnologia sia per l’utilizzo di raffinate elaborazioni al computer, sono enormemente più nitide e precise delle lontane osservazioni galileiane. Ma cosa avrebbe saputo fare Galileo se fosse nato al giorno d’oggi?

Domenico Licchelli, Vincenzo Zappalà

Per saperne di più:

I portatori di pori – Rossella Baldacconi

Biologia delle spugne
Da oltre 500 milioni di anni, i poriferi, comunemente conosciuti con il nome di spugne, popolano i mari del pianeta, arricchendoli con una varietà illimitata di forme e colori. Questi antichissimi animali pluricellulari vivono attaccati al substrato e posseggono un’organizzazione del corpo molto semplice, priva di tessuti, organi e apparati, ma altamente specializzata nel filtrare l’acqua del mare. E proprio dall’acqua, le spugne ricavano tutto ciò di cui hanno bisogno per vivere: l’ossigeno per respirare e minuscole particelle di cibo per alimentarsi.

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Le esili digitazioni della spugna Halichondria semitubulosa

Ogni spugna funziona come un potente ed efficientissimo biofiltro in grado di depurare fino a un litro d’acqua all’ora per ogni centimetro cubo di volume corporeo. Ciò implica che un esemplare di medie dimensioni, con un volume corporeo di un litro, può filtrare nei periodi di massima attività fino a 1000 litri d’acqua in un’ora!

L’osculo di Petrosia ficiformis

L’osculo di Petrosia ficiformis

La considerevole quantità d’acqua attraversa il corpo delle spugne fluendo all’interno di una vera e propria rete idrica in miniatura, un labirinto di migliaia e migliaia di camere e canali. L’acqua penetra all’interno di questo complesso sistema acquifero da innumerevoli piccoli pori, gli ostii, e fuoriesce da altri pori di maggiori dimensioni, gli osculi. La superficie di una spugna appare, quindi, completamente bucherellata da un’infinità di pori più o meno grandi. Non a caso spugna è sinonimo di porifero, il termine scientifico di origine latina che significa “portatore di pori”.

Sulla superficie della spugna Spirastrella cunctatrix sono ben visibili i canali esalanti che convergono negli osculi

Sulla superficie della spugna Spirastrella cunctatrix sono ben visibili i canali esalanti che convergono negli osculi

Esistono tre differenti organizzazioni del sistema acquifero di un porifero. Il tipo più primitivo, chiamato Ascon, consiste di un’unica cavità interna, lo spongocele. La semplice struttura a sacco è priva di canali acquiferi, per cui l’acqua giunge direttamente dagli ostii allo spongocele e da qui fuoriesce attraverso un solo osculo posto in posizione apicale. Nel tipo denominato Sycon, la parete dello spongocele si ripiega più volte incrementando in tal modo la superficie filtrante. L’acqua fluisce dagli ostii in una serie di canali inalanti, penetra nello spongocele e fuoriesce dall’osculo apicale. Più complessa è la struttura di tipo Leucon contraddistinta dalla comparsa di numerose camere specializzate per la filtrazione e da un articolato sistema di canali inalanti che conducono l’acqua in entrata dagli ostii alle camere e canali esalanti che convogliano l’acqua in uscita dalle camere agli osculi. Tale struttura è tipica della maggior parte delle specie viventi di spugne e consente un notevole ampliamento della superficie filtrante a parità di volume corporeo.

La volta di una grotta è impreziosita dalla colorata Oscarella lobularis

La volta di una grotta è impreziosita dalla colorata Oscarella lobularis

Il corpo delle spugne è estremamente semplice ed è costituito soltanto da poche tipologie cellulari.
La superficie esterna è rivestita da numerose cellule appiattite e affiancate, i pinacociti, che hanno la funzione di proteggere la spugna da traumi esterni. Le pareti interne del sistema acquifero sono, invece, tappezzate da moltitudini di cellule flagellate, i coanociti, che producono una corrente d’acqua continua grazie all’incessante movimento del loro lungo flagello, e trattengono le particelle di cibo presenti nell’acqua con prolungamenti simili a sottilissimi peli, i microvilli. Tra la superficie esterna e le pareti interne, esiste uno strato intermedio, il mesoilo, che contiene le strutture di sostegno della spugna e in cui si trovano gli archeociti, cellule indifferenziate implicate nella digestione delle particelle alimentari, nella riproduzione e nella rigenerazione di porzioni di spugna danneggiate. Nel mesoilo sono presenti anche cellule che accumulano sostanze di riserva, cellule che provvedono all’escrezione dei prodotti di rifiuto, cellule riproduttive e cellule che elaborano gli elementi che costituiscono lo scheletro della spugna.

Le digitazioni irregolari della spugna Tedania anhelans

Le digitazioni irregolari della spugna Tedania anhelans

Il corpo delle spugne è sostenuto dal collagene, la principale proteina strutturale del regno animale, che può trovarsi sotto forma di fibrille disperse nella matrice intercellulare o come spongina, quest’ultima arrangiata in fibre o filamenti. La maggior parte delle spugne possiede anche uno scheletro minerale costituito da microscopici “ossicini” di natura calcarea o silicea, le spicole. Esistono moltissime morfologie spicolari: spicole lisce o spinose, dritte o curve, con le estremità smussate o a punta, spicole a forma di bastoncino, spillo o stuzzicadenti, a forma di stella, sfera, chela, e tante altre ancora.

La spugna rete gialla Clathrina clathrus nella forma contratta

La spugna rete gialla Clathrina clathrus nella forma contratta

Le spugne sono organismi modulari, ovvero costituiti da numerose unità funzionali. Diversamente da quanto accade negli organismi coloniali, come nei briozoi e nelle ascidie, le unità funzionali non possono essere distinte l’una dall’altra.
Si riproducono per via sessuale o, più raramente, asessuale. La prima modalità implica l’elaborazione di gameti femminili, gli ovociti, e gameti maschili, gli spermi, racchiusi in gran numero all’interno delle cisti spermatiche. I gameti derivano dal differenziamento di coanociti o archeociti, e possono essere prodotti da individui separati nelle specie gonocoriche o dallo stesso individuo nelle specie ermafrodite. Molte spugne sono vivipare con fecondazione interna, altre ovipare con rilascio di gameti maschili e femminili direttamente nel mezzo acqueo e fecondazione esterna. Nella fecondazione interna, molto più comune, lo spermio emesso in acqua da una spugna, penetra attraverso gli ostii all’interno di un’altra spugna, e viene condotto ad un ovocita da una cellula coanocitaria trasformata all’occorrenza in cellula di trasporto. In seguito alla fecondazione, l’embrione va incontro ad una serie di divisioni cellulari fino alla formazione della larva. In alcune spugne, come in Spongia officinalis, la lenta maturazione degli embrioni si protrae per quasi un anno intero, iniziando in autunno con la fecondazione e terminando all’inizio dell’estate con il rilascio delle larve. Esistono differenti tipologie larvali a seconda della classe di spugne considerata, ma tutte vengono emesse dagli osculi della “mamma” spugna nell’ambiente marino e restano nel plancton per poche ore o per uno/due giorni. In questa fase planctonica, la minuscola larva non più grande di mezzo millimetro, si nutre delle proprie riserve e nuota alla ricerca di un substrato adatto su cui fissarsi, sfidando gli innumerevoli predatori e l’immensità del mare.
Infine, la riproduzione asessuale nelle spugne può essere di tre tipi: la frammentazione e la produzione di gemme o gemmule. La frammentazione è un processo che consiste nella produzione di nuovi individui a partire da frammenti del corpo di un organismo adulto. Spesso avviene per colamento di porzioni di spugna che sfruttano la forza di gravità per colare lentamente dall’organismo genitore fino a staccarsi e a cadere sul substrato dove originano nuove spugne perfettamente funzionali.

La riproduzione per colamento in Chondrosia reniformis

La riproduzione per colamento in Chondrosia reniformis

Le gemme sono protuberanze sferiche di qualche millimetro, che vengono elaborate da poche specie di spugne come quelle appartenenti al genere Tethya. Le gemme restano attaccate al corpo della spugna adulta attraverso una specie di sottilissimo cordone ombelicale finché si staccano e rotolano giù sviluppandosi autonomamente.

Gemme sulla superficie di Tethya aurantium

Gemme sulla superficie di Tethya aurantium

Infine, le gemmule sono corpi di resistenza sferici, grandi qualche centinaio di micron, costituiti da archeociti contenuti in una capsula di collagene. In genere, le gemmule sono elaborate dalle spugne che vivono in ambienti d’acqua dolce, spesso effimeri e soggetti ad essiccamento o congelamento. Gli archeociti delle gemmule restano inattivi per tutto il periodo sfavorevole e si moltiplicano e differenziano soltanto con il miglioramento delle condizioni ambientali.

Ecologia delle spugne

Nel Mar Mediterraneo sono state finora descritte oltre 600 specie appartenenti al phylum Porifera. Questa cifra non è definitiva ma tende ad aumentare di anno in anno. Molte delle spugne mediterranee sono specie endemiche, cioè esclusive del Mare Nostrum.
Le spugne dominano gli ambienti bentonici e colonizzano in gran numero ogni tipo di substrato. Crescono sulle rocce verticali o orizzontali, in ambienti illuminati o oscuri, sopra e sotto le pietre, ricoprono alghe e conchiglie, avvolgono i rizomi delle piante marine, incrostano con mille colori i relitti sommersi e persino i rifiuti gettati sul fondo del mare.

Ambiente di grotta semioscura caratterizzato da numerose specie di spugne tra cui la gialla Agelas oroides

Ambiente di grotta semioscura caratterizzato da numerose specie di spugne tra cui la gialla Agelas oroides

La loro caratteristica sessilità non ostacola nemmeno le poche specie che crescono sugli instabili fondi molli delle lagune o degli inospitali ambienti profondi. Insomma, le spugne crescono dappertutto, favorite dall’abbondanza del loro alimento che è presente naturalmente nell’acqua del mare.
La dieta dei poriferi comprende minuscole particelle di materia organica, molti batteri, alghe unicellulari e, raramente, piccoli protozoi del plancton. Tutti questi microscopici alimenti vengono in continuazione trattenuti durante la filtrazione dell’acqua del mare.
La filtrazione non è, però, la sola modalità di alimentazione. Alcune specie tipiche di ambienti estremi come le grotte oscure e i fondi batiali, appartenenti alla famiglia Cladorhizidae, si sono trasformate da innocue filtratrici a spugne carnivore che catturano le loro prede con filamenti armati di spicole dalla particolare forma ad uncino.
In molti casi, le spugne ricavano nutrimento anche dai microrganismi fotosintetici che ospitano all’interno del loro corpo, e con cui instaurano uno stretto rapporto simbiotico simile a quello che si stabilisce tra le madrepore e le zooxantelle nei mari tropicali. I simbionti fotosintetici sono per lo più cianobatteri, che forniscono alla spugna i prodotti della fotosintesi e l’ossigeno. In cambio, essa offre protezione, l’anidride carbonica necessaria alla fotosintesi e i prodotti di rifiuto, che vengono completamente riutilizzati dai microrganismi. I cianobatteri, inoltre, sono responsabili delle differenti colorazioni assunte da molte spugne che vivono in ambienti illuminati, e le proteggono da un eccessivo e dannoso irraggiamento solare. L’associazione tra spugna e simbionte è talvolta così stretta che gli esemplari adulti trasmettono negli embrioni un piccolo numero di microrganismi, cosicché i nuovi giovani esemplari siano già dotati dei loro fidati piccoli collaboratori.
All’interno delle spugne non si trovano solo organismi fotosintetici. Spesso il mesoilo di alcune specie è letteralmente imbottito da innumerevoli batteri eterotrofi che, in questo caso, vengono mangiati dalla spugna e costituiscono una riserva alimentare alternativa.
L’alimento fornisce l’energia necessaria per vivere e per sviluppare una forma corporea che spesso risulta strettamente correlata alle caratteristiche dell’ambiente. A volte, la stessa specie può mostrare forma completamente diversa a seconda che si trovi in acque calme o mosse. Nei luoghi caratterizzati da rilevante moto ondoso o da forti correnti, le spugne assumono per lo più forme incrostanti o creano placche spesse pochi centimetri, aderenti al substrato. Mancano del tutto le forme erette o ramificate, che verrebbero in breve strappate via dalle forze idrodinamiche. Dove le acque sono calme, invece, le spugne possono accrescersi in altezza, generando forme complesse e articolate con prolungamenti di vario genere, che le rendono particolarmente appariscenti.
Le spugne sono organismi sciafili, amanti dell’ombra, e prediligono vivere nelle grotte e negli anfratti della biocenosi del coralligeno. In questi ambienti, il nutrimento non manca ma lo spazio tende subito a scarseggiare divenendo l’unico fattore limitante. Ed è così che ha inizio una feroce competizione che coinvolge le varie specie di spugne ma anche altri organismi sessili come alghe, madrepore, ascidie e briozoi. La guerra silenziosa è combattuta a colpi di metaboliti tossici prodotti per fronteggiare i tanti competitori. Spesso, però, i composti chimici non bastano e le spugne vengono ricoperte da altri animali sessili o dagli stoloni di alghe particolarmente aggressive come la specie aliena Caulerpa cylindracea. Ma per loro fortuna gli antichi invertebrati tollerano gli organismi epibionti e sono molto plastiche riuscendo a frammentarsi a piacimento e a riunire i pezzi come fossero quelli di un puzzle.

L’alga verde invasiva Caulerpa cylindracea ricopre parzialmente la spugna nocciolina Chondrilla nucula

L’alga verde invasiva Caulerpa cylindracea ricopre parzialmente la spugna nocciolina Chondrilla nucula

Alcune spugne, dette perforanti, vivono all’interno della roccia o dentro conchiglie, talli di alghe coralline, scheletri di madrepore, coralli e briozoi, dove scavano articolati labirinti rimuovendo meccanicamente microscopiche scaglie e sciogliendo lentamente il carbonato di calcio con secrezioni altamente acide. Dalla roccia perforata sbucano solo le papille colorate in cui sono concentrati gli ostii e gli osculi. A volte, alcune specie perforanti tendono a fuoriuscire dalla roccia in cui vivono e a ricoprirla completamente fino ad assumere una forma dapprima incrostante e poi massiva. Nel corso della loro vita si trasformano, quindi, da demolitrici a spugne costruttrici che inglobano all’interno del loro corpo una grande quantità di sedimento, contribuendo a consolidare il substrato che ricoprono.

I differenti stadi della vita di Cliona viridis, da spugna perforante a incrostante e massiva

I differenti stadi della vita di Cliona viridis, da spugna perforante a incrostante e massiva

Alla morte delle spugne perforanti, i labirinti di microcavità scavati con così tanta solerzia, non restano disabitati ma vengono subito occupati da altre piccole spugne, chiamate insinuanti, che riempiono i buchi nella roccia impedendo che si disgreghi, proprio come le radici degli alberi stabilizzano i versanti dei rilievi particolarmente instabili.
Sebbene piene di spicole spinose e di metaboliti tossici, le spugne vengono mangiate da molti animali marini, primi fra tutti i molluschi gasteropodi. La bellissima ciprea Luria lurida integra la sua dieta con la spugna nocciolina Chondrilla nucula e il rognone di mare Chondrosia reniformis, mentre il notaspideo Tylodina perversa mangia solo la gialla Aplysina aerophoba. Sulla sua preda, il piccolo mollusco passa gran parte della sua esistenza, nascondendosi dai predatori e deponendo le uova raccolte in lunghi nastri, anch’essi gialli. Innumerevoli sono i nudibranchi che mangiano spugne, come la vacchetta di mare che preferisce la durissima Petrosia ficiformis da cui gratta con la radula lo strato superficiale ricco di nutrienti cianobatteri simbionti, o Phyllidia flava che scala lentamente le altissime ramificazioni di Axinella cannabina per poi mangiarle a pezzetti.

Il nudibranchio Peltodoris atromaculata all’interno dell’osculo di Petrosia ficiformis

Il nudibranchio Peltodoris atromaculata all’interno dell’osculo di Petrosia ficiformis

Il nudibranchio Phyllidia flava sulla sua preda preferita, la spugna Axinella cannabina

Il nudibranchio Phyllidia flava sulla sua preda preferita, la spugna Axinella cannabina

Molti nudibranchi frequentano le spugne perché trovano sulla loro superficie colonie di minuscole prede di cui vanno particolarmente ghiotti, come gli idrozoi e gli entoprocti. E sempre sopra le spugne sono spesso visibili le fragili braccia pelose delle stelle serpentine o i lunghi tentacoli colorati dei vermi terebellidi, organismi commensali sempre in cerca di piccole particelle di cibo.

Sulla spugna Ircinia variabilis stazionano le braccia piumose della stella serpentina Ophiothrix fragilis

Sulla spugna Ircinia variabilis stazionano le braccia piumose della stella serpentina Ophiothrix fragilis

L’inconfondibile Terpios fugax con una piccola stella sulla sua superficie

L’inconfondibile Terpios fugax con una piccola stella sulla sua superficie

Le spugne vengono mangiate anche da alcuni anellidi, crostacei, stelle marine come la rossa Echinaster sepositus, ricci, varie specie di pesci e dalle tartarughe che possono arricchire la dieta a base di meduse con le morbide masse spongine. I morsi inferti dai vari predatori non sono in genere mortali per gli esemplari colpiti, che riescono ad isolare e cicatrizzare le porzioni danneggiate.
Le spugne instaurano un’infinità di relazioni più o meno strette con altri organismi marini.
Forse una delle più conosciute è la simbiosi mutualistica tra la spugna rossa Crambe crambe e alcune specie di molluschi, in modo particolare Arca noae e Spondylus gaederopus. La spugna cresce sopra le conchiglie e sfrutta le correnti respiratorie dei molluschi ricche di residui di cibo. In cambio, mimetizza i molluschi e li protegge dai predatori perché diffonde composti tossici e repellenti.
Molte spugne crescono sulle valve della grande Pinna nobilis, su varie specie di pectinidi, sui mitili, sulle conchiglie dei murici e persino attorno ai tubi dei vermetidi.
Un’altra stretta associazione lega la specie Suberites domuncula a vari paguri. La spugna avvolge completamente le conchiglie in cui risiedono i piccoli crostacei che non sono più costretti a trovarsi una nuova dimora e ad esporre il molle addome ai tanti predatori. Ricambiano la cortesia trasportando la loro protettrice gratuitamente sul fondo del mare.
Altri crostacei portano a spasso frammenti di spugna che ritagliano accuratamente con le chele e si pongono sul carapace per mimetizzarsi. È questo il caso del granchio facchino Dromia personata, che stacca grosse porzioni spongine, a volta anche più grandi di lui, le trattiene con due arti specializzati per tale funzione, e le trasporta su di sé. I frammenti di spugna non degenerano ma continuano ad accrescersi insieme al crostaceo. Anche le granceole e i granchi decorati mascherano il loro carapace con pezzetti di spugne che rendono i crostacei simili a piccole rocce in movimento.

La simbiosi tra il granchio facchino Dromia personata e la spugna Dysidea avara

La simbiosi tra il granchio facchino Dromia personata e la spugna Dysidea avara

Ulteriori relazioni interspecifiche riguardano gli animali che sfruttano il corpo delle spugne come substrato o come rifugio. I polipi gialli delle margherite di mare, Parazoanthus axinellae, preferiscono crescere sulle ramificazioni di alcune specie del genere Axinella sviluppandosi in posizione più elevata rispetto al substrato, e più vantaggiosa per catturare i piccoli organismi del plancton di cui si cibano.

Un esemplare di Axinella damicornis completamente ricoperto dai polipi di Parazoanthus axinellae

Un esemplare di Axinella damicornis completamente ricoperto dai polipi di Parazoanthus axinellae

Anche la medusa delle spugne, Nausithoe punctata, sceglie di trascorrere la fase di polipo del suo ciclo vitale, ospitata all’interno del corpo di varie specie di spugne.

I polipi di Nausithoe punctata cresciuti all’interno di alcune spugne

I polipi di Nausithoe punctata cresciuti all’interno di alcune spugne

Esemplari giganteschi di Geodia cydonium o Sarcotragus foetidus rappresentano, invece, il rifugio di moltitudini di inquilini nascosti nei canali del loro sistema acquifero. In queste spugne “condominio” possono svilupparsi intere comunità di piccoli invertebrati, molte specie diverse di anellidi policheti, molluschi e crostacei.
Ogni spugna, quindi, rappresenta a seconda dei casi, un’importante componente del benthos, un filtratore in grado di depurare l’acqua del mare, un animale capace di modificare l’ambiente in cui vive, un organismo estremamente plastico, un abile competitore, una preda ed un predatore, un rifugio e un substrato dove attecchire, un fedele compagno di vita e un nucleo di biodiversità.
Nel Mar Mediterraneo, le spugne sono minacciate dal degrado degli ambienti marini in cui vivono. L’inquinamento e l’incessante intorbidamento delle acque, la devastazione dei fondi coralligeni e delle praterie di piante marine attuata dalla pesca con reti a strascico, la distruzione di substrato roccioso o di biocostruzioni ad opera dei pescatori di datteri. Non meno importanti sono i rischi legati alla competizione con un sempre maggior numero di alghe ed invertebrati alieni particolarmente aggressivi, e allo sfruttamento commerciale attuato dall’uomo in modo sconsiderato a partire dal XIX secolo. Infine, numerose anomalie termiche hanno provocato negli ultimi decenni estesi eventi di moria, che hanno interessato molte specie di spugne e di altri animali bentonici.

Un grande esemplare di Geodia cydonium , spugna protetta dalla legislazione vigente

Un grande esemplare di Geodia cydonium , spugna protetta dalla legislazione vigente

Un esemplare della spugna da bagno, Spongia officinalis, specie protetta dalla pesca incontrollata che ne ha ridotto drasticamente le popolazioni in tutto il Mediterraneo

Un esemplare della spugna da bagno, Spongia officinalis, specie protetta dalla pesca incontrollata che ne ha ridotto drasticamente le popolazioni in tutto il Mediterraneo

Per tutti questi motivi, alcune specie di spugne particolarmente vulnerabili e oggetto di raccolta indiscriminata, sono state inserite negli allegati II e III della Convenzione di Berna e nel protocollo SPA/BIO (Specially Protected Areas and Biological Diversity in the Mediterranean) della Convenzione di Barcellona.

tabella specie protette

Specie di Poriferi protette in Italia

Rossella Baldacconi – 2014

Per saperne di più: Spugne del Mediterraneo, di Rossella Baldacconi e Egidio Trainito

Il Genio di Martano e le farfalle del mare – Omaggio a Salvatore Trinchese – Domenico Licchelli

Gli appassionati di documentari sulla vita nel mare e, soprattutto, quanti si dedicano all’attività subacquea per osservarla e fotografarla rimangono senz’altro affascinati dall’incontro con degli strani animaletti, che assomigliano alle lumache senza conchiglia dei giardini, ma a differenza di queste hanno disegni e colorazioni fantastiche, ancora di più messe in evidenza dalla presenza, sui fianchi o sul dorso, di ciuffi di appendici che fluttuano nell’acqua contribuendo alla straordinaria eleganza di movimento dei loro proprietari.

Sono i nudibranchi, “lumache” marine come i Murici, le Cipree e i Coni che, a differenza di questi, hanno rinunciato alla conchiglia e respirano anche attraverso i ciuffi di appendici, dette papille.

I nudibranchi fanno parte dei molluschi Opistobranchi (da opisten = posteriore e branchion = branchie), una sottoclasse dei Molluschi Gasteropodi, cui appartengono appunto Murici, Cipree e Coni oltre a tanti altri dotati di conchiglia, che a loro volta costituiscono una delle classi del grande tipo dei Molluschi, che comprende anche i più noti Polpi, Calamari e Seppie.

Gli Opistobranchi hanno suscitato l’interesse scientifico di alcuni tra i più famosi biologi dell’Ottocento, anche italiani e tra questi due di particolare interesse per il nostro spigolare nel patrimonio scientifico salentino: Achille Costa, figlio di Oronzo Gabriele di cui abbiamo già parlato, e Salvatore Trinchese.

Salvatore Trinchese

Salvatore Trinchese

La biografia di Salvatore Trinchese, nato a Martano, in provincia di Lecce, nel 1836 e morto a Napoli nel 1897, è quella di un grande nel panorama della biologia ottocentesca. Infatti subito dopo la laurea in medicina, conseguita nel 1860 a Pisa dopo aver concluso brillantemente gli studi presso il Collegio S. Giuseppe di Lecce, egli ottenne una borsa di studio per il perfezionamento all’estero in scienze naturali che portò a termine a Parigi frequentando i più prestigiosi laboratori del momento.

Durante quel periodo egli definì i campi di ricerca cui avrebbe dedicato la sua attività futura e tra questi un posto preminente avrebbero avuto gli studi sulla struttura e la fisiologia dei Molluschi Gasteropodi con particolare attenzione agli Opistobranchi, tanto che Riccardo Cattaneo-Vietti così scrive nel volume celebrativo pubblicato nel 1989 a cura di Guido Cimino per conto della Biblioteca Civica di Martano:

“La ricerca scientifica di Salvatore Trinchese si intreccia indissolubilmente con la storia naturale di un poco conosciuto, ma interessante, gruppo di Molluschi: i Gasteropodi opistobranchi.

Chiamato alla direzione del Museo di Storia Naturale dell’Università di Genova nel 1865 in qualità di professore straordinario, inizia in questa città ad occuparsi di questi Molluschi marini che, con la collaborazione di Clemente Biasi, raccoglie lungo le scogliere della costa genovese. Trasferitosi prima a Bologna e successivamente presso l’Università napoletana, continua a studiare questo gruppo praticamente fino alla morte…

L’attenzione di Trinchese si rivolge a quegli Opistobranchi che presentano sul dorso una serie di papille, chiamate cerata, nelle quali spesso si inseriscono i diverticoli epatici e che talvolta hanno anche funzione respiratoria. Questo sottogruppo, allora genericamente riunito sotto il nome di Eolididi, è formato da almeno due diversi ordini di Opistobranchi, gli Ascoglossa e i Nudibranchia.”

Nelle sue ricerche sulla struttura dei vari organi dei molluschi e sulle loro funzioni Trinchese sfrutta sapientemente la sue notevoli doti di microscopista, ma non trascura i problemi riguardanti la classificazione, giungendo a proporre nuovi generi e nuove specie, alcuni dei quali hanno ricevuto conferma dagli studi successivi.

Per sottolineare la grande importanza degli studi condotti da Trinchese così continua Cattaneo-Vietti:

“In alcuni suoi lavori vengono anche riportate informazioni sulla frequenza delle varie specie in determinate aree (ad esempio lungo il litorale genovese); e ciò è molto importante per comprendere come si è modificata la situazione ambientale negli ultimi cent’anni lungo le coste mediterranee per effetto dell’antropizzazione del litorale. Molte specie segnalate da Trinchese sono diventate oggi rare, probabilmente a causa delle modificazioni avvenute nell’orizzonte superiore del piano infralitorale, come già mise in evidenza Haefelfinger (1963).…

Purtroppo il fatto che abbia pubblicato in lingua italiana è stato un serio impedimento alla diffusione e comprensione della sua opera.”

I risultati di 25 anni di ricerche condotte da Trinchese sui molluschi tra Genova e Napoli sono contenuti in 46 pubblicazioni, e l’opera principale porta il titolo Aeolididae e famiglie affini del porto di Genova, illustrata con 115 tavole prevalentemente a colori fatte di sua mano, pubblicata in due parti nel 1877 e nel 1881, che conseguì il premio reale dell’Accademia dei Lincei (alcune sono riportate di seguito).

Per comprendere la passione da lui posta nello studio di questi Molluschi basta leggere come lui si rivolge al lettore della sua opera:

“I naturalisti che studiarono prima di me l’interessante famiglia delle Aeolididae, o non si curarono di rappresentarle o le rappresentarono in modo rozzo e infedele. Se si eccettuano alcuni schizzi veramente belli di C. Semper e di Alder e Hanckoc, si può affermare, senza pericolo di dare nell’esagerato, che tutte le figure di Aeolididae pubblicate dai miei predecessori sono affatto inutili. Si desiderano in esse quei caratteri di forma e di colore che guidano con sicurezza il naturalista nel riconoscere le specie. Per mettere in evidenza siffatti caratteri, ho rappresentato uno o due individui di ogni specie come li vedevo osservandoli col microscopio binoculare di Nachet. Tenendo presenti le mie figure, il mio inserviente determina le specie colla sicurezza d’un zoologo provetto. Ciò nonostante, esse non si possono dire veramente belle, poiché non ritraggono con pari fedeltà i colori. L’azzurro di queste creature è zaffiro orientale, il giallo è oro di coppella e il bianco neve intatta ripercossa dai raggi del sole. I loro colori hanno un non so che di vivo, di animato, di luminoso che noi non possiamo ritrarre fedelmente colle smorte tinte delle nostre tavolozze. I colori delle farfalle e delle paradisee sono certamente splendidi, ma non hanno il fascino di quelli veduti attraverso un velo d’acqua salata.

Le Aeolididae pur ora tolte dal mare, sono una delle più splendide manifestazioni del bello; ma tenute in cattività negli acquari, perdono in breve la vivacità dei loro colori.”……..

(estratto da Non solo Barocco)

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Molluschi Aeolididei del porto di Genova. Tavole opera di Salvatore Trinchese. Cortesia Dott. Lorenzo Carlino

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Molluschi Aeolididei del porto di Genova. Tavole opera di Salvatore Trinchese. Cortesia Dott. Lorenzo Carlino

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Molluschi Aeolididei del porto di Genova. Tavole opera di Salvatore Trinchese. Cortesia Dott. Lorenzo Carlino

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Molluschi Aeolididei del porto di Genova. Tavole opera di Salvatore Trinchese. Cortesia Dott. Lorenzo Carlino

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Molluschi Aeolididei del porto di Genova. Tavole opera di Salvatore Trinchese. Cortesia Dott. Lorenzo Carlino

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Molluschi Aeolididei del porto di Genova. Tavole opera di Salvatore Trinchese. Cortesia Dott. Lorenzo Carlino

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Molluschi Aeolididei del porto di Genova. Tavole opera di Salvatore Trinchese. Cortesia Dott. Lorenzo Carlino

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Molluschi Aeolididei del porto di Genova. Tavole opera di Salvatore Trinchese. Cortesia Dott. Lorenzo Carlino

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Molluschi Aeolididei del porto di Genova. Tavole opera di Salvatore Trinchese. Cortesia Dott. Lorenzo Carlino

Ai giorni nostri la possibilità di portare sott’acqua attrezzature fotografiche sofisticate, corredate di obiettivi e lenti specifiche, consente ai fotografi subacquei la documentazione fedele della straordinaria bellezza delle varie specie di nudibranchi presenti nei siti di immersione. Abbiamo perciò la possibilità di comprendere ed apprezzare lo straordinario lavoro di Salvatore Trinchese direttamente sul campo.

Nel Mediterraneo si conoscono 272 specie di nudibranchi, molte delle quali descritte solo negli ultimi decenni. Ancora oggi se ne scoprono di nuove e si rivedono le classificazioni grazie soprattutto all’utilizzo delle tecniche di analisi molecolare.

La ricerca e la documentazione degli opistobranchi salentini sta diventando sempre più una delle attività preferite dai membri dell’Associazione Culturale Salento Sommerso. Negli anni abbiamo documentato la presenza di parecchie decine di specie già note e segnalato altre di cui non se conosceva ancora la presenza nelle nostre acque (sono in preparazione alcuni lavori al riguardo che pubblicheremo a breve su riviste specializzate del settore).

Ma quali sono le caratteristiche che rendono così affascinanti questi straordinari animaletti?

T.E.Thompson scrisse che “Gli opistobranchi stanno ai molluschi come le orchidee alle angiosperme e le farfalle agli artropodi”

A differenza di molti dei loro viscidi omologhi terrestri i nudibranchi sono creature incredibilmente belle! Se si ha la fortuna di avvistarne uno mentre striscia sul fondo o abbarbicato su qualche cespuglio di idrozoi, basta osservarlo per qualche minuto per capire perché molti scienziati e fotografi subacquei sono affascinati da queste creature delicate e graziose, non a caso definite le farfalle del mare.

Cratena peregrina alla ricerca di colonie di Eudendrium di cui si nutre

Cratena peregrina alla ricerca di colonie di Eudendrium di cui si nutre

I nudibranchi sono molluschi gasteropodi, appartengono cioè allo stesso phylum che comprende molte conchiglie che si possono rinvenire lungo le spiaggie dopo una mareggiata. Contrariamente a queste, però, i nudibranchi hanno evoluto un aspetto del corpo molto diverso in quanto il loro stile di vita non richiede più di circondarsi di un guscio protettivo, come vedremo più avanti. Il corpo è morbido e carnoso, si muovono facendo leva su un lungo piede muscolare (in modo simile alle lumache di terra) ed hanno delle appendici cefaliche dette rinofori che usano con funzione tattile e per percepire segnali chimici dall’ambiente circostante.

 Felimare picta o doride dipinto, un colosso tra i nudibranchi potendo raggiungere i 20cm di lunghezza

Felimare picta o doride dipinto, un colosso tra i nudibranchi potendo raggiungere i 20cm di lunghezza

Esemplare di discrete dimensioni di Felimida purpurea

Esemplare di discrete dimensioni di Felimida purpurea

Alcuni nudibranchi hanno sulla schiena, verso la zona posteriore del corpo, un folto gruppo di branchie che usano per la respirazione e che possono essere ritratte (Doridini). Altri hanno strutture tentacolari su tutto il corpo, sempre esposte, dette cerata, che sono utilizzate sia per la respirazione che per la difesa e che contengono anche rami del tratto digestivo (Aeolidini).

Juvenile di Felimare picta con in primo piano il ciuffo branchiale

Juvenile di Felimare picta con in primo piano il ciuffo branchiale

Coppia di Coryphella pedata intente a cibarsi di idrozoi del genere Eudendrium

Coppia di Flabellina pedata intente a cibarsi di idrozoi del genere Eudendrium. Gli evidenti cerata terminano con le punte bianche

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Splendido esemplare di Dondice banyulensis in atteggiamento difensivo con i cerata sollevati

Bell'esemplare di Felimare tricolor. Sono evidenti i rinofori, il ciuffo branchiale e lapertura genitale

Bell’esemplare di Felimare tricolor. Sono evidenti i rinofori, il ciuffo branchiale e l’apertura genitale

Vivono sui fondali di tutto il mondo sotto la zona intertidale, da pochi centimetri dalla superficie fino a 15-20 metri ed oltre. Scivolano usando il loro piede muscolare su sedimenti, alghe, rocce, spugne, coralli e altri substrati, spesso adottando colorazioni e textures simili a quelle di tali substrati al fine di ottenere una mimetizzazione molto efficace. Se si tiene conto poi che per quasi tutte le specie mediterranee le dimensioni sono dell’ordine del cm, è evidente che si richiede al fotografo ed al naturalista che li cercano un grande spirito di osservazione ed una pazienza infinita.

Platydoris argo ben mimetizzati sul fondale

Platydoris argo ben mimetizzati sul fondale

I nudibranchi sono carnivori e si nutrono di ogni sorta di creature (idroidi, tunicati, spugne, anemoni, solo per citarne alcuni) e talvolta anche di altri nudibranchi. All’interno dell’apparato boccale hanno una particolare struttura dentata, chiamata radula, specializzata per un certo tipo di alimento, che ne costituisce un importante elemento di differenziazione (anche se a volte non sufficiente per una corretta classificazione tassonomica).

Flabellina ischitana intenta a predare i polipi di un idroide del genere Eudendrium (Eudendrium racemosum)

Flabellina ischitana intenta a predare i polipi di un idroide del genere Eudendrium (Eudendrium racemosum)

Poiché i nudibranchi non hanno guscio protettivo, hanno bisogno di altri tipi di protezione dai potenziali predatori. Essi adottano varie strategie: alcuni si mimetizzano perfettamente con il substrato, altri al contrario esibiscono colori molto vivaci e ben visibili ai predatori per avvertirli della loro tossicità (colorazione aposematica). Quest’ultima è così efficiente che viene adottata anche da molti vermi piatti come i Platelminti che, ad una prima occhiata, possono essere scambiati per nudibranchi (la forma del corpo però svela immediatamente che si tratta di un travestimento).

 Cuthona caerulea, un gioiello concentrato in pochi millimetri

Cuthona caerulea, un gioiello concentrato in pochi millimetri

Prostheceraeus giesbrechtii, appartenente al phylum dei platelminti, o vermi piatti. Sono un ottimo esempio di mimetismo batesiano, nel senso che imitano le colorazioni dei tossici nudibranchi per evitare di essere predati

Prostheceraeus giesbrechtii, appartenente al phylum dei platelminti, o vermi piatti. Sono un ottimo esempio di mimetismo batesiano, nel senso che imitano le colorazioni dei tossici nudibranchi per evitare di essere predati

Thuridilla hopei. Anche se potrebbe sembrare a prima vista un nudibranco in realtà è un opistobranco sacoglosso

Thuridilla hopei. Anche se potrebbe sembrare a prima vista un nudibranco in realtà è un opistobranco che appartiene all’ordine dei sacoglossi

Alcuni nudibranchi possono anche secernere sostanze chimiche tossiche o acide quando sono disturbati. Gli Aeolidini poi, che si nutrono di cnidari, un gruppo che comprende anemoni, coralli e idroidi, hanno sviluppato un’altra incredibile abilità. Gli cnidari posseggono speciali cellule urticanti a forma di arpione, dette nematocisti, che utilizzano a scopo difensivo. I nudibranchi Aeolidini riescono a cibarsene senza causare l’attivazione delle nematocisti per poi trasferirle fino alle punte dei cerata dove, conservandole in apposite strutture dette cnidosacchi, diventano un efficace meccanismo di difesa acquisito.

I nudibranchi sono tutti ermafroditi simultanei, possiedono cioè sia gli organi riproduttivi maschili che femminili, con le aperture genitali sul lato destro. In certi periodi non è raro assistere a fecondazioni incrociate che portano al rilascio di masse di uova, di solito a forma di spirale o di nastri arrotolati, generalmente deposte in prossimità o direttamente sull’animale di cui si nutrono.

Felimida krohni in fase riproduttiva. Le dimensioni dei due esemplari sono inferiori al cm

Felimida krohni in fase riproduttiva. Le dimensioni dei due esemplari sono inferiori al cm

I loro cicli vitali sono legati a vari fattori ambientali tra cui la temperatura dell’acqua e, ovviamente, la disponibilità del loro alimento preferito ma, seppur con una grande variabilità, è possibile incontrare qualche esemplare delle varie specie durante tutto l’anno. II titolo di presenzialista spetta alla Peltodoris atromaculata o vacchetta di mare, facilmente visibile sulla spugna Petrosia ficiformis di cui si nutre avidamente. Nel coralligeno, in grotta e in tutti gli ambienti in cui vi è la spugna ospite, questo nudibranco è una presenza pressochè costante.

Coppia di Peltodoris atromaculata, dette anche vacchette di mare, intente nell'ovopositura

Coppia di Peltodoris atromaculata, dette anche vacchette di mare, intente nell’ovopositura. Notare la superficie biancastra della spugna Petrosia ficiformis messa a nudo dai nudibranchi con la loro radula

Per individuare buona parte degli altri nudibranchi è indispensabile adottare una filosofia di immersione da naturalisti, in cui l’osservazione minuziosa di ogni centimetro quadrato di fondale è il modus operandi più consono ed efficace. Il premio che si riceve, però, è l’osservazione nel loro habitat di alcune delle più spettacolari ed intriganti creature del mare, che non mancheranno di affascinare il subacqueo attento. E anche quando il manometro  imperiosamente lo costringerà a risalire in superficie, non vedrà l’ora di tornare sott’acqua per godere ancora una volta di una delle più splendide manifestazioni del bello, per dirla con le parole del grande Salvatore Trinchese.

Domenico Licchelli, Livio Ruggiero – 2014

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