La costellazione del Cigno – Anna Galiano

Una tra le costellazioni facilmente riconoscibili e dominanti nelle notti estive boreali è la costellazione del Cigno. Come suggerisce il nome, si presenta come un cigno ad ali spiegate che sovrasta uno sfondo costellato da molte deboli stelle della Via Lattea, osservabili in assenza di inquinamento luminoso.
Una parte della costellazione, formata dalla coda e dall’ala occidentale è circumpolare, mentre diviene completamente visibile da giugno (a Nord-Est) a novembre (a Nord-Ovest).
Via Lattea nel CignoIl corpo principale del Cigno è formato da cinque stelle di luminosità intensa, che conferiscono a questa costellazione il nome alternativo di “Croce del Nord”, in opposizione alla “Croce del Sud” visibile nell’emisfero australe.
La coda del Cigno è individuata dalla stella più luminosa della costellazione, Deneb (α Cygni), di magnitudine 1.25 e distante da noi 3000 anni luce. Deneb, insieme con i due astri più brillanti delle costellazioni dell’Aquila e della Lira, rispettivamente Altair e Vega formano un asterismo conosciuto come “Triangolo estivo”, il secondo dopo il “Grande Carro” a venir usato come orientamento nel cielo.

L’ala occidentale della costellazione è individuata da Ruch (δ Cygni), una stella tripla dalla magnitudine complessiva di 2.9, mentre nell’ala orientale si trova Gienah (ε Cygni), una stella gigante di magnitudine 2.45. Le due ali si uniscono su Sadr (ɣ Cygni), un’enorme stella con un raggio di circa 150 volte quello del Sole.
La testa del Cigno è sormontata da Albireo (β Cygni), una tra le stelle doppie più note, con una magnitudine complessiva di 3.35. I due astri, la cui separazione angolare è di 35’’, hanno colori differenti e questo permette di distinguerli anche con telescopi di ridotta risoluzione: la stella primaria ha un colore arancio mentre la secondaria è bianco-azzurra.
Un’altra stella degna di nota è 61 Cygni, distante 11 anni luce: è stata la prima stella doppia di cui è stata calcolata la distanza dalla terra con una buona precisione, avvenuta ad opera di Bessel nel 1838.
Vi è poi 16 Cygni, un sistema stellare triplo composto da due stelle simili al Sole, delle nane gialle (16 Cygni A e 16 Cygni B) e da una nana rossa (16 Cygni C). E’ stato scoperto un pianeta extrasolare orbitante attorno a 16 Cygni B con una massa pari a 1.5 volte quella di Giove.
Poiché questa costellazione giace sulla Via Lattea, racchiude altri affascinanti e misteriosi oggetti celesti:

  • nebulose, tra cui la NGC 6888 (Nebulosa Crescente), NGC 6960 (Nebulosa Velo) e NGC 7000 (Nebulosa Nord America), distante 3° da Deneb e con una luminosità molto tenue;
  • ammassi aperti, come M29 e M39;
  • Cygnus X-1, una sorgente continua di raggi X scoperta negli anni ’70. Tra le varie ipotesi vi è quella che sostiene la presenza di un buco nero nel suo centro.

Vi è una regione oscura che da Deneb si estende parallelamente lungo il corpo del Cigno, nota come “Fenditura del Cigno” (Cygnus Rift). Questa è la conseguenza della presenza di materiale interstellare, come polveri e gas, che assorbono la radiazione luminosa proveniente dalle stelle restrostanti.
Il nome della costellazione è legato alla mitologia greca, più precisamente al mito di Zeus e Leda. Una di queste versioni narra che il re degli dei, invaghitosi di Leda, moglie del re di Sparta Tindareo, volle vincere le resistenze della donna trasformandosi in cigno. Da quell’unione Leda partorì Castore e Polluce, Clitemnestra ed Elena. Castore e Polluce sono le stelle principali della costellazione dei Gemelli di cui ci occuperemo in futuro.
Per visualizzare le mappe e trovare gli oggetti celesti consigliati è opportuno dotarsi di un planetario software come Stellarium

De Stella Nova (alias Nova Delphini 2013) – Anna Galiano

Una sera d’estate, passeggiando in riva al mare, alzate lo sguardo, come al solito, verso la Via Lattea. Le nubi di polvere e le pallide distese stellari ne tracciano il profilo consueto ma ad un certo punto notate una stella in una posizione in cui fino alla sera prima non c’era niente. In epoca di connessione in rete perenne ci vuol poco per recuperare da internet un’immagine di archivio di quella regione celeste e, con grande sorpresa, scoprire che effettivamente la stella che brilla sotto i vostri occhi è una stella ospite, una Nova, come la definirono gli antichi. Potrebbe trattarsi anche di una Supernova ma non potete stabilirlo semplicemente ad occhio nudo. La probabilità che si verifichi un evento del genere è piuttosto bassa ma non nulla, data l’agguerritissima concorrenza di survey automatiche e cacciatori di Novae che scandagliano il cielo in ogni notte serena.

nova delphiniQuello che si può certamente fare con successo è gustarsi una recentissima scoperta che sta impreziosendo ulteriormente il nostro cielo, la Nova Delphini 2013.

Contrariamente a quanto farebbe supporre il nome, una Nova non è realmente una nuova stella, ma il risultato di un’esplosione che rende visibile un astro altrimenti troppo debole per essere percepito perfino con i telescopi di piccola apertura. Il fenomeno “nova” è in effetti una potente esplosione nucleare che comporta un repentino aumento della luminosità della stella di circa un milione di volte e che riguarda una nana bianca che fa parte di un sistema binario la cui secondaria è una nana rossa o arancione e più raramente una gigante.

Differentemente dall’esplosione di Supernova, processo che avviene una sola volta e che distrugge completamente la stella coinvolta, quello di una Nova riguarda gli strati esterni, per cui la stella rimane sostanzialmente integra, tanto che il processo può anche ripetersi in futuro. Conosciamo più in dettaglio i protagonisti della nostra storia.

Le nane rosse sono stelle con una massa molto ridotta, compresa tra 0.075 e 0.50 masse solari, di tipo spettrale M. Sono sicuramente le più comuni anche se difficili da osservare per la loro bassa luminosità. Hanno le dimensioni minime che permettono di innescare processi di fusione nucleare di Idrogeno in Elio al loro interno e pertanto appartengono alla sequenza principale del diagramma di Hertzsprung-Russell. Le temperature relativamente basse all’interno del nucleo permettono la lenta produzione di Elio che, mediante moti convettivi, viene trasportato in superficie generando una luminosità pari a circa il 10% di quella del Sole. La vita media di queste stelle è tanto più lunga quanto più piccola è la propria massa. Infatti stelle con una massa inferiore alle 0.8 masse solari non hanno ancora lasciato la sequenza principale il che si rivela un utile indicatore per stimare l’età degli ammassi stellari che le contengono. Le nane arancioni sono delle stelle di classe spettrale K e luminosità V appartenenti alla sequenza principale e sono una via di mezzo tra le nane rosse (classe spettrale di tipo M) e le nane gialle (classe spettrale di tipo G). Le nane arancioni hanno una massa di 0.6-0.9 masse solari ed una temperatura di 3900-5200 Kelvin. Queste stelle sono di particolare interesse poiché la loro stabilità nella sequenza principale è una condizione che facilita la presenza di pianeti simili alla Terra orbitanti attorno ad esse e quindi possibilità di vita extraterrestre. Le giganti sono delle stelle di elevate dimensioni e luminosità e si formano in uno stadio avanzato dell’evoluzione stellare.

Il ciclo evolutivo delle stelle in funzione della loro massa (Disegno di Michelangelo Miani)

Le stelle giganti si distinguono in: giganti rosse, giganti gialle e giganti blu. Le giganti rosse sono dotate di masse medio-basse (tipicamente tra 0.3 e 8 masse solari) e temperatura superficiale di circa 4000 Kelvin. Le giganti rosse più comuni sono quelle disposte nel red-giant-branch (RGB) del Diagramma HR, le quali continuano a bruciare Idrogeno in Elio in strati esterni attorno al nucleo composto da Elio inerte. Hanno un raggio di decine o centinaia di volte rispetto a quello del Sole ed una luminosità cento volte superiore rispetto a quella della nostra stella. Modelli di evoluzione stellare e le relative simulazioni mostrano che nel momento in cui il nostro Sole, tra circa 5 miliardi di anni, cesserà di bruciare Idrogeno nel nucleo diverrà un gigante rossa e aumenterà drasticamente le proprie dimensioni. La Terra, come anche Mercurio e Venere, finirà inglobata nella sua atmosfera e andrà incontro alla propria fine disintegrandosi. L’esempio più noto di gigante rossa è Aldebaran, la stella principale della costellazione del Toro.

Le giganti gialle hanno temperature intermedie per questo sono di classe spettrale G, F e a volte A. Vi è una minore quantità di giganti gialle rispetto alle giganti rosse poiché il tempo trascorso dalle stelle in questa fase è relativamente breve. Queste stelle hanno una luminosità molto elevata e possono portare alla formazione di stelle variabili, mentre giganti gialle di massa moderata possono divenire delle giganti rosse. Le giganti blu, sono di classe spettrale O e B pertanto hanno temperature pari o superiori a 10000 Kelvin e un raggio di 5-10 volte quello solare. Sono estremamente rare tanto da trovarle quasi esclusivamente nelle Associazioni OB (la cintura di Orione è parte di una delle più note).

Una nana bianca è lo stadio finale di una stella di medio-piccole dimensioni. Pur avendo dimensioni confrontabili con la Terra ha una massa pari o simile a quella del Sole (1030Kg), il che implica che si tratta di un oggetto particolarmente denso e con gravità superficiale elevatissima. Si ritiene che quando una stella di medio-piccole dimensioni cessa di bruciare, all’interno del nucleo, le proprie riserve di Idrogeno in Elio giunge al termine della propria vita nella sequenza principale e pertanto si espande divenendo una gigante rossa che trasforma Elio in Carbonio e Ossigeno mediante un “processo triplo-alfa”. Se la gigante rossa non ha all’interno del nucleo una temperatura tale da bruciare Carbonio, allora avverrà l’espulsione di materiale degli strati esterni, generando una nebulosa planetaria nel cui centro rimarrà una massa inattiva di Carbonio e Ossigeno, ossia la nana bianca. Se la massa della stella iniziale è compresa tra 8 e 10.5 masse solari, la gigante rossa avrà una temperatura interna al nucleo tale da bruciare Carbonio ma non Neon, quindi si formerà una nana bianca composta da Ossigeno-Neon-Magnesio. Una nana bianca appena formata è molto calda ma poiché non si innesca più alcuna reazione al suo interno perde gradualmente la propria energia termica divenendo una nana nera. Comunque il tempo necessario affinché una nana bianca diventi una nana nera è stato stimato superiore all’età dell’Universo (13.8 miliardi di anni).

Artistic view of a nova explosion depicting the binary stellar system. Credit: David A Hardy and STFC

Adesso che i nostri attori sono in scena ritorniamo alla loro rappresentazione principale: l’esplosione di una Nova. In base alla periodicità del fenomeno e alle caratteristiche con la quale questo processo avviene, si distinguono le Novae classiche e le Novae periodiche.

La Nova classica è un processo in cui una stella inattiva, come una nana bianca costituita da un nucleo di Carbonio e Ossigeno, assorbe (grazie all’elevata gravità superficiale) del materiale come l’Idrogeno dalla stella compagna con la quale costituisce un sistema binario. L’Idrogeno fluisce sotto forma di disco dalla stella secondaria alla nana bianca per poi depositarsi sulla superficie di quest’ultima. L’Idrogeno e anche un po’ di Elio vengono compressi e producono un aumento di temperatura degli strati sottostanti di circa 10 Milioni di Kelvin. Questo dà luogo alla combustione di Idrogeno in Elio nello strato superiore, comportando una repentina reazione nucleare. Le conseguenze di questo processo sono un aumento di luminosità e l’espulsione di materiale che si espande progressivamente nello spazio circostante. Alcune Novae raggiungono velocemente la loro luminosità massima, vi restano per pochi giorni per poi calare di un fattore 10 in circa tre mesi, come è accaduto per la Nova Persei 1901.

GK Persei 1901 – view of the ejecta a century after the nova explosion. Credit: Adam Block/NOAO/AURA/NSF

Queste sono le “Novae veloci”. La luminosità della stella coinvolta può variare da 6 fino a 19 magnitudini rispetto al livello originario. Le “Novae lente” raggiungono il massimo punto di luminosità in un periodo di tempo di qualche settimana o mese, successivamente diminuiscono la propria intensità gradualmente mediante delle fluttuazioni (evidenziando in questo modo un secondo picco di luminosità) per poi ridurla velocemente. La luminosità di queste Novae si riduce di un fattore 10 in circa 150 giorni.

In più alcune Novae lente mostrano una luminosità minima per un periodo compreso tra 2 e 5 mesi: molto probabilmente la condensazione di polveri attorno alla stella prodotti dall’esplosione non permette il passaggio della luce visibile. Il caso più conosciuto è la Nova Herculis 1934.

Vi sono inoltre le “Novae molto lente” che raggiungono un massimo di luminosità in diversi anni per poi diminuire la propria intensità in intervalli di tempo analoghi. Il caso più noto coinvolge RT Serpentis nel 1915 che ha aumentato la propria magnitudine fino ad un valore 10 e rimanendo costante per circa 10 anni. Ha infine raggiunto una magnitudine 14 nel 1942.

Hubble Space Telescope imaged the double-star system T Pyxidis. This high-resolution image shows that the shells are more than 2,000 gaseous blobs packed into an area that is 1 light-year across. Resembling shrapnel from a shotgun blast, the blobs may have been produced by the nova explosion, the subsequent expansion of gaseous debris, or collisions between fast-moving and slow-moving gas from several eruptions. False color has been applied to this image to enhance details in the blobs.

Le Novae periodiche sono simili alle Novae classiche, ma diverse analisi hanno evidenziato un’emissione di energia proveniente dall’esplosione superiore a quella che si osserva visivamente. In genere si ha un aumento di luminosità dalle 4 alle 9 magnitudini e il periodo di tempo dell’esplosione dura decine di anni. Una Nova ricorrente è RS Ophiuchi la quale è esplosa per sei volte in più di un secolo, negli anni 1898, 1933, 1958, 1967, 1985 e 2006. Questa ha aumentato la propria magnitudine da 12.5 a 4.8, raggiungendo il picco massimo in 24 ore per poi diminuire in un centinaio di giorni. RS Ophiuci ha brillato debolmente per circa 700 giorni dopo ogni esplosione.

Sono state classificati due tipi di Novae periodiche: Novae periodiche di Tipo A, ossia improvvisi esplosioni termonucleari che coinvolgono una nana bianca e che vengono osservate per più di una volta; Novae periodiche di Tipo B, dovute principalmente ad un’instabilità ed un’esplosione del disco di accrescimento, tipico delle stelle U Geminorum.

Con questo bagaglio di informazioni sicuramente osserveremo con altri occhi la Nova Delphini 2013 che promette di dare spettacolo ancora a lungo.

La bella Andromeda – Giulia Alemanno e Anna Galiano

Come avrete già notato leggendo i nostri precedenti articoli, molti di quei puntini luminosi che popolano il nostro cielo ci raccontano affascinanti storie mitologiche di divinità e antichi eroi. I nostri antenati hanno, infatti, assegnato alle stelle e ad altri oggetti del nostro cielo i nomi dei protagonisti di queste storie in modo che tutti potessero un giorno conoscere le loro imprese. Così ad un insieme di stelle fu dato il nome di costellazione di Andromeda, una bella principessa che a causa della vanità della madre ebbe una vita travagliata. La costellazione di Andromeda è nota soprattutto per la presenza di una macchiolina biancastra ai suoi confini. Anch’essa è visibile ad occhio nudo poiché ha una magnitudine pari circa a 4.

Ma prima di vedere di cosa si tratta raccontiamo brevemente la storia della nostra principessa. Il racconto coinvolge altre tre costellazioni del cielo boreale poste nelle vicinanze della costellazione di Andromeda e sono Perseo, Cefeo e Cassiopeia. Re Cefeo e la regina Cassiopeia regnavano in Etiopia con la loro figlia, la principessa Andromeda. Cassiopeia era una donna molto vanitosa, passava il tempo a specchiarsi e si vantava di essere più bella delle Nereidi, bellissime ninfe marine immortali. Tra queste vi era Teti, la moglie di Nettuno nonché madre di Achille, la quale indispettita dalla vanità della regina decise di punirla chiedendo aiuto al dio del mare. Nettuno inviò il mostro marino Ceto a distruggere le coste del regno di Cefeo. Dopo aver consultato l’oracolo di Ammone, re Cefeo capì che l’unica soluzione era quella di offrire la sua figlia Andromeda in sacrificio. La principessa venne incatenata nuda ad uno scoglio e offerta in pasto al mostro marino Ceto. Ma si sa la storia di una principessa non può certo finire così. Come in tutte le storie che si rispettino l’arrivo del principe è di dovere. Ed ecco volare in cielo, con sandali alati avuti in dono dal dio Mercurio, l’eroe Perseo. Con in mano la testa di Medusa sconfitta poco prima, Perseo si precipitò dalla fanciulla e le chiese cosa stava succedendo. Affascinato dalla storia e dalla bellezza della ragazza Perseo si recò dapprima dai suoi genitori e la chiese in sposa (mentre la poverina aspettava nelle grinfie del mostro marino) e una volta ottenuto il loro consenso tornò a liberarla dalla scogliera. I due si sposarono e dopo alcune vicissitudini che coinvolsero Fineo, un giovane a cui tempo prima era stata promessa in matrimonio Andromeda, scapparono in volo raggiungendo il loro regno situato tra la Palestina e il Mar Rosso.

Dopo questa affascinante storia torniamo alla macchiolina biancastra posta nelle vicinanze della costellazione di Andromeda per vedere di cosa si tratta. Dapprima venne classificata come “piccola nube” dall’arabo Abd al-Rahman al-Sufi attorno alla metà del novecento. Dopo quasi un millennio, nel 1864, grazie allo studio spettrale, l’astrofisico William Huggins notò che lo spettro dell’oggetto in questione somigliava più a quello delle stelle piuttosto che allo spettro delle altre nebulose. Esiste, infatti, un’evidente differenza tra gli spettri delle stelle e quelli delle nebulose. Le stelle sono caratterizzate generalmente da uno spettro continuo solcato da righe scure, dette righe di assorbimento, mentre gli spettri delle nebulose presentano prevalentemente righe brillanti. Tuttavia la sua natura stellare non era stata provata del tutto e molti pensavano ancora che si trattasse di una nebulosa. Nel 1920 ci fu il Grande Dibattito fra l’australiano Harlow Shapley e Heber Curtis, astronomo statunitense, riguardante le dimensioni della Via Lattea e la natura delle nebulose e delle galassie. Quest’ultimo riteneva che la grande nebulosa osservata fosse, in realtà, una galassia e quindi un oggetto esterno alla Via Lattea ed indipendente da essa, mentre Shapley ne sosteneva l’entità nebulare ritenendo che essa facesse parte della nostra Galassia. Solo nel 1925, quando Edwin Hubble identificò alcune stelle variabili Cefeidi nella presunta galassia e le utilizzò per determinarne la distanza da noi si poté avere una risposta definitiva. Le Cefeidi sono stelle che presentano una relazione ben precisa tra periodo e luminosità, scoperta dall’astronoma Henrietta Swan Leavitt nel 1912. La luminosità delle Cefeidi cresce regolarmente all’aumentare del periodo. Poiché esse possono essere considerate tutte alla stessa distanza da noi, essendo le dimensioni della galassia in cielo molto minori della distanza da noi, si ha che magnitudine assoluta e apparente differiscono di un fattore costante tramite il quale si può ricavare la misura della distanza. Si scoprì così che si trattava di un oggetto a sé stante ben al di fuori della nostra Via Lattea, che fu chiamato Galassia di Andromeda per la sua vicinanza a tale costellazione.

Andromeda è una galassia a spirale proprio come la nostra e appartiene al Gruppo Locale. Si ha, infatti, che le stelle del nostro universo sono racchiuse in galassie, le quali a loro volta sono unite in gruppi. La forza legante è in ogni caso la gravità. Ad oggi sono conosciute 43 galassie appartenenti alla famiglia del Gruppo Locale. Tra queste vi è proprio la nostra Galassia e la galassia di Andromeda che è la più grande galassia di questa famiglia. Essa ha uno splendore pari a 25 miliardi di soli, mentre lo splendore della Via Lattea è pari circa a 8,3 miliardi di soli. La galassia di Andromeda è importante proprio per la sua vicinanza, grazie alla quale possiamo studiare le stelle che la compongono e confrontare le loro proprietà con quelle della Via Lattea. Lo stesso vale anche per le altre galassie del Gruppo Locale che sono più vicine a noi. Al Gruppo Locale appartengono poi, la Grande e la Piccola Nube di Magellano e la galassia del Triangolo. Il diametro del gruppo è circa pari a 4 milioni di anni luce, esso rappresenta pertanto una piccola famiglia di galassie se si considerano l’ammasso della Vergine o quello della Chioma di Berenice che hanno invece diametri di decine di milioni di anni luce. Dallo studio della massa e della luminosità delle stelle si possono ricavare risultati interessanti. E’ stato ottenuto che la massa totale del Gruppo Locale è pari circa a 1500 miliardi di volte la massa del Sole mentre la sua luminosità è stimata pari a 30 miliardi di volte quella del Sole. Dal rapporto tra queste due grandezze si ricava che nella nostra famiglia di galassie dominano le stelle rosse e la materia oscura poiché il rapporto massa/luminosità è circa 1 per le singole stelle ad eccezione delle stelle rosse in cui è pari circa a 50. Tutti i membri del Gruppo Locale presentano delle velocità che sembrano in contrasto con il principio dell’espansione delle galassie. In particolare la galassia di Andromeda si avvicina alla nostra Galassia sempre di più. Ma di questo parleremo tra un po’, vediamo ora com’è possibile osservare il nostro oggetto. La galassia di Andromeda è catalogata come M31 nel catalogo Messier e NGC 224 nel New General Catalogue che rappresenta un’estensione del primo. Per poter individuare questa galassia in cielo occorre prima cercare la costellazione di Andromeda. Quest’ultima è visibile verso le 21 a est in settembre come si può notare nella figura sopra riportata. Ai confini di tale costellazione possiamo osservare, ovviamente in zone lontane dall’inquinamento luminoso, la galassia di Andromeda.

La Galassia di Andromeda (M31) è l’ammasso di stelle, gas e polveri più vicino alla Via Lattea, la sede del nostro Sistema Solare, distante circa 2.5 milioni di anni luce (a.l.). Dato che la luce viaggia nello spazio con una velocità di 300000 km/s, ciò che riusciamo a intravedere anche ad occhio nudo nelle notti autunnali prive di inquinamento luminoso è in realtà una “fotografia” della bella Galassia di Andromeda risalente a più di due milioni di anni fa. Se esistesse un osservatore distante anni luce dalla M31 e dalla Via Lattea vedrebbe queste due galassie costituire un sistema doppio a causa della loro relativa vicinanza, trascurando però la presenza della Galassia del Triangolo (M33), una delle 14 galassie satelliti di Andromeda. Fino ad una decina di anni fa il diametro della M31 era stato stimato di 120000 a.l. ma osservazioni più accurate ad opera dei telescopi dell’Osservatorio Keck situato sul monte Mauna Kea alle Hawaii hanno dimostrato che nella parte periferica della galassia vi sono dei sottili filamenti stellari che fanno parte in realtà del disco galattico. In questo modo il diametro della Galassia di Andromeda raggiunge un valore di 200000 a.l., superiore al diametro della Via Lattea (130000 a.l.), anch’esso corretto al seguito di recentissime indagini. In effetti è stato scoperto un prolungamento del disco della Via Lattea al di sotto ed al di sopra del piano galattico, evidenziando così un andamento sinusoidale della nostra galassia. Anche il disco galattico della M31 non è piatto ma sembra che abbia una particolare deformazione ad S, dovuta molto probabilmente all’influenza gravitazionale della vicina galassia M33. Nonostante la Galassia di Andromeda sia più estesa della Via Lattea, quest’ultima è molto più massiva per via della grande quantità di materia oscura al suo interno. La M31 contiene, però centinaia di miliardi di stelle, raggiungendo una densità stellare più elevata. Questo rende la Galassia di Andromeda facilmente visibile nei nostri cieli notturni, con un’estensione angolare di 2°, ossia 4 volte più grande del nostro satellite naturale nella fase di luna piena. La luminosità raggiunta dalla Galassia di Andromeda è circa  2.6×1010 volte superiore alla luminosità del Sole ed è inoltre più brillante della Via Lattea.

Studi recenti hanno avanzato l’ipotesi che la galassia della bella fanciulla greca sia attualmente in una condizione di inattività dopo un lungo periodo di intensa produzione stellare. La nostra galassia invece è ancora attiva dal punto di vista di formazione delle stelle e se la situazione dovesse continuare la Via Lattea potrebbe diventare più luminosa di Andromeda. Fin dall’inizio Andromeda è apparsa come una normale galassia a spirale barrata con un rigonfiamento nel centro (bulge) ma la sua inclinazione di 77° rispetto al punto di vista della Terra, che la rende apparentemente di forma ellittica, ha reso difficile comprendere la struttura dei suoi bracci (un’inclinazione di 90° ci permetterebbe di vedere la galassia di profilo). Fra le diverse ipotesi avanzate ce n’era una che sosteneva l’esistenza di due bracci a spirale logaritmica che si dipartivano dalla barra centrale e distanti tra loro 13000 a.l., mentre un’altra suggeriva la presenza di un unico braccio. Nel 1998, però le indagini nel campo dell’infrarosso ad opera del telescopio spaziale dell’ESA hanno scoperto una disposizione ad anello delle polveri e materiale gassoso che compongono la galassia, con un anello più denso e marcato ad una distanza di 32000 a.l. da nucleo, inesistente nello spettro visibile poiché composto da polveri fredde con una temperatura di -260 °C. Questo ha permesso di avanzare l’ipotesi che in realtà la galassia sia in una condizione di transizione, alla fine della quale diverrà una galassia ad anello. Nel 2006 il telescopio Spitzer ha finalmente messo in luce la reale natura di Andromeda, riconoscendola come una struttura galattica ad anello/spirale: dal nucleo galattico barrato si estendono due bracci a spirale logaritmica e due anelli di gas e polveri circondano il nucleo, uno posto nella parte esterna della galassia, l’altro ad una distanza di 32000 a.l. dal centro galattico. Mentre i bracci non sono delle strutture continue ma composti da diversi segmenti a spirale, l’anello esterno ha una struttura circolare, tranne nella regione corrispondente alla posizione della galassia M32. Si ritiene in effetti che circa 200 milioni di anni fa la M32 abbia interagito con la M31. Simulazioni dinamiche molto accurate hanno riprodotto il fenomeno che ha generato l’attuale struttura di Andromeda: la galassia M32 molto meno massiva rispetto ad Andromeda pare abbia “attraversato” il disco galattico di quest’ultima perdendo così la metà della propria massa e producendo la struttura anulare della M31 (Figura 1). Si può paragonare questa interazione al movimento dell’acqua provocato da un sasso lanciato in uno stagno: il piccolo masso genera delle onde circolari che si allontanano dal punto di impatto, allargandosi sempre di più. La Galassia di Andromeda, dopo 200 milioni di anni, sta ancora manifestando gli effetti di quell’interazione.   

Immagine ai raggi infrarossi della struttura ad anello/spirale della Galassia di Andromeda.  

Il Telescopio Spaziale Hubble ha permesso di scoprire, nel 1991, la presenza di un doppio nucleo nel centro di Andromeda, ossia due distinte concentrazioni di stelle poste ad una distanza tra loro di 5 a.l.. La più luminosa, nominata P1 è decentrata rispetto al centro galattico, sede del denso ammasso di stelle calde di classe spettrale A, individuato con la denominazione P2. Quest’ultimo contiene inoltre un buco nero con una massa pari ad un miliardo di volte la massa del Sole. Dopo una prima ipotesi che attribuiva P1 al nucleo di una galassia assorbita da M31, la spiegazione più attendibile sembra essere quella di considerare P1 come un disco di stelle con una distribuzione fortemente eccentrica attorno al buco nero. Dopo più di 150 osservazioni avvenute in 13 anni, i dati forniti dal Chandra X-ray Observatory della NASA hanno permesso ad un gruppo di ricercatori di individuare altri 26 possibili buchi neri all’interno della Galassia di Andromeda, oltre ai 9 già scoperti precedentemente. Queste forti sorgenti di raggi X (con una massa di 5-10 volte maggiore rispetto a quella del nostro Sole) sono molto probabilmente il risultato dell’esplosione di stelle massive. Otto dei 35 buchi neri sono stati trovati in alcuni dei 300 ammassi globulari presenti nella M31, antiche concentrazioni di stelle attorno al centro galattico. Questa scoperta segna una sostanziale differenza tra Andromeda e la Via Lattea, dato che quest’ultima sembra non avere buchi neri nei suoi ammassi globulari. Inoltre, sette di queste sorgenti di raggi X sono collocate entro un raggio di 1000 a.l. dal centro galattico, un numero di gran lunga superiore rispetto a quelli che si trovano attorno al centro della Via Lattea. Una spiegazione risiede nel bulge molto più esteso di Andromeda che contiene un numero superiore di stelle e quindi si ha una maggior probabilità che si creino più buchi neri. 

Rappresentazione della “imminente” collisione tra la Galassia di Andromeda e la Via Lattea che avverrà tra circa 4 miliardi di anni.

L’alone galattico di Andromeda è ricco di stelle con scarsa presenza di materiale metallico, molto simile a quello della Via Lattea. E’ probabile che queste due abbiano subito un’evoluzione analoga nei 12 miliardi della loro vita, assimilando circa 200 galassie di massa ridotta. Studi effettuati tra il 2008 e il 2011 hanno dimostrato come le 14 galassie satelliti di Andromeda (galassie nane) non si muovono indipendentemente attorno ad essa, ma ruotano con lo stesso verso di rotazione di Andromeda, suggerendo un’unica struttura compatta a forma di disco rotante attorno alla M31. Questa nuova scoperta può aiutare a comprendere il processo di formazione delle galassie che ha ancora molte domande senza risposta. In più alcune osservazioni hanno evidenziato una particolare interazione gravitazionale tra la Galassia di Andromeda e alcune sue due galassie satelliti (galassie ellittiche nane), analogamente all’interazione esistente tra la Via Lattea e le Nubi di Magellano. Le due galassie satelliti presentano una distorsione nella direzione della M31, proprio come una delle Nubi di Magellano mostra un allungamento della propria struttura nella direzione della nostra galassia. Andromeda presenta un moto di rotazione con velocità differenti a seconda della distanza dal centro galattico. Risultati provenienti da indagini spettroscopiche hanno evidenziato una velocità di rotazione di 225 km/s ad una distanza di 1300 a.l. dal centro, mentre si ha una velocità minima a circa 6500 a.l.. Questo è dovuto alla presenza di un nucleo molto denso ed in rapida rotazione con una massa di circa  6×109 volte la massa del Sole. Attorno ai 6500 a.l. la presenza di una massa meno densa comporta una riduzione di velocità. Vi è un lineare aumento di concentrazione della massa da 13000 a.l. fino a 45000 a.l., poi lentamente si raggiunge una massa di  1.85×1011 masse solari a 80000 a.l.. A questa distanza la galassia ruota a 200 km/s. Si osserva che tutte le galassie appartenenti al Gruppo Locale presentano un moto di rotazione attorno al baricentro del sistema. Come conseguenza di questo moto la Galassia di Andromeda si sta attualmente avvicinando alla Via Lattea ad una velocità di 300 km/s. In questo modo impiegherà 4 miliardi di anni per raggiungerci e in altri 2 miliardi di anni le due galassie si fonderanno in un’unica galassia ellittica. Le stelle appartenenti alla Via Lattea e ad Andromeda continueranno a mantenere la propria individualità senza subire collisioni tra di loro dato che sono molto distanti le une dalle altre, ma adotteranno un’orbita diversa attorno al nuovo centro galattico che si verrà a formare. Alcune simulazioni hanno mostrato come il nostro Sistema Solare, al seguito di questa collisione verrà allontanato ancora di più dal centro galattico. Si ritiene inoltre che in questa interazione parteciperà anche la galassia satellite di Andromeda, la Galassia del Triangolo, con basse ma esistenti probabilità che interagisca per prima con la Via Lattea.

ISON – La (potenziale) cometa di Natale – Anna Galiano

Il Natale, la festività più amata della tradizione cristiana, narra che il Messia sia nato in una mangiatoia e che una cometa abbia mostrato ai Re Magi la via da seguire per raggiungerlo. Ma nell’anno 0 una cometa ha davvero attraversato i cieli di Betlemme? Innanzitutto, molti studiosi suppongono che Gesù sia nato negli ultimi anni del regno di Erode, pertanto la data della sua nascita deve essere collocata tra il 6 e il 4 a.C. ma in quegli anni sembra che non sia stato registrato alcun passaggio di comete. E allora la storia di questo oggetto astronomico denominato “Stella di Betlemme” da dove salta fuori? giotto scrovegniSi deve attribuire il merito di questa tradizione ad un famoso pittore italiano. Nel 1301 Giotto rimase così affascinato dal passaggio di una splendida cometa, oggi nota come la cometa di Halley, che decise di raffigurarla in uno dei suoi dipinti, “Adorazione dei Magi” sulle pareti della Cappella degli Scrovegni a Padova. Questo affresco riproduce la nascita di Cristo avvenuta in una mangiatoia con i Re Magi al suo cospetto e, per la prima volta, una cometa nel cielo. Figura 1: Dipinto di Giotto “Adorazione dei Magi” nella Cappella degli Scrovegni (Padova). Quest’anno però, il 26 Dicembre, se diversi fattori lo consentono, gli abitanti dell’emisfero boreale potranno assistere al passaggio ravvicinato e spettacolare della cometa ISON. L’origine greca del nome κομήτης (kométes), “cometa” fa riferimento all’aspetto tipico di questo oggetto astronomico, che appare nel cielo come se fosse una lunga chioma di capelli. Un tempo la comparsa di una cometa era sinonimo di cattivo presagio, a tal punto che gli astronomi di corte rischiavano la vita se, malauguratamente non riuscivano a predire il passaggio di questi astri chiomati. Le comete però, popolarmente identificate anche come “palle di neve sporche” sono sostanzialmente un aggregato di frammenti rocciosi, silicati e composti ferrosi, amalgamati da ghiaccio d’acqua, ghiaccio secco, metano, ammoniaca ed altri gas congelati che descrivono attorno al Sole orbite ellittiche di elevata eccentricità. Si ritiene che questi oggetti di massa ridotta (non superiore a 1019 g) risiedano sia nella “Cintura di Kuiper”, regione del Sistema Solare esterno che si estende oltre l’orbita di Nettuno (tra 30 e 55 UA dal Sole) sia in una regione sferica che circonda l’intero Sistema Solare nota come “Nube di Oort”. Alcune teorie sostengono che le comete siano resti rocciosi della formazione del Sistema Solare, avvenuta 4.6 miliardi di anni fa. Questi frammenti molto probabilmente si sono formati nelle vicinanze del Sole, ma a causa di perturbazioni gravitazionali esercitate dai pianeti giganti sono stati spinti nella Nube di Oort che attualmente si presume ne contenga circa 2 trilioni. La Nube di Oort ha un raggio stimato di 50000 UA e spazia dalla regione esterna della Cintura di Kuiper fino ad un quarto della distanza che separa il Sistema Solare dalla stella più vicina, Proxima Centauri (distante circa 4 a.l.). Al seguito di perturbazioni dovute a stelle vicine o di interazioni con il disco galattico della Via Lattea, questi oggetti ghiacciati possono allontanarsi dalla Nube di Oort e raggiungere il Sistema Solare interno, in direzione del Sole. Si parla, così, di comete a lungo periodo (il tempo che impiegano per percorrere l’intera orbita è compreso tra 200 anni e 1 milione di anni ed oltre) e sono caratterizzate da orbite eccentriche, paraboliche o iperboliche. Solitamente il passaggio di queste comete viene osservato una sola volta poiché a causa della forte eccentricità della loro orbita escono dal Sistema Solare senza fare ritorno.  

Le comete a breve periodo (con un periodo orbitale minore di 200 anni) sono caratterizzate da orbite complanari a quelle dei pianeti. La cometa che ha il periodo più breve è la cometa Encke, pari a 3.30 anni e di questa sono stati registrati il maggior numero di passaggi. La sede di simili comete sembra essere la Fascia di Kuiper. Le orbite delle comete a breve periodo sono confinate nel Sistema Solare e presentano il punto di massima distanza dal Sole (afelio) coincidente con il raggio orbitale di alcuni pianeti del Sistema Solare esterno (Giove, Saturno, Urano, Nettuno). Queste particolari comete vengono identificate come la “famiglia” del pianeta in questione. Alcune comete a lungo periodo possono risentire dell’attrazione gravitazionale di un pianeta (soprattutto di Giove con una massa pari a 318 masse solari) che modifica l’eccentricità della loro orbita, facendole divenire delle comete a breve periodo. Di una cometa si possono distinguere chiaramente tre componenti: nucleo, chioma, coda. Il nucleo, con dimensioni che variano da qualche centinaio di metri fino a 40-50 Km ed oltre, ha una forma irregolare, è poroso, limitatamente denso ed ha un basso potere riflettente (infatti l’albedo che per un oggetto totalmente riflettente corrisponde a 1, in questo caso è prossimo allo 0, tipico di materiali che assorbono gran parte della radiazione come il carbone). Il nucleo è un agglomerato di roccia e polveri e per l’80% è costituito da ghiacci volatili come: ghiaccio d’acqua (presente in maggior quantità), ghiaccio secco, ossia anidride carbonica (CO2), ammoniaca (NH3), metano (CH4), monossido di carbonio (CO). Il ghiaccio d’acqua è strutturato in modo tale che gli atomi di idrogeno di 6 molecole d’acqua siano legati tra loro, tramite appunto il “legame idrogeno”. La struttura cristallina che ne deriva presenta una cavità all’interno dove possono risiedere molecole di monossido di carbonio, anidride carbonica, ammoniaca e metano. Per questo motivo tali strutture vengono chiamate clatrati, dal latino “claustrum”, ossia “gabbia”. Per la maggior parte del tempo le comete sono degli oggetti inattivi, ossia semplici frammenti di roccia e ghiaccio che viaggiano nel Sistema Solare seguendo la propria orbita, ma giunti in prossimità del Sole (a distanza di circa 3 o 5 UA) gli elementi ghiacciati che caratterizzano il nucleo cometario iniziano a riscaldarsi e a sublimare, generando una chioma. Questa, che può avere dimensioni da 30000 a 100000 Km, ha inizialmente una forma semi-sferica e diviene molto luminosa quando le particelle gassose di cui è composta interagiscono con la radiazione ultravioletta solare, giungendo all’eccitazione. Quando la cometa giunge al perielio la pressione di radiazione del Sole è così intensa che interagendo con i detriti ne modifica la traiettoria: in questo modo la struttura semi-sferica della chioma diviene una struttura “a goccia”. Se una cometa dovesse presentare una predominanza di ghiaccio di monossido di carbonio (CO) e non ghiaccio d’acqua la chioma inizia a formarsi già ad una distanza di 10 UA, poiché il CO sublima a temperature inferiori rispetto a quelle del ghiaccio d’acqua. Da misure spettroscopiche è emerso che la chioma presenta righe di emissione corrispondenti a diversi metalli, come Potassio (K), Sodio (Na), Calcio (Ca), Rame (Cu), Ferro (Fe). Sono state inoltre osservate, nella chioma, sostanze inconsuete la cui presenza è stata spiegata come la dissociazione di molecole più complesse, dette “molecole madri”, ad opera dell’interazione di queste con la radiazione solare. Infatti all’interno di una chioma possiamo distinguere: ·        

  • Chioma interna: composta da “molecole madri” appena rilasciate dal nucleo cometario, al seguito della sublimazione degli elementi volatili;

  • Chioma intermedia: costituita da nuove molecole, ottenute dalla dissociazione delle molecole madri, indicate come “molecole figlie”;

  • Chioma esterna (o chioma di Idrogeno): enorme nube di idrogeno neutro che può estendersi per milioni di Km di diametro.

Inoltre, la pressione di radiazione ed il vento solare provenienti dalla nostra stella spingono particelle di gas e polveri nella direzione opposta al Sole e pertanto la cometa sviluppa una coda. In realtà una cometa solitamente è composta da due code:

  • Coda di polveri (o di Tipo I): in media si estende per circa 10 milioni di Km ed è caratterizzata da una variazione di colore che gradualmente dal bianco luminoso del nucleo giunge ad un grigio-verdastro delle regioni più esterne. E’ la componente cometaria che maggiormente cattura l’attenzione del nostro occhio e dagli spettri è emerso che le polveri e i detriti rocciosi che compongono questa coda riflettono la luce solare, conferendole l’elevata luminosità che la caratterizza. Quindi lo spettro della coda di Tipo I è uno spettro a riflessione. La coda di polveri ha una forma ricurva, cosiddetta a “scimitarra” a causa sia della pressione di radiazione solare che devia i grani di polvere di dimensioni minori sia perché le particelle di polveri risentono dell’attrazione gravitazionale esercitata dal Sole.

  • Coda di ioni (o di Tipo II): è composta da particelle cariche e disposta radialmente al Sole. Si estende per circa 100-300 milioni di Km ed ha una colorazione che varia dal blu elettrico in prossimità del nucleo, al celeste tenue nelle zone periferiche. La coda di ioni genera uno spettro di emissione poiché le particelle che la costituiscono tendono ad assorbire la radiazione solare (soprattutto la componente ultravioletta) e a riemetterla sotto forma di radiazione visibile (secondo il processo di fluorescenza). Gli ioni evidenziati negli spettri di emissione sono principalmente ione monossido di carbonio (CO+), ione cianuro (CN+), ione ossidrile (OH-), ione idronio (H3O+).

Lo sviluppo della doppia coda di una cometa, quella di particelle (in bianco) e quella di ioni (in blu) durante il passaggio vicino al Sole.

Fino al 1997 si riteneva che una cometa in avvicinamento al Sole potesse sviluppare solo le due code appena descritte ma l’astronomo italiano G. Cremonese, analizzando attentamente le immagini di una famosa cometa giunta al perielio quello stesso anno, Hale-Bopp, scoprì che in realtà si poteva generare una terza coda, composta principalmente da atomi di sodio neutro. Infine, nel 2006, tramite il satellite finalizzato alle sole osservazioni solari STEREO (Solar TErrestrial RElations Observatory) si apprese che alcune comete possono sviluppare un’altra coda, costituita da atomi di ferro neutro. La prima si estende per circa 40-50 milioni di Km, ha un colore giallo paglierino e presenta una forma leggermente arcuata poiché, trovandosi tra la coda di polveri e quella di ioni è influenzata in maniera limitata dalla pressione di radiazione. La coda composta da atomi di ferro neutro ha infine una forma ancor più debolmente ricurva. Le comete non devono necessariamente sviluppare le quattro code simultaneamente, dato che queste sono legate alla grandezza del corpo roccioso e ghiacciato e alla sua composizione. Però, in base al tipo di code che si generano si può stimare l’età di una cometa. Una cometa periodica quando giunge al perielio e interagisce con la radiazione solare perde parecchie tonnellate di materiale di cui è composta ad ogni singolo passaggio. Pertanto una cometa che presenta solo una coda di ioni (come è stato osservato per la cometa Hyakutake nel 1996) deve avere necessariamente un’età avanzata poiché i detriti rocciosi e le polveri si esauriscono, in genere, prima degli ioni.

La cometa periodica maggiormente nota è proprio quella avvistata anche da Giotto, che si muove di moto retrogrado nel Sistema Solare interno con un periodo di circa 76 anni. Nell’anno 1986 la cometa è giunta nel punto di minima distanza dal Sole (perielio) il 9 Febbraio ed il 14 Marzo la sonda europea Giotto si è avvicinata fino a circa 600 km di distanza dal nucleo, rivelando la forma di un ellissoide triassiale. Un’altra scoperta ad opera della sonda Giotto è stata quella di notare due getti di polveri e gas, provenienti da regioni limitate del nucleo cometario, in direzione del Sole: ciò ha fatto pensare che i materiali volatili dalla quale si genera la chioma e quindi le diverse code siano confinati all’interno del nucleo da una crosta solida. La vita delle comete non è illimitata: le comete periodiche passano più volte vicino al Sole e vengono gradualmente consumate finché non di disintegrano totalmente. Alcune comete a lungo periodo, invece, hanno un’orbita molto vicina al Sole (comete radenti o sun-grazing) e possono venir disintegrate già al primo tentativo di passaggio al perielio. Dopo questa breve digressione sulla natura degli affascinanti astri chiomati andiamo a conoscere la protagonista indiscussa di questo fine anno 2013, la potenziale cometa del secolo C/2012 S1, meglio nota come ISON. La scoperta è avvenuta il 21 Settembre 2013 da parte di due astronomi, il bielorusso Nevski e il russo Novichonok utilizzando un telescopio riflettore con un diametro d’apertura di 40 cm dell’International Scientific Optical Network in Russia (da cui proviene il nome ISON della cometa) e il programma automatizzato CoLiTech, utile per scoprire asteroidi. La denominazione C/2012 S1 è associata alla natura non periodica della cometa tramite la lettera “C”, 2012 è l’anno della scoperta ed S1 è legato al fatto che è stata la prima cometa a venir individuata nel Settembre di quell’anno. Calcolando i parametri orbitali di ISON si è compresa la sua orbita fortemente iperbolica, sostenendo l’ipotesi che questa cometa provenga dalla Nube di Oort. A causa della sua orbita e della natura non periodica, questa cometa potrà essere avvistata solo per una volta. Le osservazioni provenienti dall’Hubble Space Telescope (HST) e dallo Spitzer Space Telescope risalenti ai primi mesi del 2013, hanno evidenziato un nucleo cometario con un diametro compreso tra 0.4 e 1.2 Km e una chioma di 5000 km.  

La cometa ISON ripresa dall’HST qualche mese fa.  
Crediti: NASA, ESA, J.-Y. Li (Planetary Science Institute), e Hubble Comet ISON Imaging Science Team

Tutte le comete sono dirette verso il Sole e la ISON non fa eccezione: la data in cui la cometa si troverà alla minima distanza dalla nostra stella è il 28 Novembre. ISON transiterà dunque a circa 2 milioni di Km dal centro del Sole e considerando che il raggio solare è di 695000 Km, la cometa passerà a 1.16 milioni di Km dalla fotosfera della nostra stella. Tale distanza è molto ridotta, infatti ISON è una cometa radente e se il Sole dovesse presentare una forte attività la cometa potrebbe non sopravvivere a questo passaggio ravvicinato. E’ rimasta memorabile la cometa Lovejoy, che il 16 dicembre 2011 si è letteralmente gettata nella corona solare e, a dispetto di tutte le previsioni che la ritenevano ormai disintegrata, alcuni telescopi orbitanti l’hanno vista riemergere dall’atmosfera solare seppur privata di buona parte della sua coda originaria. Se anche ISON dovesse sopravvivere alla minaccia solare del 28 Novembre, potrebbe generare nei mesi successivi un brillante spettacolo nei cieli dell’emisfero boreale e potremmo pertanto osservare una cometa luminosa ad occhio nudo, evento che ebbe come protagonista la cometa Hale-Bopp e pertanto non si ripete dal 1997. Quest’ultima è rimasta visibile nel cielo per ben 18 mesi, raggiungendo una magnitudine pari a 0, fattori che hanno portato a battezzarla come la “Grande Cometa” del 1997.

This image of comet Hale-Bopp was obtained by Gerald Rhemann on 1997 March 27.78. He was using a 190/255/435mm Schmidt camera and Kodak Gold 400. The exposure time was 8 minutes.

Alcune previsioni sostengono che la cometa ISON potrebbe superare lo spettacolo della Hale-Bopp. Il 26 Dicembre la cometa percorrerà quel tratto di orbita che è maggiormente vicino alla Terra, distante solo 64 milioni di Km, ossia 200 volte la distanza Terra-Luna. Tra il 14 e il 15 Gennaio, invece, la Terra attraverserà una regione molto vicina all’orbita della cometa e alcune particelle emesse dalla ISON durante il suo passaggio potrebbero impattare l’atmosfera terrestre generando uno sciame meteoritico, quindi stelle cadenti. Tuttavia la portata dell’evento sarà probabilmente modesta poiché uno sciame di particelle si manifesta soltanto quando la Terra attraversa delle zone nella quale è avvenuto il passaggio della coda della cometa. Le famose “Lacrime di San Lorenzo” non sono altro che il risultato dell’attraversamento dell’atmosfera di polveri provenienti dalla coda della cometa Swift-Tuttle che sono disposte in quel tratto dell’orbita terrestre che il nostro pianeta percorre da metà Luglio fino ad Agosto. Pertanto le “Lacrime di San Lorenzo” non sono visibili solo il 10 Luglio, ma lo spettacolo si prolunga per più di un mese.

Il 1 Ottobre 2013 la cometa ha sfiorato Marte, con una distanza tra i due corpi di soli 6.5 milioni di Km. Come si sa il pianeta rosso è sottoposto ad una incessante indagine con lo scopo di rilevare sul suolo tracce d’acqua e pertanto mentre sul terreno marziano vi sono i rover Curiosity ed Opportunity, in orbita si trova la sonda MRO (Mars Reconossaince Orbiter). Quest’ultima ha lo scopo principale di fornire immagini dettagliate del suolo di Marte utilizzando la camera HIRISE e il 29 Settembre 2013 questa è stata puntata verso la cometa.  La ripresa della cometa che ne è emersa non è altamente dettagliata poiché HIRISE è stata studiata principalmente per fotografare il suolo marziano (la cometa appare come un punto sfocato al centro delle immagini e in movimento rispetto alle altre stelle) ma l’immagine risultante ha frenato comunque gli entusiasmi poiché la luminosità di ISON è molto minore rispetto a quella prevista. Dal 29 Settembre, pertanto, tutti gli appassionati di comete sono rimasti delusi da questo risultato temendo che la “cometa di Natale” non fosse così spettacolare come ci si aspettava. Le comete sono degli oggetti capricciosi e tutt’altro che prevedibili. Infatti fino all’11 Novembre la cometa ISON aveva lentamente raggiunto una magnitudine pari a 8 e pertanto era visibile solo con l’utilizzo di telescopi o con binocoli in cieli completamente bui, ma improvvisamente sembra si sia “svegliata”. Il 13 Novembre è stato registrato un forte aumento di luminosità, raggiungendo la quarta magnitudine e in più ha iniziato a sviluppare la coda di ioni. Ora la ISON è visibilissima ad occhio nudo (nella costellazione della Vergine poco prima dell’alba) nei cieli totalmente privi di inquinamento luminoso e la si può facilmente avvistare con il telescopio nelle aree urbane. Al repentino cambiamento della magnitudine non è stata ancora attribuita una spiegazione definitiva. Può essere dovuto ad un aumento dell’emissione degli elementi volatili della cometa poiché man mano che essa si avvicina al perielio è sottoposta ad una maggiore radiazione solare. Oppure la ISON potrebbe essersi frammentata. La certezza purtroppo manca. Pertanto rimane il dubbio se considerare questo improvviso aumento di luminosità come un fattore positivo o negativo: l’unico modo per saperlo è aspettare ed osservare ogni singola azione che la cometa ISON compierà. Una prima risposta potrebbe arrivare dalle riprese del telescopio spaziale SOHO (Solar and Heliospheric Observatory) dell’ESA e della NASA che potrà monitorare costantemente la cometa appena entrerà nel campo di vista dei suoi strumenti. La cometa intanto ha sviluppato una lunga coda di oltre 16 milioni di Km.

La cometa ISON fotografata dall’astrofotografo Michael Jäger la notte del 10 Novembre 2013 nella quale si nota chiaramente la coda di polveri e la coda di ioni.  

Di seguito è riportata la curva di luce della cometa ISON relativa al 15 Novembre. Questo grafico comprende due diverse misurazioni. I cerchietti rossi rappresentano le magnitudini (misurate dal Minor Planet Center) associate a regioni limitate vicino la cometa. In questo modo si registra una più debole luminosità rispetto a quella che si otterrebbe se si misurasse la magnitudine dell’intera chioma. I triangoli blu, invece sono i risultati forniti dall’International Comet Quarterly (ICQ), che fanno riferimento alla magnitudine totale della cometa, cercando di stimare tutta la luminosità prodotta dalla ISON. Mentre le prime misurazioni possono variare da osservatore ad osservatore in base alle tecniche e strumentazioni utilizzate, queste ultime sono state ottenute da astronomi esperti che hanno fatto uso di telescopi oppure hanno confrontato ad occhio nudo la luminosità della ISON con quella delle stelle note. La curva nera è semplicemente un possibile modello che la luminosità della cometa potrebbe seguire. Si nota, però come le misure provenienti dall’ICQ seguono maggiormente il modello di curva tracciato, sebbene nella prima metà del 2013 entrambe le misurazioni sembravano essere in accordo. Questo è dovuto al fatto che nei primi mesi del 2013 la ISON era ancora distante da noi e presentava una dimensione angolare ridotta quindi anche le misure di magnitudine del Minor Planet Center coinvolgevano tutto l’astro chiomato e non regioni limitate. Ma attualmente la ISON è sempre più vicina al Sole e di conseguenza a noi, presentando dunque una dimensione maggiore e le due diverse misurazioni non sono più coincidenti. Attualmente la luminosità della ISON è meglio descritta dalle magnitudini totali (rappresentate dai triangoli blu). Dal grafico si evince inoltre, come i valori di magnitudine della ISON siano diminuiti rapidamente nell’arco di pochi giorni, rendendo quindi la cometa maggiormente luminosa. Sarà difficile valutare la luminosità raggiunta dalla cometa quando sarà in prossimità del Sole poiché verrà sovrastata dalla forte luce diurna.

Queste misure non predicono comunque quello che avverrà il 28 Novembre, pertanto non ci resta che attendere quel fatidico giorno ed osservare in diretta ciò che la ISON potrà subire. Verrà disintegrata dal forte campo gravitazionale del Sole o riuscirà ad evitare questo evento distruttivo, permettendoci così di ammirarla, da Dicembre (e per un paio di mesi successivi) in una lunga scia luminosa che solca i nostri cieli notturni? Come terza ipotesi potrebbe anche accadere che interagendo con il Sole, la cometa potrebbe perdere la propria coda ma riuscire ad allontanarsi conservando il nucleo e quindi la chioma. In questo modo, sempre dopo il 28 Novembre, potremmo avvistarla con una luminosità ridotta, subito dopo il tramonto. Da un punto di vista scientifico paradossalmente può essere molto più interessante osservare la distruzione di una cometa piuttosto che il suo affascinante passaggio poiché si potrebbe analizzare in maniera diretta la composizione chimica di regioni interne del nucleo di questo oggetto. Ricordiamo che le comete sono dei frammenti rocciosi e ghiacciati originatisi all’epoca della formazione del Sistema Solare e tramite la loro disintegrazione si potrebbero ottenere dettagliate informazioni sulle condizioni esistenti 4.6 miliardi di anni fa. La ISON tra l’altro, si avvicina al Sole per la prima volta e quindi non è stata alterata chimicamente da precedenti interazioni con la nostra stella. E’ pertanto un reperto di 4.6 miliardi di anni rimasto fortemente intatto da allora. In più si ritiene che le comete siano potenziali “portatrici di vita”: nel 2004 la sonda Stardust ha raggiunto la cometa Wild 2 raccogliendo le polveri provenienti dalla sua coda ed una volta analizzate si è scoperto che contenevano le molecole organiche ammine, precursori del DNA. Infatti il nucleo cometario non è soltanto composto da frammenti rocciosi ed elementi ghiacciati, ma vi sono anche sostanze chimiche organiche, come:

  • formaldeide (H2CO): questo composto è ottenibile tramite ossidazione catalitica del metanolo ed è utilizzato nella vita quotidiana come disinfettante;

  • acido cianidrico (HCN): può presentarsi sottoforma di liquido incolore oppure come gas ed è un veleno molto potente. Questo è essenziale nei processi di sintesi prebiotica (precedenti la comparsa di organismi viventi sulla Terra) di amminoacidi e purine, ossia basi azotate che costituiscono DNA ed RNA.

Si pensa che queste molecole organiche si siano formate nello spazio interstellare e siano state intrappolate nel nucleo cometario nei primi periodi della formazione del Sistema Solare. Nel 2013 è stata avanzata l’ipotesi che gli impatti di comete sulle rocce terrestri avvenuti miliardi di anni fa abbiano generato gli amminoacidi, dalla quale si sono formate le proteine. Quindi la vita sulla Terra potrebbe essere stata “portata” da quelle comete che hanno impattato sul nostro pianeta. Di certo queste risposte non si ottengono limitandosi ad osservare il passaggio della cometa ISON nel Sistema Solare. Però, d’altro canto, chi vuole perdersi lo spettacolo di un’enorme scia luminosa che si estende per gran parte del cielo notturno boreale? Questa è la previsione più fantastica riguardante la ISON che potrebbe rivelarsi ben più deludente anche se  la cometa riuscisse a transitare vicino al Sole senza venir disintegrata. Però, come già detto, le comete sono molto imprevedibili, quindi chi può dire cos’ha in serbo per noi la ISON?                            

What about ISON? – Anna Galiano

ISON, la (potenziale) cometa di Natale, la tanto acclamata cometa del secolo… “what about it”? Che fine ha fatto? Nel precedente articolo relativo a questo interessante astro chiomato, avevamo lasciato la cometa ISON in procinto di avvicinarsi al Sole, con la speranza da parte di molti, che riuscisse a sfuggire all’abbraccio potenzialmente mortale della nostra stella o quanto meno sopravvivere senza essere distrutta del tutto. In tal modo l’avremmo vista brillare nei nostri cieli nel periodo natalizio. Ma il passaggio ravvicinato della ISON al Sole, avvenuto il 28 Novembre scorso, non è stato così tranquillo come si sperava. Abbiamo conosciuto il carattere imprevedibile di questo corpo ghiacciato già nei mesi precedenti il perielio. A causa probabilmente di qualche perturbazione gravitazionale la cometa, circa 3 milioni di anni prima dell’anno 0, si è allontanata dalla nube di Oort nella quale risiedeva e ha intrapreso il proprio viaggio attirata dalla forza gravitazionale del Sole. Giunta nel Sistema Solare interno, fino all’11 Novembre 2013 la luminosità della cometa si era mantenuta al di sotto delle attese, raggiungendo l’ottava magnitudine per poi aumentare improvvisamente ed inspiegabilmente fino ad un valore di magnitudine pari a +4. Nelle ore che hanno preceduto il passaggio al perielio la ISON ha iniziato a ridurre la propria luminosità e giunta nel campo di vista del coronografo LASCO C2 a bordo della sonda SOHO (che monitora costantemente il Sole) si è notato che il nucleo cometario non era più ben distinguibile e pertanto la cometa poteva aver subito, se non del tutto, una parziale frammentazione. La coda, invece era rimasta abbastanza densa ed estesa, molto più delle code di altre comete radenti osservate in precedenza. Ma a causa della frammentazione del nucleo nelle ore precedenti il passaggio al perielio, le speranze di veder solcare i nostri cieli dalla ISON si sono spente ancor prima che la cometa raggiungesse il punto di minima distanza dal Sole. A tal proposito, la stessa Agenzia Spaziale Europea (ossia l’ESA, acronimo di European Space Agency) aveva ritenuto che la cometa fosse “morta”, che non ci fosse più alcuna speranza di vederla riemergere dall’atmosfera solare. L’ESA aveva così dichiarato la tragedia: “Comet ISON is gone”.  

Credit: ESA&NASA/SOHO/SDO – La cometa ISON ripresa dal coronografo LASCO C2.  

Il momento relativo al perielio non è stato registrato da alcuno strumento e pertanto non si sono potuti notare gli ulteriori effetti distruttivi che il vento solare, il suo calore e la sua pressione di radiazione hanno provocato alla cometa nel punto di maggior avvicinamento al Sole. Ma con grande sorpresa, dopo aver superato il momento critico, alcuni resti della ISON sono riemersi dalla zona di occultamento del coronografo LASCO C2. La ISON ci ha abituati, nei mesi precedenti, ai suoi “colpi di testa” e pur avendo inizialmente un nucleo di soli 1.2 Km, non è stata totalmente vinta dalla forza gravitazionale della nostra stella, molto più massiccia di questa piccola cometa. Quando la ISON ha attraversato la corona solare, parte della sua chioma polverosa e gassosa è stata bruciata da questa regione più esterna dell’atmosfera solare, nella quale si raggiungono temperature cinetiche di milioni di gradi. Alcune componenti della chioma sono sopravvissute e nelle 24 ore successive la coda ha assunto la forma di un ventaglio debolmente luminoso. Inoltre, nonostante la ISON avesse raggiunto una temperatura di 2700 °C in quel punto critico, qualcos’altro sembrava essere riuscito ad emergere dall’atmosfera solare. La stessa ESA, una volta analizzate le immagini che mostravano la “sopravvivenza” della ISON, la mattina del 29 Novembre, ha dovuto correggere quanto dichiarato la sera precedente, sostenendo che effettivamente la cometa non era stata distrutta completamente in questa prima fase. La ISON è stata perciò battezzata come “la cometa di Schrödinger” dall’astrofisico del Naval Research Laboratory, Karl Battams, in analogia al famoso gatto quantistico. Il paradosso del “gatto di Schrödinger” descrive un sistema costituito da un felino chiuso in una scatola d’acciaio, con della sostanza radioattiva e un’ampolla di vetro contenente del veleno. Se gli atomi della sostanza radioattiva si disintegrano, innescano un martelletto con cui si rompe l’ampolla facendo fuoriuscire il veleno. Se invece gli atomi non si disintegrano, il gatto è salvo. Poiché non si può osservare ciò che succede nella scatola per un dato periodo di tempo, il gatto in quell’intervallo stabilito è contemporaneamente vivo che morto in termini di stati probabilistici possibili. La ISON si è comportata in un modo analogo per qualche ora.   Questo evento inaspettato, però non ha permesso di riaccendere le speranze poiché da una prima analisi i residui della ISON erano costituiti soprattutto da polveri e cumuli di macerie che avrebbero potuto comunque disintegrarsi completamente nei giorni successivi. Il 30 Novembre si è registrato un calo di luminosità della cometa raggiungendo una magnitudine  di +7.5, ben al di fuori del limite di magnitudine alla quale è sensibile il nostro occhio (l’occhio umano è in grado di vedere oggetti con un valore massimo di magnitudine attorno a 6), senza possibilità pertanto di osservare quel che rimane della ISON ad occhio nudo. Gian Paolo Tozzi, astrofisico dell’INAF (Istituto Nazionale di Astrofisica), ha spiegato che ciò che  è sopravvissuto della ISON sono solo dei grani più massicci di polveri che non sono stati vaporizzati dalla radiazione solare e che pertanto continuano a viaggiare seguendo la loro traiettoria.

Nei giorni successivi la ISON è stata ripresa da altri strumenti che osservano e analizzano l’attività solare, come il LASCO C3, sempre a bordo della sonda SOHO di appartenenza della NASA/ESA e successivamente dall’Heliospheric Imager 1 (HI-1), quest’ultimo a bordo del satellite della NASA, STEREO-A. La cometa sembra aumentare la propria luminosità in quest’ultimo strumento, suscitando non poca sorpresa. Ma in realtà ciò è dovuto ad una migliore sensibilità dei rivelatori di HI-1 rispetto a LASCO C3. Infatti mentre LASCO C3 ha una magnitudine limite alla quale è sensibile pari a +8.5, HI-1 raggiunge magnitudine limite di +11.5. La ISON è rimasta nel campo di vista di HI-1 fino al 7 Dicembre ma già l’immagine del 3 Dicembre la mostra come una diffusa nube polverosa, priva di un’evidente condensazione centrale. L’ipotesi più accreditata implica la totale disintegrazione del nucleo e che pertanto della cometa ISON sia rimasto solo un mucchio di polvere. Come alternativa, la ISON può attualmente essere costituita da piccoli frammenti rocciosi, ciascuno dei quali sottoposto ad una sublimazione dei materiali ghiacciati che lo compongono. Tale sublimazione, se sta avvenendo, è al di sotto dei limiti di magnitudine della quale sono dotati SOHO e STEREO, e per questo non visibile da tali strumenti.  Una domanda posta da molti è: se il nucleo cometario esiste ancora, quanto potrà essere grande? Per risolvere questo ulteriore dubbio e quindi avere informazioni sull’eventuale presenza di un nucleo, sulle sue dimensioni e su una possibile attività cometaria, bisogna aspettare i risultati di un tentativo di ripresa del Telescopio Spaziale Hubble (HST). Di certo, dovremo aspettarci un nucleo ben più piccolo di quanto non fosse già inizialmente anche perché attualmente non si nota più alcun indizio evidente di resti cometari.  

ISON non si è dimostrata all’altezza delle aspettative, non ha soddisfatto le aspettative di “cometa di Natale”, né tantomeno quella di “cometa del secolo” ma di certo non ha lasciato il Sistema Solare in silenzio. Quei pochi frammenti rocciosi e le ceneri rimaste, continuano a forniscono un importante oggetto di indagine ai planetologi che dallo studio della frantumazione del nucleo cometario originario possono dedurre importanti informazioni sulla composizione chimica della cometa, sulla sua struttura interna e sui processi che avvengono in quei corpi ghiacciati provenienti da una regione fredda e remota del Sistema Solare, distante più di 55 UA dal Sole, che è la Nube di Oort. Forse fino alla fine potrà riservarci qualche altra sorpresa. Intanto ricordiamola com’era prima del catastrofico passaggio al perielio, con il suo nucleo di 1.2 Km e con una luminosa coda che attraversava la costellazione della Vergine nei primi giorni di Novembre. Anche se l’avventura della ISON non è stata eclatante come ci aspettavamo, è stata comunque ricca di colpi di scena e ci ha fatto sognare per qualche mese. La cometa ISON ha raggiunto il perielio il 28 Novembre 2013 per la prima volta e qualunque residuo esista ancora non avrà più modo di ripetere tale evento a causa dell’orbita iperbolica di cui è caratterizzata. Alla luce di tutte le evidenze acquisite finora si può solo dire “Addio COMETA ISON”.