Hypatia-Hack, l'Astronomia (e dintorni) declinati al femminile

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29/06/2013 - Margherita Hack ci ha lasciati. Pensiamo che il miglior modo di ricordarla sia continuare la sua instancabile opera di diffusione della cultura scientifica e della promozione del ruolo delle donne in quest'ambito, che l'ha portata a diventare una grande continuatrice dell'opera di Ipazia. Nelle sue parole:

"Ipazia rappresenta il simbolo dell’amore per la verità, per la ragione, per la Scienza che aveva fatto grande la civiltà ellenica. Con il suo sacrificio comincia quel lungo periodo oscuro in cui il fondamentalismo religioso tenta di soffocare la ragione".

E ancora:

"La colpa di Eva è stata quella di voler conoscere, sperimentare, indagare con le proprie forze le leggi che regolano l'Universo, la Terra, il proprio corpo, di rifiutare l'insegnamento calato dall'alto, in una parola Eva rappresenta la curiosità della Scienza contro la passiva accettazione della fede".

Nonostante l'astrofisica Margherita Hack sia stata, insieme a Rita Levi Montalcini, una delle scienziate italiane più note e nonostante qualche timido segnale di cambiamento, l'Astronomia, in tutte le sue declinazioni, continua ad essere, sia a livello amatoriale che professionale, un settore a prevalenza maschile, soprattutto in ambito osservativo. Indubbiamente per una ragazza è più complicato calarsi nei panni dell'astrofila che trascorre le nottate al telescopio ma, come in altri settori teoricamente da maschi, come per esempio la navigazione a vela in solitaria, quelle che riescono a superare le difficoltà contingenti spesso si rivelano almeno abili quanto i loro colleghi maschi se non di più.

Capostipite fu sicuramente Ipazia di Alessandria, matematica, astronoma e filosofa di cui si disse che "apprese dal padre le scienze matematiche, ma divenne molto migliore del maestro soprattutto nell’arte dell’osservazione degli astri".

Alcuni secoli dopo Caroline Herschel, sorella del famoso William con il quale si dedicò intensamente all'Astronomia tanto da riuscire a scoprire 8 comete, 3 galassie ed una decina di ammassi, oltre a compilare un catalogo di 2500 nebulose, così la ricordava: “Qualche volta, quando sono sola nell’oscurità e l’universo rivela ancora un altro segreto, dico i nomi delle mie lontane, perdute sorelle, dimenticate nei libri che registrano la nostra scienza - Aganice, Ipazia, Ildegarda di Bingen, Catherina Hevelius, Maria Agnesi - come se le stelle stesse potessero ricordarle. Sapevi che Ildegarda di Bingen propose un universo eliocentrico trecento anni prima che lo facesse Copernico? Che scrisse della gravitazione universale cinquecento anni prima di Newton? Ma chi l’avrebbe ascoltata? Era solo una monaca, una donna. Che era sarebbe la nostra, se quella era oscura? Così il mio nome, anch’esso, sarà dimenticato, ma io non sono accusata di essere una strega, come Aganice, e i cristiani non minacciano di condurmi alla chiesa, di uccidermi, come fecero ad Ipazia di Alessandria, l’eloquente, giovane donna che ideò gli strumenti atti a misurare accuratamente la posizione e il movimento dei corpi celesti”.

Per scoprire i contributi storici delle donne all'Astronomia si può scaricare Women astronomers who made history, obsoleto come datario ma interessante nelle sue schede informative.

Tornando ai nostri giorni, il Progetto Hypatia-Hack si pone l'obiettivo di avvicinare le donne all'Astronomia sia osservativa che teorica, secondo le modalità già individuate durante l'anno dell'Astronomia IYA2009 dal programma 'She is an Astronomer'. In particolare:

  • Seminari e workshop tematici
  • serate osservative

Articoli scientifici e divulgativi, report osservativi, curiosità dal cielo a cura di Giulia Alemanno, Anna Galiano e Margherita Maglie

Professoressa Hack cosa consiglierebbe ad una ragazza che volesse intraprendere la sua professione?

"Le consiglierei innanzitutto di amare la Fisica e la Matematica e di non scoraggiarsi. Di non avere complessi di inferiorità e di fare quello per cui si sente più portata. Non solo. Di mettere in campo quel tanto di aggressività e combattività affinché le proprie capacità siano riconosciute dagli altri e non transigere mai di fronte a un'evidente tendenza altrui a minimizzare il proprio lavoro.

Le donne devono imparare ad essere più combattive, investendo le loro energie nella volontà guidata dalla fiducia in se stesse.

La strada è lunga e difficile, anche perché nel campo della ricerca può capitare che non si trovi nulla e che dopo tanto lavoro si debba cambiare strada e ricominciare daccapo. Bisogna avere la curiosità di indagare e non da ultimo essere competitivi, perché per distinguersi ci vuole la gara. E in questo lo sport è molto formativo. Ci sono bravi ricercatori che rimangono chiusi in laboratorio e che non faranno mai strada".

Il team


Anna Galiano, laurea Magistrale in Fisica con 110 presso l’Università del Salento. La passione per l’Universo è nata nelle notti estive, quando ammirando quei puntini luminosi in cielo non è più riuscita a staccarne gli occhi.

Margherita Maglie, laureata in Ingegneria Aerospaziale e studentessa di Ingegneria Spaziale presso il politecnico di Torino, rimasta folgorata per sempre da ragazzina dall'assoluta Bellezza siderale.

Giulia Alemanno, laurea Magistrale  in Fisica con 110 e lode presso l’Università del Salento con una tesi dal titolo "Modelli per il calcolo della durata del flusso idrico nei sistemi fluviali marziani", appassionata del cielo e di tutte le sue meraviglie.

Gli articoli di Anna (2013): What about ISON?ISON - La (potenziale) cometa di Natale - La bella Andromeda - De Stella Nova - La Via Lattea: la nostra isola nell'Universo (1a parte) - La costellazione del Cigno

Gli articoli di Margherita (2013): La ISS, la nostra casa nello Spazio - Ad Astra - In ricordo di Margherita Hack

Gli articoli di Giulia (2013): Mondi alieni - La bella Andromeda - Sotto una pioggia di stelle - La costellazione della Lira - Supermoon 2013

What about ISON? - Anna Galiano

ISON, la (potenziale) cometa di Natale, la tanto acclamata cometa del secolo… “what about it”? Che fine ha fatto? Nel precedente articolo relativo a questo interessante astro chiomato, avevamo lasciato la cometa ISON in procinto di avvicinarsi al Sole, con la speranza da parte di molti, che riuscisse a sfuggire all’abbraccio potenzialmente mortale della nostra stella o quanto meno sopravvivere senza essere distrutta del tutto. In tal modo l’avremmo vista brillare nei nostri cieli nel periodo natalizio. Ma il passaggio ravvicinato della ISON al Sole, avvenuto il 28 Novembre scorso, non è stato così tranquillo come si sperava. Abbiamo conosciuto il carattere imprevedibile di questo corpo ghiacciato già nei mesi precedenti il perielio. A causa probabilmente di qualche perturbazione gravitazionale la cometa, circa 3 milioni di anni prima dell’anno 0, si è allontanata dalla nube di Oort nella quale risiedeva e ha intrapreso il proprio viaggio attirata dalla forza gravitazionale del Sole. Giunta nel Sistema Solare interno, fino all’11 Novembre 2013 la luminosità della cometa si era mantenuta al di sotto delle attese, raggiungendo l’ottava magnitudine per poi aumentare improvvisamente ed inspiegabilmente fino ad un valore di magnitudine pari a +4. Nelle ore che hanno preceduto il passaggio al perielio la ISON ha iniziato a ridurre la propria luminosità e giunta nel campo di vista del coronografo LASCO C2 a bordo della sonda SOHO (che monitora costantemente il Sole) si è notato che il nucleo cometario non era più ben distinguibile e pertanto la cometa poteva aver subito, se non del tutto, una parziale frammentazione. La coda, invece era rimasta abbastanza densa ed estesa, molto più delle code di altre comete radenti osservate in precedenza. Ma a causa della frammentazione del nucleo nelle ore precedenti il passaggio al perielio, le speranze di veder solcare i nostri cieli dalla ISON si sono spente ancor prima che la cometa raggiungesse il punto di minima distanza dal Sole. A tal proposito, la stessa Agenzia Spaziale Europea (ossia l’ESA, acronimo di European Space Agency) aveva ritenuto che la cometa fosse “morta”, che non ci fosse più alcuna speranza di vederla riemergere dall’atmosfera solare. L’ESA aveva così dichiarato la tragedia: “Comet ISON is gone”.  

Credit: ESA&NASA/SOHO/SDO - La cometa ISON ripresa dal coronografo LASCO C2.  

Il momento relativo al perielio non è stato registrato da alcuno strumento e pertanto non si sono potuti notare gli ulteriori effetti distruttivi che il vento solare, il suo calore e la sua pressione di radiazione hanno provocato alla cometa nel punto di maggior avvicinamento al Sole. Ma con grande sorpresa, dopo aver superato il momento critico, alcuni resti della ISON sono riemersi dalla zona di occultamento del coronografo LASCO C2. La ISON ci ha abituati, nei mesi precedenti, ai suoi “colpi di testa” e pur avendo inizialmente un nucleo di soli 1.2 Km, non è stata totalmente vinta dalla forza gravitazionale della nostra stella, molto più massiccia di questa piccola cometa. Quando la ISON ha attraversato la corona solare, parte della sua chioma polverosa e gassosa è stata bruciata da questa regione più esterna dell’atmosfera solare, nella quale si raggiungono temperature cinetiche di milioni di gradi. Alcune componenti della chioma sono sopravvissute e nelle 24 ore successive la coda ha assunto la forma di un ventaglio debolmente luminoso. Inoltre, nonostante la ISON avesse raggiunto una temperatura di 2700 °C in quel punto critico, qualcos’altro sembrava essere riuscito ad emergere dall’atmosfera solare. La stessa ESA, una volta analizzate le immagini che mostravano la “sopravvivenza” della ISON, la mattina del 29 Novembre, ha dovuto correggere quanto dichiarato la sera precedente, sostenendo che effettivamente la cometa non era stata distrutta completamente in questa prima fase. La ISON è stata perciò battezzata come “la cometa di Schrödinger” dall’astrofisico del Naval Research Laboratory, Karl Battams, in analogia al famoso gatto quantistico. Il paradosso del “gatto di Schrödinger” descrive un sistema costituito da un felino chiuso in una scatola d’acciaio, con della sostanza radioattiva e un’ampolla di vetro contenente del veleno. Se gli atomi della sostanza radioattiva si disintegrano, innescano un martelletto con cui si rompe l’ampolla facendo fuoriuscire il veleno. Se invece gli atomi non si disintegrano, il gatto è salvo. Poiché non si può osservare ciò che succede nella scatola per un dato periodo di tempo, il gatto in quell’intervallo stabilito è contemporaneamente vivo che morto in termini di stati probabilistici possibili. La ISON si è comportata in un modo analogo per qualche ora.   Questo evento inaspettato, però non ha permesso di riaccendere le speranze poiché da una prima analisi i residui della ISON erano costituiti soprattutto da polveri e cumuli di macerie che avrebbero potuto comunque disintegrarsi completamente nei giorni successivi. Il 30 Novembre si è registrato un calo di luminosità della cometa raggiungendo una magnitudine  di +7.5, ben al di fuori del limite di magnitudine alla quale è sensibile il nostro occhio (l’occhio umano è in grado di vedere oggetti con un valore massimo di magnitudine attorno a 6), senza possibilità pertanto di osservare quel che rimane della ISON ad occhio nudo. Gian Paolo Tozzi, astrofisico dell’INAF (Istituto Nazionale di Astrofisica), ha spiegato che ciò che  è sopravvissuto della ISON sono solo dei grani più massicci di polveri che non sono stati vaporizzati dalla radiazione solare e che pertanto continuano a viaggiare seguendo la loro traiettoria.

Nei giorni successivi la ISON è stata ripresa da altri strumenti che osservano e analizzano l’attività solare, come il LASCO C3, sempre a bordo della sonda SOHO di appartenenza della NASA/ESA e successivamente dall’Heliospheric Imager 1 (HI-1), quest’ultimo a bordo del satellite della NASA, STEREO-A. La cometa sembra aumentare la propria luminosità in quest’ultimo strumento, suscitando non poca sorpresa. Ma in realtà ciò è dovuto ad una migliore sensibilità dei rivelatori di HI-1 rispetto a LASCO C3. Infatti mentre LASCO C3 ha una magnitudine limite alla quale è sensibile pari a +8.5, HI-1 raggiunge magnitudine limite di +11.5. La ISON è rimasta nel campo di vista di HI-1 fino al 7 Dicembre ma già l’immagine del 3 Dicembre la mostra come una diffusa nube polverosa, priva di un’evidente condensazione centrale. L’ipotesi più accreditata implica la totale disintegrazione del nucleo e che pertanto della cometa ISON sia rimasto solo un mucchio di polvere. Come alternativa, la ISON può attualmente essere costituita da piccoli frammenti rocciosi, ciascuno dei quali sottoposto ad una sublimazione dei materiali ghiacciati che lo compongono. Tale sublimazione, se sta avvenendo, è al di sotto dei limiti di magnitudine della quale sono dotati SOHO e STEREO, e per questo non visibile da tali strumenti.  Una domanda posta da molti è: se il nucleo cometario esiste ancora, quanto potrà essere grande? Per risolvere questo ulteriore dubbio e quindi avere informazioni sull’eventuale presenza di un nucleo, sulle sue dimensioni e su una possibile attività cometaria, bisogna aspettare i risultati di un tentativo di ripresa del Telescopio Spaziale Hubble (HST). Di certo, dovremo aspettarci un nucleo ben più piccolo di quanto non fosse già inizialmente anche perché attualmente non si nota più alcun indizio evidente di resti cometari.  

ISON non si è dimostrata all’altezza delle aspettative, non ha soddisfatto le aspettative di “cometa di Natale”, né tantomeno quella di “cometa del secolo” ma di certo non ha lasciato il Sistema Solare in silenzio. Quei pochi frammenti rocciosi e le ceneri rimaste, continuano a forniscono un importante oggetto di indagine ai planetologi che dallo studio della frantumazione del nucleo cometario originario possono dedurre importanti informazioni sulla composizione chimica della cometa, sulla sua struttura interna e sui processi che avvengono in quei corpi ghiacciati provenienti da una regione fredda e remota del Sistema Solare, distante più di 55 UA dal Sole, che è la Nube di Oort. Forse fino alla fine potrà riservarci qualche altra sorpresa. Intanto ricordiamola com’era prima del catastrofico passaggio al perielio, con il suo nucleo di 1.2 Km e con una luminosa coda che attraversava la costellazione della Vergine nei primi giorni di Novembre. Anche se l’avventura della ISON non è stata eclatante come ci aspettavamo, è stata comunque ricca di colpi di scena e ci ha fatto sognare per qualche mese. La cometa ISON ha raggiunto il perielio il 28 Novembre 2013 per la prima volta e qualunque residuo esista ancora non avrà più modo di ripetere tale evento a causa dell’orbita iperbolica di cui è caratterizzata. Alla luce di tutte le evidenze acquisite finora si può solo dire “Addio COMETA ISON”.  

La ISS, la nostra casa nello Spazio - Margherita Maglie

Spesso e volentieri confusa con la casetta volante di un extraterrestre curioso, la ISS, per esteso International Space Station, non ha un gran bisogno di presentazioni per gli appassionati di astronautica, ma merita di esser raccontata, almeno in breve, anche a coloro che, come è successo a me qualche anno fa, credono che una navicella spaziale aliena sia rimasta incastrata nell’orbita terrestre. Si tratta di una sorta di “casa” orbitante a circa 360 km dalla Terra, grande quanto un campo da calcio, dedicata essenzialmente a ricerche di carattere scientifico e tecnologico, come gli esperimenti relativi alla microgravità, di cui ci occuperemo più avanti. La sua velocità media è di quasi 28.000 km/h e compie 15.72 orbite (quasi circolari) al giorno, perdendo quotidianamente, a causa dell’attrito atmosferico, 103 m di quota, che son poi recuperati una volta l’anno tramite l’ausilio di due motori principali.

Il primo modulo della Stazione Spaziale fu lanciato nel 1998, dopo che sedici Nazioni, tra cui l’Italia, si accordarono per collaborare ad un progetto grandioso, sia dal punto di vista del progresso scientifico che dal punto di vista economico, oltre che esempio mirabile di collaborazione internazionale. Quantificando “grandioso” , come ha già fatto per noi Herman Bondi, ex direttore generale dell’Organizzazione europea per la ricerca spaziale, ci accorgiamo di come l’abitudine a contare i milioni di miliardi in termini di denaro, senza percepire il peso di ciò di cui si sta parlando, sia la causa principale di alcune asserzioni insensate, prima tra tutte “Questa inutile ricerca spaziale, quanto ci costa!”. Tanto per avere un’idea, la spesa annuale pro capite dedicata al programma spaziale è di circa 20 dollari. Per avere un confronto, invece, si pensi che i soli USA investono fino a 400 dollari pro capite in armamenti militari.

La ISS è un concentrato di tecnologia. Con oltre 1000 ore di lavoro di assemblaggio e di passeggiate spaziali alle spalle, si stima che sarà operativa fino al 2028, continuando ad alimentarsi tramite i pannelli fotovoltaici posizionati esternamente sull‘ITS, Integrated Truss Structure, che convertono l’energia solare in corrente elettrica. L’abitabilità all’interno non è meno complessa da gestire: oltre ad un sistema GPS per il controllo dell’altitudine e a dei giroscopi per il controllo dell’orientamento, la Stazione è dotata di un sistema di supporto vitale che monitora le condizioni atmosferiche, la pressione, il livello di ossigeno e mantiene tali parametri su valori adeguati alla sopravvivenza degli astronauti, ricicla i fluidi provenienti dai servizi igienici e condensa il vapore acqueo. L’anidride carbonica viene rimossa dall'aria da un apposito sistema (Vozdukh), mentre tutti gli altri prodotti umani (il sudore ad esempio) sono filtrati tramite il carbone attivo; quest’ultimo infatti assorbe la maggior parte delle sostanza organiche e consente quindi la depurazione degli aeriformi. IssL’Ossigeno, invece, è prodotto tramite l’elettrolisi dell’acqua, ossia la scomposizione dell’acqua tramite il passaggio di corrente elettrica. I rifiuti solidi, trattati a parte, sono raccolti in sacchetti individuali e smaltiti nel veicolo Progress. La vita dell’astronauta è in questo senso abbastanza sacrificata: l’acqua a bordo infatti è un bene prezioso e per l’igiene quotidiana ogni passeggero ha a disposizione articoli limitati come salviette umidificate, shampoo a secco e dentifricio commestibile. Il cibo è refrigerato o in scatola e la dieta è prescritta prima della missione. Si presta molta attenzione agli alimenti friabili che potrebbero intasare i filtri con le briciole e le bevande, per lo stesso motivo, sono aspirate tramite cannuccia.

La giornata di un astronauta a bordo della ISS inizia presto: la sveglia è alle 06:00 del mattino, sincronizzata con il Coordinated Universal Time, orario del fuso di Greenwich. Si lavora circa dieci ore in un giorno feriale e cinque ore il Sabato, dedicando al riposo solo il tempo rimanente. I nostri inviati lassù si occupano principalmente di ricerca medico-biologica, di test sull’ elettromagnetismo, sulla robotica e sul comportamento di combustibili e fluidi nello spazio. Questa piattaforma scientifica, infatti, permette ai ricercatori di tutto il mondo di impiegare il proprio talento con esperimenti innovativi che non potrebbero essere realizzati in nessun altro luogo. Per quanto riguarda la medicina, ad esempio, è stato possibile studiare e comprendere  i meccanismi di alcuni processi fisiologici altrimenti mascherati dalla gravità e lo sviluppo di nuove tecnologie mediche e protocolli guidati dalla necessità di sostenere la salute degli astronauti. I progressi nella telemedicina, i sistemi di risposta allo stress psicologico, l'alimentazione, il comportamento delle cellule, e la salute ambientale sono solo alcuni esempi dei benefici che sono stati ottenuti dall’ ambiente unico offerto dalla microgravità della stazione spaziale. La microgravità sembra dunque rendere fertile il territorio all’innovazione, non solo medica. Immaginate la soddisfazione di un ingegnere che sperimenta il suo nuovo braccio robotico nell’ambiente per cui è stato progettato: un bambino con le mani piene di caramelle. Tuttavia è proprio la ZERO-G la causa dei problemi fisici più evidenti a bordo; la apparente e prolungata assenza di peso, infatti, indebolisce le ossa e i muscoli, generando atrofia e osteopenia; l’apparato circolatorio funziona in modo differente e si ha una ridistribuzione dei liquidi corporei. Per questo motivo è importante praticare costantemente attività fisica: a bordo si hanno a disposizione tapis roulant e cyclette a cui ci si vincola tramite corde elastiche. Lo stress del sistema vestibolare dell’orecchio, responsabile dell’ equilibrio, è l’ennesima causa di malessere per gli astronauti; quest’ultimo infatti provoca il famigerato senso di nausea, noto come “mal di spazio”, che tuttavia è destinato a svanire nell’arco di 72 ore.

La stazione spaziale è anche un occhio per l’osservazione globale e la diagnosi del nostro Pianeta: essa offre un punto di vista unico per osservare gli ecosistemi della Terra con apparecchiature manuali ed automatizzate. Gli equipaggi della Stazione possono osservare e riprendere con le telecamere le immagini di eventi che si svolgono in diretta e questa flessibilità rappresenta un vantaggio rispetto al supporto che possono offrire dei sensori installati su veicoli spaziali senza equipaggio, soprattutto quando si verificano eventi naturali imprevisti come eruzioni vulcaniche e terremoti. Le comunicazioni con la Terra avvengono tramite radiocollegamento, ossia tramite l’invio di segnali elettromagnetici appartenenti alle microonde dello spettro elettromagnetico, detta anche banda radio. Nelle comunicazioni essenzialmente si trasmettono i dati degli esperimenti scientifici, le procedure di aggancio con altre navette per il rifornimento o anche trasmissioni di audio e video tra astronauti e famiglie. Per questo motivo, l’ISS è dotata di molteplici sistemi di comunicazione, dei quali uno appositamente dedicato alla divulgazione scientifica per scuole e Università. La stazione spaziale, infatti, ha una capacità unica di catturare l'immaginazione di studenti e docenti di tutto il mondo e la presenza umana a bordo della stazione è stata la base per numerose attività educative volte a catturare l'interesse e accrescere la motivazione per lo studio delle scienze come per la tecnologia, l’ingegneria e la matematica. La sicurezza tuttavia non è solo questione di comunicazione: i lanci di Shuttle o in generale di moduli diretti verso la Stazione sono stati in passato il teatro preferito di incidenti mortali. Primo tra tutti, il disastro dello Space Shuttle Columbia avvenuto il 1º febbraio 2003, a cui son poi seguiti problemi legati a componenti della Stazione stessa (essenzialmente pannelli solari e sistemi di raffreddamento, questi ultimi costruiti dalla Boeing). Un’altra minaccia alla salute della nostra stazione orbitante è senz’altro l’esagerata quantità di detriti spaziali in orbita intorno alla Terra, i quali, impattando, sarebbero in grado di bucare i moduli pressurizzati e causare danni anche molto gravi. Il tutto è comunque monitorato da terra e l’equipaggio è avvertito con tempestività nel caso in cui un oggetto sia in rotta collisione; una comunicazione efficace consente infatti di intraprendere in tempo una manovra detta Debris Avoidance Manoeuvre (DAM) che utilizza dei propulsori per modificare l'altitudine orbitale della stazione ed evitare il detrito.

Dal 28 Maggio all'11 Novembre abbiamo avuto l’onore di essere rappresentati nella Missione “Volare” dal Maggiore Luca Parmitano, classe 1976. Nella sua permanenza a bordo della Stazione Spaziale, Parmitano ha orbitato intorno alla Terra ben 2656 volte, ma come ha dichiarato alla Stampa in un’intervista, al ritorno: “Ho sentito forte l’odore della terra bagnata e mi sono emozionato ai colori dell’alba”. A bordo sono stati condotti ben 30 esperimenti scientifici, mentre delle due passeggiate che erano state previste solo la prima è andata a buon fine, con una durata di poco più di sei ore. La seconda, invece,  è stata prontamente interrotta nei primi 90 minuti di operazione, a causa della presenza di acqua nel casco dell’astronauta. Il lungo addestramento e il grande autocontrollo hanno permesso a Parmitano il rientro sano e salvo all’interno della Stazione. Personalmente, trovo coraggiosa la scelta di diventare un astronauta. Da bambini attendiamo con ansia che qualcuno ci chieda “cosa vuoi fare da grande?”, da bambini non abbiamo paura dei progetti e del futuro. Poi, crescendo, dimentichiamo come si fa. Se un giorno dovessi essere un astronauta in pensione e qualcuno dovesse chiedermi “cosa vuoi fare da grande?”, vorrei rispondere ”l’astronauta.”: più felice di un bambino con le sue caramelle!

ISON - La (potenziale) cometa di Natale - Anna Galiano

Il Natale, la festività più amata della tradizione cristiana, narra che il Messia sia nato in una mangiatoia e che una cometa abbia mostrato ai Re Magi la via da seguire per raggiungerlo. Ma nell’anno 0 una cometa ha davvero attraversato i cieli di Betlemme? Innanzitutto, molti studiosi suppongono che Gesù sia nato negli ultimi anni del regno di Erode, pertanto la data della sua nascita deve essere collocata tra il 6 e il 4 a.C. ma in quegli anni sembra che non sia stato registrato alcun passaggio di comete. E allora la storia di questo oggetto astronomico denominato “Stella di Betlemme” da dove salta fuori? giotto scrovegniSi deve attribuire il merito di questa tradizione ad un famoso pittore italiano. Nel 1301 Giotto rimase così affascinato dal passaggio di una splendida cometa, oggi nota come la cometa di Halley, che decise di raffigurarla in uno dei suoi dipinti, “Adorazione dei Magi” sulle pareti della Cappella degli Scrovegni a Padova. Questo affresco riproduce la nascita di Cristo avvenuta in una mangiatoia con i Re Magi al suo cospetto e, per la prima volta, una cometa nel cielo. Figura 1: Dipinto di Giotto “Adorazione dei Magi” nella Cappella degli Scrovegni (Padova). Quest’anno però, il 26 Dicembre, se diversi fattori lo consentono, gli abitanti dell’emisfero boreale potranno assistere al passaggio ravvicinato e spettacolare della cometa ISON. L’origine greca del nome κομήτης (kométes), “cometa” fa riferimento all’aspetto tipico di questo oggetto astronomico, che appare nel cielo come se fosse una lunga chioma di capelli. Un tempo la comparsa di una cometa era sinonimo di cattivo presagio, a tal punto che gli astronomi di corte rischiavano la vita se, malauguratamente non riuscivano a predire il passaggio di questi astri chiomati. Le comete però, popolarmente identificate anche come “palle di neve sporche” sono sostanzialmente un aggregato di frammenti rocciosi, silicati e composti ferrosi, amalgamati da ghiaccio d’acqua, ghiaccio secco, metano, ammoniaca ed altri gas congelati che descrivono attorno al Sole orbite ellittiche di elevata eccentricità. Si ritiene che questi oggetti di massa ridotta (non superiore a 1019 g) risiedano sia nella “Cintura di Kuiper”, regione del Sistema Solare esterno che si estende oltre l’orbita di Nettuno (tra 30 e 55 UA dal Sole) sia in una regione sferica che circonda l’intero Sistema Solare nota come “Nube di Oort”. Alcune teorie sostengono che le comete siano resti rocciosi della formazione del Sistema Solare, avvenuta 4.6 miliardi di anni fa. Questi frammenti molto probabilmente si sono formati nelle vicinanze del Sole, ma a causa di perturbazioni gravitazionali esercitate dai pianeti giganti sono stati spinti nella Nube di Oort che attualmente si presume ne contenga circa 2 trilioni. La Nube di Oort ha un raggio stimato di 50000 UA e spazia dalla regione esterna della Cintura di Kuiper fino ad un quarto della distanza che separa il Sistema Solare dalla stella più vicina, Proxima Centauri (distante circa 4 a.l.). Al seguito di perturbazioni dovute a stelle vicine o di interazioni con il disco galattico della Via Lattea, questi oggetti ghiacciati possono allontanarsi dalla Nube di Oort e raggiungere il Sistema Solare interno, in direzione del Sole. Si parla, così, di comete a lungo periodo (il tempo che impiegano per percorrere l’intera orbita è compreso tra 200 anni e 1 milione di anni ed oltre) e sono caratterizzate da orbite eccentriche, paraboliche o iperboliche. Solitamente il passaggio di queste comete viene osservato una sola volta poiché a causa della forte eccentricità della loro orbita escono dal Sistema Solare senza fare ritorno.  

Le comete a breve periodo (con un periodo orbitale minore di 200 anni) sono caratterizzate da orbite complanari a quelle dei pianeti. La cometa che ha il periodo più breve è la cometa Encke, pari a 3.30 anni e di questa sono stati registrati il maggior numero di passaggi. La sede di simili comete sembra essere la Fascia di Kuiper. Le orbite delle comete a breve periodo sono confinate nel Sistema Solare e presentano il punto di massima distanza dal Sole (afelio) coincidente con il raggio orbitale di alcuni pianeti del Sistema Solare esterno (Giove, Saturno, Urano, Nettuno). Queste particolari comete vengono identificate come la “famiglia” del pianeta in questione. Alcune comete a lungo periodo possono risentire dell’attrazione gravitazionale di un pianeta (soprattutto di Giove con una massa pari a 318 masse solari) che modifica l’eccentricità della loro orbita, facendole divenire delle comete a breve periodo. Di una cometa si possono distinguere chiaramente tre componenti: nucleo, chioma, coda. Il nucleo, con dimensioni che variano da qualche centinaio di metri fino a 40-50 Km ed oltre, ha una forma irregolare, è poroso, limitatamente denso ed ha un basso potere riflettente (infatti l’albedo che per un oggetto totalmente riflettente corrisponde a 1, in questo caso è prossimo allo 0, tipico di materiali che assorbono gran parte della radiazione come il carbone). Il nucleo è un agglomerato di roccia e polveri e per l’80% è costituito da ghiacci volatili come: ghiaccio d’acqua (presente in maggior quantità), ghiaccio secco, ossia anidride carbonica (CO2), ammoniaca (NH3), metano (CH4), monossido di carbonio (CO). Il ghiaccio d’acqua è strutturato in modo tale che gli atomi di idrogeno di 6 molecole d’acqua siano legati tra loro, tramite appunto il “legame idrogeno”. La struttura cristallina che ne deriva presenta una cavità all’interno dove possono risiedere molecole di monossido di carbonio, anidride carbonica, ammoniaca e metano. Per questo motivo tali strutture vengono chiamate clatrati, dal latino “claustrum”, ossia “gabbia”. Per la maggior parte del tempo le comete sono degli oggetti inattivi, ossia semplici frammenti di roccia e ghiaccio che viaggiano nel Sistema Solare seguendo la propria orbita, ma giunti in prossimità del Sole (a distanza di circa 3 o 5 UA) gli elementi ghiacciati che caratterizzano il nucleo cometario iniziano a riscaldarsi e a sublimare, generando una chioma. Questa, che può avere dimensioni da 30000 a 100000 Km, ha inizialmente una forma semi-sferica e diviene molto luminosa quando le particelle gassose di cui è composta interagiscono con la radiazione ultravioletta solare, giungendo all’eccitazione. Quando la cometa giunge al perielio la pressione di radiazione del Sole è così intensa che interagendo con i detriti ne modifica la traiettoria: in questo modo la struttura semi-sferica della chioma diviene una struttura “a goccia”. Se una cometa dovesse presentare una predominanza di ghiaccio di monossido di carbonio (CO) e non ghiaccio d’acqua la chioma inizia a formarsi già ad una distanza di 10 UA, poiché il CO sublima a temperature inferiori rispetto a quelle del ghiaccio d’acqua. Da misure spettroscopiche è emerso che la chioma presenta righe di emissione corrispondenti a diversi metalli, come Potassio (K), Sodio (Na), Calcio (Ca), Rame (Cu), Ferro (Fe). Sono state inoltre osservate, nella chioma, sostanze inconsuete la cui presenza è stata spiegata come la dissociazione di molecole più complesse, dette “molecole madri”, ad opera dell’interazione di queste con la radiazione solare. Infatti all’interno di una chioma possiamo distinguere: ·        

  • Chioma interna: composta da “molecole madri” appena rilasciate dal nucleo cometario, al seguito della sublimazione degli elementi volatili;

  • Chioma intermedia: costituita da nuove molecole, ottenute dalla dissociazione delle molecole madri, indicate come “molecole figlie”;

  • Chioma esterna (o chioma di Idrogeno): enorme nube di idrogeno neutro che può estendersi per milioni di Km di diametro.

Inoltre, la pressione di radiazione ed il vento solare provenienti dalla nostra stella spingono particelle di gas e polveri nella direzione opposta al Sole e pertanto la cometa sviluppa una coda. In realtà una cometa solitamente è composta da due code:

  • Coda di polveri (o di Tipo I): in media si estende per circa 10 milioni di Km ed è caratterizzata da una variazione di colore che gradualmente dal bianco luminoso del nucleo giunge ad un grigio-verdastro delle regioni più esterne. E’ la componente cometaria che maggiormente cattura l’attenzione del nostro occhio e dagli spettri è emerso che le polveri e i detriti rocciosi che compongono questa coda riflettono la luce solare, conferendole l’elevata luminosità che la caratterizza. Quindi lo spettro della coda di Tipo I è uno spettro a riflessione. La coda di polveri ha una forma ricurva, cosiddetta a “scimitarra” a causa sia della pressione di radiazione solare che devia i grani di polvere di dimensioni minori sia perché le particelle di polveri risentono dell’attrazione gravitazionale esercitata dal Sole.

  • Coda di ioni (o di Tipo II): è composta da particelle cariche e disposta radialmente al Sole. Si estende per circa 100-300 milioni di Km ed ha una colorazione che varia dal blu elettrico in prossimità del nucleo, al celeste tenue nelle zone periferiche. La coda di ioni genera uno spettro di emissione poiché le particelle che la costituiscono tendono ad assorbire la radiazione solare (soprattutto la componente ultravioletta) e a riemetterla sotto forma di radiazione visibile (secondo il processo di fluorescenza). Gli ioni evidenziati negli spettri di emissione sono principalmente ione monossido di carbonio (CO+), ione cianuro (CN+), ione ossidrile (OH-), ione idronio (H3O+).

Lo sviluppo della doppia coda di una cometa, quella di particelle (in bianco) e quella di ioni (in blu) durante il passaggio vicino al Sole.

Fino al 1997 si riteneva che una cometa in avvicinamento al Sole potesse sviluppare solo le due code appena descritte ma l’astronomo italiano G. Cremonese, analizzando attentamente le immagini di una famosa cometa giunta al perielio quello stesso anno, Hale-Bopp, scoprì che in realtà si poteva generare una terza coda, composta principalmente da atomi di sodio neutro. Infine, nel 2006, tramite il satellite finalizzato alle sole osservazioni solari STEREO (Solar TErrestrial RElations Observatory) si apprese che alcune comete possono sviluppare un’altra coda, costituita da atomi di ferro neutro. La prima si estende per circa 40-50 milioni di Km, ha un colore giallo paglierino e presenta una forma leggermente arcuata poiché, trovandosi tra la coda di polveri e quella di ioni è influenzata in maniera limitata dalla pressione di radiazione. La coda composta da atomi di ferro neutro ha infine una forma ancor più debolmente ricurva. Le comete non devono necessariamente sviluppare le quattro code simultaneamente, dato che queste sono legate alla grandezza del corpo roccioso e ghiacciato e alla sua composizione. Però, in base al tipo di code che si generano si può stimare l’età di una cometa. Una cometa periodica quando giunge al perielio e interagisce con la radiazione solare perde parecchie tonnellate di materiale di cui è composta ad ogni singolo passaggio. Pertanto una cometa che presenta solo una coda di ioni (come è stato osservato per la cometa Hyakutake nel 1996) deve avere necessariamente un’età avanzata poiché i detriti rocciosi e le polveri si esauriscono, in genere, prima degli ioni.

La cometa periodica maggiormente nota è proprio quella avvistata anche da Giotto, che si muove di moto retrogrado nel Sistema Solare interno con un periodo di circa 76 anni. Nell’anno 1986 la cometa è giunta nel punto di minima distanza dal Sole (perielio) il 9 Febbraio ed il 14 Marzo la sonda europea Giotto si è avvicinata fino a circa 600 km di distanza dal nucleo, rivelando la forma di un ellissoide triassiale. Un’altra scoperta ad opera della sonda Giotto è stata quella di notare due getti di polveri e gas, provenienti da regioni limitate del nucleo cometario, in direzione del Sole: ciò ha fatto pensare che i materiali volatili dalla quale si genera la chioma e quindi le diverse code siano confinati all’interno del nucleo da una crosta solida. La vita delle comete non è illimitata: le comete periodiche passano più volte vicino al Sole e vengono gradualmente consumate finché non di disintegrano totalmente. Alcune comete a lungo periodo, invece, hanno un’orbita molto vicina al Sole (comete radenti o sun-grazing) e possono venir disintegrate già al primo tentativo di passaggio al perielio. Dopo questa breve digressione sulla natura degli affascinanti astri chiomati andiamo a conoscere la protagonista indiscussa di questo fine anno 2013, la potenziale cometa del secolo C/2012 S1, meglio nota come ISON. La scoperta è avvenuta il 21 Settembre 2013 da parte di due astronomi, il bielorusso Nevski e il russo Novichonok utilizzando un telescopio riflettore con un diametro d’apertura di 40 cm dell’International Scientific Optical Network in Russia (da cui proviene il nome ISON della cometa) e il programma automatizzato CoLiTech, utile per scoprire asteroidi. La denominazione C/2012 S1 è associata alla natura non periodica della cometa tramite la lettera “C”, 2012 è l’anno della scoperta ed S1 è legato al fatto che è stata la prima cometa a venir individuata nel Settembre di quell’anno. Calcolando i parametri orbitali di ISON si è compresa la sua orbita fortemente iperbolica, sostenendo l’ipotesi che questa cometa provenga dalla Nube di Oort. A causa della sua orbita e della natura non periodica, questa cometa potrà essere avvistata solo per una volta. Le osservazioni provenienti dall’Hubble Space Telescope (HST) e dallo Spitzer Space Telescope risalenti ai primi mesi del 2013, hanno evidenziato un nucleo cometario con un diametro compreso tra 0.4 e 1.2 Km e una chioma di 5000 km.  

La cometa ISON ripresa dall’HST qualche mese fa.  
Crediti: NASA, ESA, J.-Y. Li (Planetary Science Institute), e Hubble Comet ISON Imaging Science Team

Tutte le comete sono dirette verso il Sole e la ISON non fa eccezione: la data in cui la cometa si troverà alla minima distanza dalla nostra stella è il 28 Novembre. ISON transiterà dunque a circa 2 milioni di Km dal centro del Sole e considerando che il raggio solare è di 695000 Km, la cometa passerà a 1.16 milioni di Km dalla fotosfera della nostra stella. Tale distanza è molto ridotta, infatti ISON è una cometa radente e se il Sole dovesse presentare una forte attività la cometa potrebbe non sopravvivere a questo passaggio ravvicinato. E’ rimasta memorabile la cometa Lovejoy, che il 16 dicembre 2011 si è letteralmente gettata nella corona solare e, a dispetto di tutte le previsioni che la ritenevano ormai disintegrata, alcuni telescopi orbitanti l’hanno vista riemergere dall’atmosfera solare seppur privata di buona parte della sua coda originaria. Se anche ISON dovesse sopravvivere alla minaccia solare del 28 Novembre, potrebbe generare nei mesi successivi un brillante spettacolo nei cieli dell’emisfero boreale e potremmo pertanto osservare una cometa luminosa ad occhio nudo, evento che ebbe come protagonista la cometa Hale-Bopp e pertanto non si ripete dal 1997. Quest’ultima è rimasta visibile nel cielo per ben 18 mesi, raggiungendo una magnitudine pari a 0, fattori che hanno portato a battezzarla come la “Grande Cometa” del 1997.

This image of comet Hale-Bopp was obtained by Gerald Rhemann on 1997 March 27.78. He was using a 190/255/435mm Schmidt camera and Kodak Gold 400. The exposure time was 8 minutes.

Alcune previsioni sostengono che la cometa ISON potrebbe superare lo spettacolo della Hale-Bopp. Il 26 Dicembre la cometa percorrerà quel tratto di orbita che è maggiormente vicino alla Terra, distante solo 64 milioni di Km, ossia 200 volte la distanza Terra-Luna. Tra il 14 e il 15 Gennaio, invece, la Terra attraverserà una regione molto vicina all’orbita della cometa e alcune particelle emesse dalla ISON durante il suo passaggio potrebbero impattare l’atmosfera terrestre generando uno sciame meteoritico, quindi stelle cadenti. Tuttavia la portata dell’evento sarà probabilmente modesta poiché uno sciame di particelle si manifesta soltanto quando la Terra attraversa delle zone nella quale è avvenuto il passaggio della coda della cometa. Le famose “Lacrime di San Lorenzo” non sono altro che il risultato dell’attraversamento dell’atmosfera di polveri provenienti dalla coda della cometa Swift-Tuttle che sono disposte in quel tratto dell’orbita terrestre che il nostro pianeta percorre da metà Luglio fino ad Agosto. Pertanto le “Lacrime di San Lorenzo” non sono visibili solo il 10 Luglio, ma lo spettacolo si prolunga per più di un mese.

Il 1 Ottobre 2013 la cometa ha sfiorato Marte, con una distanza tra i due corpi di soli 6.5 milioni di Km. Come si sa il pianeta rosso è sottoposto ad una incessante indagine con lo scopo di rilevare sul suolo tracce d’acqua e pertanto mentre sul terreno marziano vi sono i rover Curiosity ed Opportunity, in orbita si trova la sonda MRO (Mars Reconossaince Orbiter). Quest’ultima ha lo scopo principale di fornire immagini dettagliate del suolo di Marte utilizzando la camera HIRISE e il 29 Settembre 2013 questa è stata puntata verso la cometa.  La ripresa della cometa che ne è emersa non è altamente dettagliata poiché HIRISE è stata studiata principalmente per fotografare il suolo marziano (la cometa appare come un punto sfocato al centro delle immagini e in movimento rispetto alle altre stelle) ma l’immagine risultante ha frenato comunque gli entusiasmi poiché la luminosità di ISON è molto minore rispetto a quella prevista. Dal 29 Settembre, pertanto, tutti gli appassionati di comete sono rimasti delusi da questo risultato temendo che la “cometa di Natale” non fosse così spettacolare come ci si aspettava. Le comete sono degli oggetti capricciosi e tutt’altro che prevedibili. Infatti fino all’11 Novembre la cometa ISON aveva lentamente raggiunto una magnitudine pari a 8 e pertanto era visibile solo con l’utilizzo di telescopi o con binocoli in cieli completamente bui, ma improvvisamente sembra si sia “svegliata”. Il 13 Novembre è stato registrato un forte aumento di luminosità, raggiungendo la quarta magnitudine e in più ha iniziato a sviluppare la coda di ioni. Ora la ISON è visibilissima ad occhio nudo (nella costellazione della Vergine poco prima dell’alba) nei cieli totalmente privi di inquinamento luminoso e la si può facilmente avvistare con il telescopio nelle aree urbane. Al repentino cambiamento della magnitudine non è stata ancora attribuita una spiegazione definitiva. Può essere dovuto ad un aumento dell’emissione degli elementi volatili della cometa poiché man mano che essa si avvicina al perielio è sottoposta ad una maggiore radiazione solare. Oppure la ISON potrebbe essersi frammentata. La certezza purtroppo manca. Pertanto rimane il dubbio se considerare questo improvviso aumento di luminosità come un fattore positivo o negativo: l’unico modo per saperlo è aspettare ed osservare ogni singola azione che la cometa ISON compierà. Una prima risposta potrebbe arrivare dalle riprese del telescopio spaziale SOHO (Solar and Heliospheric Observatory) dell’ESA e della NASA che potrà monitorare costantemente la cometa appena entrerà nel campo di vista dei suoi strumenti. La cometa intanto ha sviluppato una lunga coda di oltre 16 milioni di Km.

La cometa ISON fotografata dall’astrofotografo Michael Jäger la notte del 10 Novembre 2013 nella quale si nota chiaramente la coda di polveri e la coda di ioni.  

Di seguito è riportata la curva di luce della cometa ISON relativa al 15 Novembre. Questo grafico comprende due diverse misurazioni. I cerchietti rossi rappresentano le magnitudini (misurate dal Minor Planet Center) associate a regioni limitate vicino la cometa. In questo modo si registra una più debole luminosità rispetto a quella che si otterrebbe se si misurasse la magnitudine dell’intera chioma. I triangoli blu, invece sono i risultati forniti dall’International Comet Quarterly (ICQ), che fanno riferimento alla magnitudine totale della cometa, cercando di stimare tutta la luminosità prodotta dalla ISON. Mentre le prime misurazioni possono variare da osservatore ad osservatore in base alle tecniche e strumentazioni utilizzate, queste ultime sono state ottenute da astronomi esperti che hanno fatto uso di telescopi oppure hanno confrontato ad occhio nudo la luminosità della ISON con quella delle stelle note. La curva nera è semplicemente un possibile modello che la luminosità della cometa potrebbe seguire. Si nota, però come le misure provenienti dall’ICQ seguono maggiormente il modello di curva tracciato, sebbene nella prima metà del 2013 entrambe le misurazioni sembravano essere in accordo. Questo è dovuto al fatto che nei primi mesi del 2013 la ISON era ancora distante da noi e presentava una dimensione angolare ridotta quindi anche le misure di magnitudine del Minor Planet Center coinvolgevano tutto l’astro chiomato e non regioni limitate. Ma attualmente la ISON è sempre più vicina al Sole e di conseguenza a noi, presentando dunque una dimensione maggiore e le due diverse misurazioni non sono più coincidenti. Attualmente la luminosità della ISON è meglio descritta dalle magnitudini totali (rappresentate dai triangoli blu). Dal grafico si evince inoltre, come i valori di magnitudine della ISON siano diminuiti rapidamente nell’arco di pochi giorni, rendendo quindi la cometa maggiormente luminosa. Sarà difficile valutare la luminosità raggiunta dalla cometa quando sarà in prossimità del Sole poiché verrà sovrastata dalla forte luce diurna.

Queste misure non predicono comunque quello che avverrà il 28 Novembre, pertanto non ci resta che attendere quel fatidico giorno ed osservare in diretta ciò che la ISON potrà subire. Verrà disintegrata dal forte campo gravitazionale del Sole o riuscirà ad evitare questo evento distruttivo, permettendoci così di ammirarla, da Dicembre (e per un paio di mesi successivi) in una lunga scia luminosa che solca i nostri cieli notturni? Come terza ipotesi potrebbe anche accadere che interagendo con il Sole, la cometa potrebbe perdere la propria coda ma riuscire ad allontanarsi conservando il nucleo e quindi la chioma. In questo modo, sempre dopo il 28 Novembre, potremmo avvistarla con una luminosità ridotta, subito dopo il tramonto. Da un punto di vista scientifico paradossalmente può essere molto più interessante osservare la distruzione di una cometa piuttosto che il suo affascinante passaggio poiché si potrebbe analizzare in maniera diretta la composizione chimica di regioni interne del nucleo di questo oggetto. Ricordiamo che le comete sono dei frammenti rocciosi e ghiacciati originatisi all’epoca della formazione del Sistema Solare e tramite la loro disintegrazione si potrebbero ottenere dettagliate informazioni sulle condizioni esistenti 4.6 miliardi di anni fa. La ISON tra l’altro, si avvicina al Sole per la prima volta e quindi non è stata alterata chimicamente da precedenti interazioni con la nostra stella. E’ pertanto un reperto di 4.6 miliardi di anni rimasto fortemente intatto da allora. In più si ritiene che le comete siano potenziali “portatrici di vita”: nel 2004 la sonda Stardust ha raggiunto la cometa Wild 2 raccogliendo le polveri provenienti dalla sua coda ed una volta analizzate si è scoperto che contenevano le molecole organiche ammine, precursori del DNA. Infatti il nucleo cometario non è soltanto composto da frammenti rocciosi ed elementi ghiacciati, ma vi sono anche sostanze chimiche organiche, come:

  • formaldeide (H2CO): questo composto è ottenibile tramite ossidazione catalitica del metanolo ed è utilizzato nella vita quotidiana come disinfettante;

  • acido cianidrico (HCN): può presentarsi sottoforma di liquido incolore oppure come gas ed è un veleno molto potente. Questo è essenziale nei processi di sintesi prebiotica (precedenti la comparsa di organismi viventi sulla Terra) di amminoacidi e purine, ossia basi azotate che costituiscono DNA ed RNA.

Si pensa che queste molecole organiche si siano formate nello spazio interstellare e siano state intrappolate nel nucleo cometario nei primi periodi della formazione del Sistema Solare. Nel 2013 è stata avanzata l’ipotesi che gli impatti di comete sulle rocce terrestri avvenuti miliardi di anni fa abbiano generato gli amminoacidi, dalla quale si sono formate le proteine. Quindi la vita sulla Terra potrebbe essere stata “portata” da quelle comete che hanno impattato sul nostro pianeta. Di certo queste risposte non si ottengono limitandosi ad osservare il passaggio della cometa ISON nel Sistema Solare. Però, d’altro canto, chi vuole perdersi lo spettacolo di un’enorme scia luminosa che si estende per gran parte del cielo notturno boreale? Questa è la previsione più fantastica riguardante la ISON che potrebbe rivelarsi ben più deludente anche se  la cometa riuscisse a transitare vicino al Sole senza venir disintegrata. Però, come già detto, le comete sono molto imprevedibili, quindi chi può dire cos’ha in serbo per noi la ISON?                            

Mondi alieni - Giulia Alemanno

Ognuno di noi almeno una volta si è sicuramente posto questa domanda osservando l’immensità del cielo stellato o guardando uno dei tanti film di fantascienza. La possibilità di altre vite oltre la nostra ha da sempre affascinato tutti. E’ nato così il mito degli alieni dalle antenne verdi. Esseri misteriosi, molto diversi da noi. Antennine verdi a parte, la verità è che non possiamo escludere la possibilità che nell’Universo ci sia qualcun altro. Basti pensare che nella nostra Galassia esistono circa 400 miliardi di stelle e l’intero Universo contiene 100 miliardi di galassie (ad oggi conosciute). Attorno a queste miriadi di stelle orbitano pianeti più o meno simili a quelli del nostro Sistema Solare. Tali pianeti sono chiamati extra-solari o esopianeti.

Prima di spostare la nostra attenzione verso gli spazi siderali siamo sicuri che non ci siano altre forme di vita nel nostro sistema solare, presenti o passate? In ordine di interesse il primo posto dove cercare è Marte per la sua maggiore somiglianza alla Terra. Su Marte sono state trovate evidenti prove di antica presenza di acqua allo stato liquido, come strutture fluviali analoghe a quelle presenti sulla Terra. Inoltre sulla superficie del pianeta sono presenti depositi carbonatici che si formano appunto in presenza di acqua liquida. Ma di Marte parleremo approfonditamente in uno dei prossimi articoli. Dall’analisi delle caratteristiche generali degli altri pianeti che compongono il Sistema Solare possiamo comprendere come le loro condizioni siano così estreme e quindi inadatte allo sviluppo di forme di vita così come noi le conosciamo. Partiamo da Mercurio, il pianeta più vicino al Sole. Proprio tale vicinanza fa sì che Mercurio sia caratterizzato da sbalzi termici molto forti. Le temperature variano, infatti, da un massimo di 700 °K nell’emisfero esposto al Sole ad un minimo di 170 °K nell’emisfero in ombra. Procedendo in ordine di distanza crescente dalla nostra stella passiamo a Venere che ha grandi somiglianze con il nostro pianeta: più o meno stessa massa, densità e dimensioni; ma nonostante ciò è molto diverso dalla Terra. Venere ha un’atmosfera molto spessa costituita prevalentemente da anidride carbonica per circa il 90% in cui sono presenti nubi costituite prevalentemente da goccioline di acido solforico mescolate con gocce d’acqua. Queste nubi rendono impossibile osservare direttamente la superficie del pianeta. Inoltre l’anidride carbonica provoca un elevato effetto serra, cosicché al suolo si raggiungono temperature che raggiungono i 750 °K. Dopo la Terra e Marte abbiamo Giove, Saturno, Urano e Nettuno, i cosiddetti pianeti giganti. Questi ultimi sono costituiti prevalentemente da gas e presentano un nocciolo roccioso molto piccolo rispetto alle dimensioni del pianeta stesso. Quindi ad eccezione di Terra e Marte, gli altri pianeti del Sistema Sole sono di scarso interesse nell’ambito della ricerca di forme di vita. L’attenzione è rivolta, invece, verso alcuni dei maggiori satelliti di Giove e Saturno, in particolare Europa e Callisto per il primo, Titano per il secondo. Europa ha una superficie interamente ricoperta da una spessa coltre di ghiaccio (circa 150 km) al di sotto della quale si suppone si estenda un nucleo roccioso. Ciò è stato ricavato in base all’analisi della densità del pianeta. Grazie all’interpretazione delle immagini inviate dalle sonde Voyager e Galileo si pensa che la coltre di ghiaccio sia separata dal nucleo roccioso da acqua liquida. Alcune immagini rilevano la presenza di iceberg mobili. File:Titan multi spectral overlay.jpgL’oceano liquido viene preservato grazie alla dissipazione del calore per effetto delle forze di marea. Si ritiene che anche Callisto possa avere un oceano sotto la crosta, la cui presenza è stata rilevata sulla base di misure del campo magnetico del satellite. E’ stato osservato che tale campo magnetico è variabile in relazione alla posizione del corpo rispetto al campo magnetico di Giove. Ciò è indice della presenza di uno strato di fluido conduttivo. Abbiamo infine Titano, il maggiore satellite di Saturno. Titano presenta una densità 1,88 volte maggiore rispetto a quella dell’acqua ed è grande più o meno quanto il pianeta Mercurio. La caratteristica che rende interessante Titano è la presenza di un’atmosfera estremamente somigliante a quella della Terra. L’atmosfera di Titano è ricca di molecole organiche. Analisi della sua composizione rivelano la presenza di azoto molecolare (che costituisce circa l’90% dell’atmosfera), metano e tracce di idrocarburi, nitrili, ossido carbonio e anidride carbonica. Tuttavia su Titano non è possibile trovare acqua allo stato liquido poiché esso presenta una temperatura molto bassa pari circa a 94 °K. Nonostante ciò esso è importante perché ci permette di studiare come interagiscono le molecole organiche in assenza di acqua.

Photograph of the Saturn moon Titan in False Color, taken by the Cassini space probe with ultraviolet and infrared camera on 26 Oct. 2004. Red and green colors represent infrared wavelengths and show areas where atmospheric methane absorbs light. Blue represents ultraviolet wavelengths and shows the high atmosphere and detached hazes.

Alla luce di queste considerazioni è chiaro perché col tempo e col progresso tecnologico dei rivelatori, l’attenzione si sia spostata verso i potenziali pianeti orbitanti attorno ad altre stelle. Gli esopianeti furono scoperti per la prima volta nel 1994 grazie agli studi delle perturbazioni gravitazionali indotte da questi corpi sul moto della stella attorno alla quale orbitano. Esistono differenti metodi per poter individuare un esopianeta. Primo fra tutti è il metodo della velocità radiale che sfrutta il fenomeno dell’effetto doppler. Se la nostra stella ha un esopianeta, i due corpi costituiscono un sistema doppio e si muovono attorno al comune centro di massa. Per effetto di questo movimento noi osserviamo periodicamente un avvicinamento della stella, che si traduce in uno spostamento verso le lunghezze d’onda del blu nello spettro (blue shift), ed un allontanamento (red shift). Tale fenomeno sarà tanto più evidente quanto più grande e più vicino alla stella è il pianeta in questione. Ecco perché i primi pianeti ad essere stati scoperti sono pianeti gioviani, simili al nostro Giove, di grande massa e con orbite molto vicine alla stella madre. Le misure astrometriche permettono, invece, di determinare con estrema precisione la posizione di una stella rispetto ad altre stelle poste nelle sue vicinanze. In questo modo si è in grado di rilevare piccoli spostamenti nella posizione di una stella dovuti alle oscillazioni della stessa provocate dal pianeta orbitante al suo intorno. Grazie ad Einstein e ad uno dei suoi grandi risultati della teoria della Relatività Generale, è stato possibile sviluppare il metodo della microlente gravitazionale. Noi sappiamo che la luce si propaga in linea retta nello spazio ma Einstein ci dice che la presenza di grandi masse curva lo spazio. La luce viene così deviata. Quando un pianeta transita davanti alla sua stella lungo la linea di vista dell’osservatore la gravità del pianeta si comporta come una lente. I raggi vengono concentrati e si produce così un aumento della luminosità apparente e un cambiamento nella posizione della stella. Sebbene non sia un’impresa semplice, grazie soprattutto a sensori specializzati montati sui grandi telescopi oggi si è in grado di fotografare direttamente gli esopianeti. Si utilizzano sostanzialmente due metodi per riuscire a nascondere la luce della stella madre e realizzare una foto dell’esopianeta presente al suo intorno. Si sfrutta il metodo della coronografia che utilizza un dispositivo di mascheratura speciale per occultare la luce della stella. Oppure vi è il metodo interferometrico che utilizza delle ottiche specializzate per combinare la luce proveniente da diversi telescopi e farla interferire in modo tale che le onde di luce prodotte dalla stella si annullino. Resta così solo la luce dell’esopianeta. Abbiamo, infine, il metodo del transito. L’esopianeta viene individuato misurando la diminuzione di luminosità della sua stella durante l’eclissi, ovvero quando il corpo transita davanti alla stella. Studiando poi il periodo di oscillazione della stella si ricava il periodo di rivoluzione del pianeta, mentre la sua massa si determina studiando l’entità delle oscillazioni.  

Fu il radio astronomo Alexander Wolszczan a scoprire i primi pianeti extra solari. Studiando le variazioni regolari dei segnali radio di una pulsar egli dedusse la presenza di tre oggetti di dimensione planetarie attorno alla stella. Il primo pianeta extra-solare orbitante attorno ad una stella simile al nostro Sole fu scoperto, invece, dagli astronomi svizzeri Michel Major e Didier Queloz nel 1995 sfruttando il metodo della velocità radiale. Si tratta di un corpo su per giù grosso quanto Giove che orbita attorno alla stella 51 Pegasi. I primi pianeti extra-terrestri a essere stati scoperti sono per lo più pianeti gassosi, simili a Giove, insomma i pianeti giganti, proprio perché hanno una maggiore influenza sulla stella attorno alla quale orbitano.

Ad oggi sono stati classificati tre tipi differenti di pianeti extra-solari:
- I “Giove caldi”, esopianeti gassosi sopra citati;
- I giganti di ghiaccio;
- Pianeti Earth Like, simili cioè al nostro Pianeta

Questi ultimi sono stati scoperti per lo più grazie alla missione Kepler della NASA, il cui principale obiettivo era proprio quello di trovare pianeti simili alla nostra Terra nella zona abitabile della loro stella. Tali pianeti potrebbero, infatti, contenere acqua allo stato liquido e forse vita. Kepler sfruttava il metodo dei transiti. Se un pianeta transita davanti al disco della sua stella madre, la luminosità osservata della stella diminuisce di una piccola quantità che dipende dalle dimensioni relative della stella e del pianeta e dalla relativa geometria rispetto alla Terra.

Ad esempio, nel caso di HD209458-b riportato nell'immagine a lato, la diminuzione della luminosità della stella causata dal transito è dell'1,7%, una quantità piccola ma misurabile con precisione adottando opportune tecniche di acquisizione e riduzione dei dati fotometrici.

Kepler ha monitorato per quasi 4 anni 150000 stelle poste in una piccola regione di cielo compresa tra le costellazioni del Cigno, della Lira e del Dragone. Lavorando nello spazio ha potuto raggiungere una precisione fotometrica nettamente superiore a quella ottenibile da qualunque telescopio terrestre. Dall'inizio della missione a luglio 2013, Kepler ha scoperto 134 esopianeti confermati in 76 sistemi stellari, insieme con altri 3.277 candidati pianeti non confermati. Nel novembre 2013 gli astronomi hanno riferito che, sulla base dei dati della missione Kepler, potrebbero esistere fino a 40 miliardi di pianeti delle dimensioni della Terra che orbitano nelle zone abitabili di stelle simili al Sole e alle nane rosse all'interno della Via Lattea. 

Tra gli esopianeti individuati dalla missione Kepler vi è Kepler 78b, il pianeta più simile alla Terra mai osservato. Si tratta di un esopianeta orbitante attorno ad una stella distante circa 700 anni luce da noi. Kepler 78b è inoltre il più piccolo esopianeta di cui si è riusciti a misurare massa, raggio e densità con elevata precisione. Le misure sono state effettuate utilizzando il metodo della velocità radiale. In questo caso l’effetto doppler è accentuato dalla vicinanza tra il pianeta e la sua stella madre, pari a meno di 2 raggi stellari. Il tutto è stato reso possibile grazie allo studio delle variazioni di luce della stella madre di Kepler 78b attraverso lo spettrometro HARPS-N del Telescopio Nazionale Galileo delle Canarie e lo spettrometro Hires del Keck Observatory delle Hawaii. Secondo le misure effettuate da Francesco Pepe e colleghi, riportate sulla rivista “Nature”, Kepler 78b ha una massa pari circa a 1,86 masse terrestri e una densità di 5,3 g/cm^3. Risultati compatibili sono stati ottenuti da Andrew W. Howard e colleghi, i quali nel loro articolo pubblicato sulla stessa rivista hanno riportato una massa pari a 1,96 masse terrestri e una densità pari a 5,57 g/cm^3. Tale densità rivela una composizione di ferro e roccia, proprio come la Terra. Ma c’è una differenza sostanziale tra Kepler 78b e il nostro pianeta. Si tratta dell’elevata vicinanza dell’esopianeta alla sua stella madre. Così la superficie del pianeta raggiunge temperature molto elevate pari circa a 2000°C. Ciò rende Kepler 78b inospitale.

This illustration compares Earth with the newly confirmed scorched world of Kepler-78b. Kepler-78b is about 20 percent larger than Earth and is 70% more massive. Kepler-78b whizzes around its host star every 8.5 hours, making it a blazing inferno. Credit: David A. Aguilar (CfA)

Tuttavia la scoperta di questo esopianeta e delle sue caratteristiche ottenuta grazie ad una collaborazione internazionale a cui ha partecipato l’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF) rappresenta un’importante tappa nello studio degli esopianeti. Dopo la scoperta di 135 esopianeti e 3548 “candidati esopianeti”, cioè oggetti da verificare attraverso altre osservazioni, la NASA ha dichiarato la fine della missione Kepler a causa di un guasto ai giroscopi. Ma tra soli tre mesi partirà la missione GAIA il cui obiettivo è quello di misurare con estrema precisione velocità e posizione radiale di circa un miliardo di stelle nella nostra Galassia e in tutto il Gruppo Locale. GAIA traccerà una mappa tridimensionale della nostra Galassia al fine di studiarne composizione ed evoluzione. Fino ad ora sono stati scoperti 787 sistemi planetari, 1039 pianeti e 173 sistemi planetari multipli. Si può consultare la lista di questi oggetti al seguente link: http://exoplanet.eu/catalog/ .

Negli ultimi anni è stato poi ottenuto un risultato notevole: si è riuscito a rilevare per la prima volta la radiazione emessa direttamente da un esopianeta attraverso lo studio della luminosità della stella durante la cosiddetta eclissi secondaria. Quest’ultima si verifica quando l’esopianeta transita dietro alla sua stella. Durante tale eclissi la luce è prodotta solo dalla stella, quindi si sfrutta questo dato per ricavare la luce dell’esopianeta e della sua atmosfera sottraendo la luce stellare a quella totale del sistema quando il pianeta non è eclissato. Tale analisi fatta a differenti lunghezze d’onda consente di costruire lo spettro dell’atmosfera dell’esopianeta. E’ iniziato così lo studio delle atmosfere esoplanetarie. Tali studi sono stati effettuati in un primo momento solo sui cosiddetti “Giove caldi”, ovvero esopianeti molto simili a Giove, a causa delle loro maggiori dimensioni. A differenza del nostro Giove però questi esopianeti osservati hanno orbite 100 volte più vicine alla loro stella rispetto alla distanza tra Giove e il Sole. Calcoli effettuati sulla base delle osservazioni astronomiche hanno mostrato che i “Giove caldi” analizzati presentano una densità circa pari a 1 g/cm^3. E’ stato quindi, ipotizzato che il loro componente principale sia l’idrogeno e ciò fa sperare che tali atmosfere rispecchino la composizione primordiale dell’intero sistema planetario di cui fanno parte. Lo studio delle atmosfere è in sé molto complicato perché bisogna tener conto della complessità delle interazioni tra caratteristiche radiative, dinamiche e chimiche dell’atmosfera e forse anche dei campi magnetici. L’obiettivo per molti ricercatori è quello di riuscire a ottenere spettri delle atmosfere di esopianeti di tipo terrestre per riuscire a rispondere alla famosa domanda: “siamo soli?” Sono state inoltre individuate delle Super-Terre ovvero dei pianeti esterni al Sistema Solare molto simili alla Terra ma con massa e raggio maggiori rispetto ad essa. Questi pianeti orbitano attorno a nane rosse probabilmente a una distanza 10-100 volte inferiore rispetto alla distanza Terra – Sole. Essendo la temperatura delle nane rosse inferiore a quella del Sole, questi pianeti potrebbero trovarsi nelle condizioni favorevoli per avere acqua allo stato liquido sulla loro superficie. Attorno a nane rosse sono stati poi individuati i cosiddetti pianeti nettuniani, con masse pari a 10-15 volte la massa della Terra. Su uno di essi in particolare, GJ3470b, si è focalizzata l’attenzione dei ricercatori dell’INAF (Istituto Nazionale di Astrofisica). Grazie ai dati ottenuti attraverso l’utilizzo dell’LBT (Large Binocular Telescope), confrontando i valori di assorbimento alle varie lunghezze d’onda è stata ricavata la composizione gassosa dell’atmosfera, rivelando come essa sia per certi aspetti simile alla nostra. L’atmosfera di GJ3470b sembra, infatti, contenere elementi più pesanti rispetto a idrogeno ed elio. Questi elementi sono mescolati a pulviscolo che fa sì che l’atmosfera sia più sensibile alla diffusione della radiazione blu. Si pensa quindi che su questo pianeta ci sia un cielo azzurro molto simile al nostro. Sono state progettate così diverse missioni allo scopo di studiare meglio le atmosfere di questi esopianeti come l’Exoplanet Characterization Observatory (EChO) e il Fast Infrared Exoplanet Spectroscopy Survey Explorer (FINESSE).

Ma esistono altri modi per cercare esseri intelligenti in altri sistemi solari? In questo contesto si colloca il programma SETI acronimo di Search for Extra-Terrestrial Intelligence. L’idea è quella di riuscire a captare eventuali segnali radio inviati da esseri che vivono su altri pianeti e che come noi sono curiosi di sapere se sono soli o meno. L’idea di utilizzare le radio-onde per la comunicazione interstellare venne da due fisici della Cornell University, Giuseppe Cocconi e Philip Morrison. Questi ultimi proposero, nel 1959, di puntare i radiotelescopi verso stelle di tipo solare e di cercare segnali radio. Occorre però osservare il cielo alla giusta frequenza. Nel 1960 in West Virginia, Frank Drake, astronomo della Cornell University puntò il grande telescopio Tatel di ben 26 metri di diametro, verso le stelle Tau Ceti ed Epsilon Eridani. Iniziò così il primo moderno esperimento SETI. Drake osservò le due stelle alla frequenza di 1420 MHz, valore corrispondente alla linea di emissione dell’idrogeno neutro. Se si considera che l’idrogeno è il principale componente dell’Universo appare chiara l’importanza di tale linea di emissione. Essa viene utilizzata in radioastronomia per studiare l’estensione e il moto della nostra Galassia. Tuttavia uno dei maggiori problemi di questo progetto deriva dalla cosiddetta finestra temporale. Occorre cioè che le civiltà in questione siano sviluppate a tal punto da essere in grado ricevere e inviare messaggi nello spazio interstellare con tempistiche compatibili. Questa capacità è stata da noi acquisita da poco più di un secolo. Per cui, come spiega Margherita Hack: “Se anche il dialogo fosse possibile, il segnale partito da una stella a 100 anni luce da noi ci arriverebbe 100 anni dopo e la nostra risposta arriverebbe dopo altri 100 anni”. Nonostante l’utilizzo di strumenti sempre più sofisticati, per il momento l’esito degli esperimenti condotti è negativo. Il 15 Agosto del 1977 è stato captato un forte segnale radio a banda stretta che apparentemente non proveniva né dalla Terra né dal resto del Sistema Solare. Tale segnale, a cui venne dato il nome di “Segnale Wow!”, dal commento che il dottor Jerry R. Ehman scrisse a fianco ad esso, durò 72 secondi e non si ripeté mai più. Inoltre nel 2011 il SETI ha segnalato la ricezione di due altri strani segnali captati puntando le antenne verso alcuni esopianeti scoperti dalla missione Kepler. Anche questi segnali però, non si sono più ripetuti, pertanto si ritiene siano stati prodotti da interferenze terrestri. Nonostante ciò il programma SETI continua, anche senza il sostegno della NASA e del governo degli Stati Uniti che hanno perso il loro interesse. Il progetto viene quindi finanziato da privati o portato avanti da volontari nei radio osservatori.

In Italia il referente è Stelio Montebugnoli (INAF-IRA, Direttore SETI Italia e radiotelescopi di Medicina, Bologna).

Così la ricerca di altre forme di vita fuori e all’interno del nostro Sistema Solare continua senza sosta, con nuove missioni e strumenti sempre più avanzati. Chissà forse un giorno potremo riuscire ad abbracciare un nostro amico alieno, solo il tempo potrà dirlo. Tra l’altro molte cose che un tempo si consideravano impensabili, ora sono possibili.  

La bella Andromeda - Giulia Alemanno e Anna Galiano

Come avrete già notato leggendo i nostri precedenti articoli, molti di quei puntini luminosi che popolano il nostro cielo ci raccontano affascinanti storie mitologiche di divinità e antichi eroi. I nostri antenati hanno, infatti, assegnato alle stelle e ad altri oggetti del nostro cielo i nomi dei protagonisti di queste storie in modo che tutti potessero un giorno conoscere le loro imprese. Così ad un insieme di stelle fu dato il nome di costellazione di Andromeda, una bella principessa che a causa della vanità della madre ebbe una vita travagliata. La costellazione di Andromeda è nota soprattutto per la presenza di una macchiolina biancastra ai suoi confini. Anch’essa è visibile ad occhio nudo poiché ha una magnitudine pari circa a 4.

Ma prima di vedere di cosa si tratta raccontiamo brevemente la storia della nostra principessa. Il racconto coinvolge altre tre costellazioni del cielo boreale poste nelle vicinanze della costellazione di Andromeda e sono Perseo, Cefeo e Cassiopeia. Re Cefeo e la regina Cassiopeia regnavano in Etiopia con la loro figlia, la principessa Andromeda. Cassiopeia era una donna molto vanitosa, passava il tempo a specchiarsi e si vantava di essere più bella delle Nereidi, bellissime ninfe marine immortali. Tra queste vi era Teti, la moglie di Nettuno nonché madre di Achille, la quale indispettita dalla vanità della regina decise di punirla chiedendo aiuto al dio del mare. Nettuno inviò il mostro marino Ceto a distruggere le coste del regno di Cefeo. Dopo aver consultato l’oracolo di Ammone, re Cefeo capì che l’unica soluzione era quella di offrire la sua figlia Andromeda in sacrificio. La principessa venne incatenata nuda ad uno scoglio e offerta in pasto al mostro marino Ceto. Ma si sa la storia di una principessa non può certo finire così. Come in tutte le storie che si rispettino l’arrivo del principe è di dovere. Ed ecco volare in cielo, con sandali alati avuti in dono dal dio Mercurio, l’eroe Perseo. Con in mano la testa di Medusa sconfitta poco prima, Perseo si precipitò dalla fanciulla e le chiese cosa stava succedendo. Affascinato dalla storia e dalla bellezza della ragazza Perseo si recò dapprima dai suoi genitori e la chiese in sposa (mentre la poverina aspettava nelle grinfie del mostro marino) e una volta ottenuto il loro consenso tornò a liberarla dalla scogliera. I due si sposarono e dopo alcune vicissitudini che coinvolsero Fineo, un giovane a cui tempo prima era stata promessa in matrimonio Andromeda, scapparono in volo raggiungendo il loro regno situato tra la Palestina e il Mar Rosso.

Dopo questa affascinante storia torniamo alla macchiolina biancastra posta nelle vicinanze della costellazione di Andromeda per vedere di cosa si tratta. Dapprima venne classificata come “piccola nube” dall’arabo Abd al-Rahman al-Sufi attorno alla metà del novecento. Dopo quasi un millennio, nel 1864, grazie allo studio spettrale, l’astrofisico William Huggins notò che lo spettro dell’oggetto in questione somigliava più a quello delle stelle piuttosto che allo spettro delle altre nebulose. Esiste, infatti, un’evidente differenza tra gli spettri delle stelle e quelli delle nebulose. Le stelle sono caratterizzate generalmente da uno spettro continuo solcato da righe scure, dette righe di assorbimento, mentre gli spettri delle nebulose presentano prevalentemente righe brillanti. Tuttavia la sua natura stellare non era stata provata del tutto e molti pensavano ancora che si trattasse di una nebulosa. Nel 1920 ci fu il Grande Dibattito fra l’australiano Harlow Shapley e Heber Curtis, astronomo statunitense, riguardante le dimensioni della Via Lattea e la natura delle nebulose e delle galassie. Quest’ultimo riteneva che la grande nebulosa osservata fosse, in realtà, una galassia e quindi un oggetto esterno alla Via Lattea ed indipendente da essa, mentre Shapley ne sosteneva l’entità nebulare ritenendo che essa facesse parte della nostra Galassia. Solo nel 1925, quando Edwin Hubble identificò alcune stelle variabili Cefeidi nella presunta galassia e le utilizzò per determinarne la distanza da noi si poté avere una risposta definitiva. Le Cefeidi sono stelle che presentano una relazione ben precisa tra periodo e luminosità, scoperta dall’astronoma Henrietta Swan Leavitt nel 1912. La luminosità delle Cefeidi cresce regolarmente all’aumentare del periodo. Poiché esse possono essere considerate tutte alla stessa distanza da noi, essendo le dimensioni della galassia in cielo molto minori della distanza da noi, si ha che magnitudine assoluta e apparente differiscono di un fattore costante tramite il quale si può ricavare la misura della distanza. Si scoprì così che si trattava di un oggetto a sé stante ben al di fuori della nostra Via Lattea, che fu chiamato Galassia di Andromeda per la sua vicinanza a tale costellazione.

Andromeda è una galassia a spirale proprio come la nostra e appartiene al Gruppo Locale. Si ha, infatti, che le stelle del nostro universo sono racchiuse in galassie, le quali a loro volta sono unite in gruppi. La forza legante è in ogni caso la gravità. Ad oggi sono conosciute 43 galassie appartenenti alla famiglia del Gruppo Locale. Tra queste vi è proprio la nostra Galassia e la galassia di Andromeda che è la più grande galassia di questa famiglia. Essa ha uno splendore pari a 25 miliardi di soli, mentre lo splendore della Via Lattea è pari circa a 8,3 miliardi di soli. La galassia di Andromeda è importante proprio per la sua vicinanza, grazie alla quale possiamo studiare le stelle che la compongono e confrontare le loro proprietà con quelle della Via Lattea. Lo stesso vale anche per le altre galassie del Gruppo Locale che sono più vicine a noi. Al Gruppo Locale appartengono poi, la Grande e la Piccola Nube di Magellano e la galassia del Triangolo. Il diametro del gruppo è circa pari a 4 milioni di anni luce, esso rappresenta pertanto una piccola famiglia di galassie se si considerano l’ammasso della Vergine o quello della Chioma di Berenice che hanno invece diametri di decine di milioni di anni luce. Dallo studio della massa e della luminosità delle stelle si possono ricavare risultati interessanti. E’ stato ottenuto che la massa totale del Gruppo Locale è pari circa a 1500 miliardi di volte la massa del Sole mentre la sua luminosità è stimata pari a 30 miliardi di volte quella del Sole. Dal rapporto tra queste due grandezze si ricava che nella nostra famiglia di galassie dominano le stelle rosse e la materia oscura poiché il rapporto massa/luminosità è circa 1 per le singole stelle ad eccezione delle stelle rosse in cui è pari circa a 50. Tutti i membri del Gruppo Locale presentano delle velocità che sembrano in contrasto con il principio dell’espansione delle galassie. In particolare la galassia di Andromeda si avvicina alla nostra Galassia sempre di più. Ma di questo parleremo tra un po’, vediamo ora com’è possibile osservare il nostro oggetto. La galassia di Andromeda è catalogata come M31 nel catalogo Messier e NGC 224 nel New General Catalogue che rappresenta un’estensione del primo. Per poter individuare questa galassia in cielo occorre prima cercare la costellazione di Andromeda. Quest’ultima è visibile verso le 21 a est in settembre come si può notare nella figura sopra riportata. Ai confini di tale costellazione possiamo osservare, ovviamente in zone lontane dall’inquinamento luminoso, la galassia di Andromeda.

La Galassia di Andromeda (M31) è l’ammasso di stelle, gas e polveri più vicino alla Via Lattea, la sede del nostro Sistema Solare, distante circa 2.5 milioni di anni luce (a.l.). Dato che la luce viaggia nello spazio con una velocità di 300000 km/s, ciò che riusciamo a intravedere anche ad occhio nudo nelle notti autunnali prive di inquinamento luminoso è in realtà una “fotografia” della bella Galassia di Andromeda risalente a più di due milioni di anni fa. Se esistesse un osservatore distante anni luce dalla M31 e dalla Via Lattea vedrebbe queste due galassie costituire un sistema doppio a causa della loro relativa vicinanza, trascurando però la presenza della Galassia del Triangolo (M33), una delle 14 galassie satelliti di Andromeda. Fino ad una decina di anni fa il diametro della M31 era stato stimato di 120000 a.l. ma osservazioni più accurate ad opera dei telescopi dell’Osservatorio Keck situato sul monte Mauna Kea alle Hawaii hanno dimostrato che nella parte periferica della galassia vi sono dei sottili filamenti stellari che fanno parte in realtà del disco galattico. In questo modo il diametro della Galassia di Andromeda raggiunge un valore di 200000 a.l., superiore al diametro della Via Lattea (130000 a.l.), anch’esso corretto al seguito di recentissime indagini. In effetti è stato scoperto un prolungamento del disco della Via Lattea al di sotto ed al di sopra del piano galattico, evidenziando così un andamento sinusoidale della nostra galassia. Anche il disco galattico della M31 non è piatto ma sembra che abbia una particolare deformazione ad S, dovuta molto probabilmente all’influenza gravitazionale della vicina galassia M33. Nonostante la Galassia di Andromeda sia più estesa della Via Lattea, quest’ultima è molto più massiva per via della grande quantità di materia oscura al suo interno. La M31 contiene, però centinaia di miliardi di stelle, raggiungendo una densità stellare più elevata. Questo rende la Galassia di Andromeda facilmente visibile nei nostri cieli notturni, con un’estensione angolare di 2°, ossia 4 volte più grande del nostro satellite naturale nella fase di luna piena. La luminosità raggiunta dalla Galassia di Andromeda è circa  2.6x1010 volte superiore alla luminosità del Sole ed è inoltre più brillante della Via Lattea.

Studi recenti hanno avanzato l’ipotesi che la galassia della bella fanciulla greca sia attualmente in una condizione di inattività dopo un lungo periodo di intensa produzione stellare. La nostra galassia invece è ancora attiva dal punto di vista di formazione delle stelle e se la situazione dovesse continuare la Via Lattea potrebbe diventare più luminosa di Andromeda. Fin dall’inizio Andromeda è apparsa come una normale galassia a spirale barrata con un rigonfiamento nel centro (bulge) ma la sua inclinazione di 77° rispetto al punto di vista della Terra, che la rende apparentemente di forma ellittica, ha reso difficile comprendere la struttura dei suoi bracci (un’inclinazione di 90° ci permetterebbe di vedere la galassia di profilo). Fra le diverse ipotesi avanzate ce n’era una che sosteneva l’esistenza di due bracci a spirale logaritmica che si dipartivano dalla barra centrale e distanti tra loro 13000 a.l., mentre un’altra suggeriva la presenza di un unico braccio. Nel 1998, però le indagini nel campo dell’infrarosso ad opera del telescopio spaziale dell’ESA hanno scoperto una disposizione ad anello delle polveri e materiale gassoso che compongono la galassia, con un anello più denso e marcato ad una distanza di 32000 a.l. da nucleo, inesistente nello spettro visibile poiché composto da polveri fredde con una temperatura di -260 °C. Questo ha permesso di avanzare l’ipotesi che in realtà la galassia sia in una condizione di transizione, alla fine della quale diverrà una galassia ad anello. Nel 2006 il telescopio Spitzer ha finalmente messo in luce la reale natura di Andromeda, riconoscendola come una struttura galattica ad anello/spirale: dal nucleo galattico barrato si estendono due bracci a spirale logaritmica e due anelli di gas e polveri circondano il nucleo, uno posto nella parte esterna della galassia, l’altro ad una distanza di 32000 a.l. dal centro galattico. Mentre i bracci non sono delle strutture continue ma composti da diversi segmenti a spirale, l’anello esterno ha una struttura circolare, tranne nella regione corrispondente alla posizione della galassia M32. Si ritiene in effetti che circa 200 milioni di anni fa la M32 abbia interagito con la M31. Simulazioni dinamiche molto accurate hanno riprodotto il fenomeno che ha generato l’attuale struttura di Andromeda: la galassia M32 molto meno massiva rispetto ad Andromeda pare abbia “attraversato” il disco galattico di quest’ultima perdendo così la metà della propria massa e producendo la struttura anulare della M31 (Figura 1). Si può paragonare questa interazione al movimento dell’acqua provocato da un sasso lanciato in uno stagno: il piccolo masso genera delle onde circolari che si allontanano dal punto di impatto, allargandosi sempre di più. La Galassia di Andromeda, dopo 200 milioni di anni, sta ancora manifestando gli effetti di quell’interazione.   

Figura1: Immagine ai raggi infrarossi della struttura ad anello/spirale della Galassia di Andromeda.  

Il Telescopio Spaziale Hubble ha permesso di scoprire, nel 1991, la presenza di un doppio nucleo nel centro di Andromeda, ossia due distinte concentrazioni di stelle poste ad una distanza tra loro di 5 a.l.. La più luminosa, nominata P1 è decentrata rispetto al centro galattico, sede del denso ammasso di stelle calde di classe spettrale A, individuato con la denominazione P2. Quest’ultimo contiene inoltre un buco nero con una massa pari ad un miliardo di volte la massa del Sole. Dopo una prima ipotesi che attribuiva P1 al nucleo di una galassia assorbita da M31, la spiegazione più attendibile sembra essere quella di considerare P1 come un disco di stelle con una distribuzione fortemente eccentrica attorno al buco nero. Dopo più di 150 osservazioni avvenute in 13 anni, i dati forniti dal Chandra X-ray Observatory della NASA hanno permesso ad un gruppo di ricercatori di individuare altri 26 possibili buchi neri all’interno della Galassia di Andromeda, oltre ai 9 già scoperti precedentemente. Queste forti sorgenti di raggi X (con una massa di 5-10 volte maggiore rispetto a quella del nostro Sole) sono molto probabilmente il risultato dell’esplosione di stelle massive. Otto dei 35 buchi neri sono stati trovati in alcuni dei 300 ammassi globulari presenti nella M31, antiche concentrazioni di stelle attorno al centro galattico. Questa scoperta segna una sostanziale differenza tra Andromeda e la Via Lattea, dato che quest’ultima sembra non avere buchi neri nei suoi ammassi globulari. Inoltre, sette di queste sorgenti di raggi X sono collocate entro un raggio di 1000 a.l. dal centro galattico, un numero di gran lunga superiore rispetto a quelli che si trovano attorno al centro della Via Lattea. Una spiegazione risiede nel bulge molto più esteso di Andromeda che contiene un numero superiore di stelle e quindi si ha una maggior probabilità che si creino più buchi neri. 

 L’alone galattico di Andromeda è ricco di stelle con scarsa presenza di materiale metallico, molto simile a quello della Via Lattea. E’ probabile che queste due abbiano subito un’evoluzione analoga nei 12 miliardi della loro vita, assimilando circa 200 galassie di massa ridotta. Studi effettuati tra il 2008 e il 2011 hanno dimostrato come le 14 galassie satelliti di Andromeda (galassie nane) non si muovono indipendentemente attorno ad essa, ma ruotano con lo stesso verso di rotazione di Andromeda, suggerendo un’unica struttura compatta a forma di disco rotante attorno alla M31. Questa nuova scoperta può aiutare a comprendere il processo di formazione delle galassie che ha ancora molte domande senza risposta. In più alcune osservazioni hanno evidenziato una particolare interazione gravitazionale tra la Galassia di Andromeda e alcune sue due galassie satelliti (galassie ellittiche nane), analogamente all’interazione esistente tra la Via Lattea e le Nubi di Magellano. Le due galassie satelliti presentano una distorsione nella direzione della M31, proprio come una delle Nubi di Magellano mostra un allungamento della propria struttura nella direzione della nostra galassia. Andromeda presenta un moto di rotazione con velocità differenti a seconda della distanza dal centro galattico. Risultati provenienti da indagini spettroscopiche hanno evidenziato una velocità di rotazione di 225 km/s ad una distanza di 1300 a.l. dal centro, mentre si ha una velocità minima a circa 6500 a.l.. Questo è dovuto alla presenza di un nucleo molto denso ed in rapida rotazione con una massa di circa  6x109 volte la massa del Sole. Attorno ai 6500 a.l. la presenza di una massa meno densa comporta una riduzione di velocità. Vi è un lineare aumento di concentrazione della massa da 13000 a.l. fino a 45000 a.l., poi lentamente si raggiunge una massa di  1.85x1011 masse solari a 80000 a.l.. A questa distanza la galassia ruota a 200 km/s. Si osserva che tutte le galassie appartenenti al Gruppo Locale presentano un moto di rotazione attorno al baricentro del sistema. Come conseguenza di questo moto la Galassia di Andromeda si sta attualmente avvicinando alla Via Lattea ad una velocità di 300 km/s. In questo modo impiegherà 4 miliardi di anni per raggiungerci e in altri 2 miliardi di anni le due galassie si fonderanno in un’unica galassia ellittica. Le stelle appartenenti alla Via Lattea e ad Andromeda continueranno a mantenere la propria individualità senza subire collisioni tra di loro dato che sono molto distanti le une dalle altre, ma adotteranno un’orbita diversa attorno al nuovo centro galattico che si verrà a formare. Alcune simulazioni hanno mostrato come il nostro Sistema Solare, al seguito di questa collisione verrà allontanato ancora di più dal centro galattico. Si ritiene inoltre che in questa interazione parteciperà anche la galassia satellite di Andromeda, la Galassia del Triangolo, con basse ma esistenti probabilità che interagisca per prima con la Via Lattea  Figura 2: Rappresentazione della imminente collisione tra la Galassia di Andromeda e la Via Lattea che avverrà tra circa 4 miliardi di anni.

De Stella Nova - Anna Galiano

Una sera d’estate, passeggiando in riva al mare, alzate lo sguardo, come al solito, verso la Via Lattea. Le nubi di polvere e le pallide distese stellari ne tracciano il profilo consueto ma ad un certo punto notate una stella in una posizione in cui fino alla sera prima non c’era niente. In epoca di connessione in rete perenne ci vuol poco per recuperare da internet un’immagine di archivio di quella regione celeste e, con grande sorpresa, scoprire che effettivamente la stella che brilla sotto i vostri occhi è una stella ospite, una Nova, come la definirono gli antichi. Potrebbe trattarsi anche di una Supernova ma non potete stabilirlo semplicemente ad occhio nudo. La probabilità che si verifichi un evento del genere è piuttosto bassa ma non nulla, data l’agguerritissima concorrenza di survey automatiche e cacciatori di Novae che scandagliano il cielo in ogni notte serena.

nova delphiniQuello che si può certamente fare con successo è gustarsi una recentissima scoperta che sta impreziosendo ulteriormente il nostro cielo, la Nova Delphini 2013.

Contrariamente a quanto farebbe supporre il nome, una Nova non è realmente una nuova stella, ma il risultato di un’esplosione che rende visibile un astro altrimenti troppo debole per essere percepito perfino con i telescopi di piccola apertura. Il fenomeno “nova” è in effetti una potente esplosione nucleare che comporta un repentino aumento della luminosità della stella di circa un milione di volte e che riguarda una nana bianca che fa parte di un sistema binario la cui secondaria è una nana rossa o arancione e più raramente una gigante.

Differentemente dall’esplosione di Supernova, processo che avviene una sola volta e che distrugge completamente la stella coinvolta, quello di una Nova riguarda gli strati esterni, per cui la stella rimane sostanzialmente integra, tanto che il processo può anche ripetersi in futuro. Conosciamo più in dettaglio i protagonisti della nostra storia.

Le nane rosse sono stelle con una massa molto ridotta, compresa tra 0.075 e 0.50 masse solari, di tipo spettrale M. Sono sicuramente le più comuni anche se difficili da osservare per la loro bassa luminosità. Hanno le dimensioni minime che permettono di innescare processi di fusione nucleare di Idrogeno in Elio al loro interno e pertanto appartengono alla sequenza principale del diagramma di Hertzsprung-Russell. Le temperature relativamente basse all’interno del nucleo permettono la lenta produzione di Elio che, mediante moti convettivi, viene trasportato in superficie generando una luminosità pari a circa il 10% di quella del Sole. La vita media di queste stelle è tanto più lunga quanto più piccola è la propria massa. Infatti stelle con una massa inferiore alle 0.8 masse solari non hanno ancora lasciato la sequenza principale il che si rivela un utile indicatore per stimare l’età degli ammassi stellari che le contengono. Le nane arancioni sono delle stelle di classe spettrale K e luminosità V appartenenti alla sequenza principale e sono una via di mezzo tra le nane rosse (classe spettrale di tipo M) e le nane gialle (classe spettrale di tipo G). Le nane arancioni hanno una massa di 0.6-0.9 masse solari ed una temperatura di 3900-5200 Kelvin. Queste stelle sono di particolare interesse poiché la loro stabilità nella sequenza principale è una condizione che facilita la presenza di pianeti simili alla Terra orbitanti attorno ad esse e quindi possibilità di vita extraterrestre. Le giganti sono delle stelle di elevate dimensioni e luminosità e si formano in uno stadio avanzato dell’evoluzione stellare.

Le stelle giganti si distinguono in: giganti rosse, giganti gialle e giganti blu. Le giganti rosse sono dotate di masse medio-basse (tipicamente tra 0.3 e 8 masse solari) e temperatura superficiale di circa 4000 Kelvin. Le giganti rosse più comuni sono quelle disposte nel red-giant-branch (RGB) del Diagramma HR, le quali continuano a bruciare Idrogeno in Elio in strati esterni attorno al nucleo composto da Elio inerte. Hanno un raggio di decine o centinaia di volte rispetto a quello del Sole ed una luminosità cento volte superiore rispetto a quella della nostra stella. Modelli di evoluzione stellare e le relative simulazioni mostrano che nel momento in cui il nostro Sole, tra circa 5 miliardi di anni, cesserà di bruciare Idrogeno nel nucleo diverrà un gigante rossa e aumenterà drasticamente le proprie dimensioni. La Terra, come anche Mercurio e Venere, finirà inglobata nella sua atmosfera e andrà incontro alla propria fine disintegrandosi. L’esempio più noto di gigante rossa è Aldebaran, la stella principale della costellazione del Toro.

Il ciclo evolutivo delle stelle in funzione della loro massa (Disegno di Michelangelo Miani)

Le giganti gialle hanno temperature intermedie per questo sono di classe spettrale G, F e a volte A. Vi è una minore quantità di giganti gialle rispetto alle giganti rosse poiché il tempo trascorso dalle stelle in questa fase è relativamente breve. Queste stelle hanno una luminosità molto elevata e possono portare alla formazione di stelle variabili, mentre giganti gialle di massa moderata possono divenire delle giganti rosse. Le giganti blu, sono di classe spettrale O e B pertanto hanno temperature pari o superiori a 10000 Kelvin e un raggio di 5-10 volte quello solare. Sono estremamente rare tanto da trovarle quasi esclusivamente nelle Associazioni OB (la cintura di Orione è parte di una delle più note).

Una nana bianca è lo stadio finale di una stella di medio-piccole dimensioni. Pur avendo dimensioni confrontabili con la Terra ha una massa pari o simile a quella del Sole (1030Kg), il che implica che si tratta di un oggetto particolarmente denso e con gravità superficiale elevatissima. Si ritiene che quando una stella di medio-piccole dimensioni cessa di bruciare, all’interno del nucleo, le proprie riserve di Idrogeno in Elio giunge al termine della propria vita nella sequenza principale e pertanto si espande divenendo una gigante rossa che trasforma Elio in Carbonio e Ossigeno mediante un “processo triplo-alfa”. Se la gigante rossa non ha all’interno del nucleo una temperatura tale da bruciare Carbonio, allora avverrà l’espulsione di materiale degli strati esterni, generando una nebulosa planetaria nel cui centro rimarrà una massa inattiva di Carbonio e Ossigeno, ossia la nana bianca. Se la massa della stella iniziale è compresa tra 8 e 10.5 masse solari, la gigante rossa avrà una temperatura interna al nucleo tale da bruciare Carbonio ma non Neon, quindi si formerà una nana bianca composta da Ossigeno-Neon-Magnesio. Una nana bianca appena formata è molto calda ma poiché non si innesca più alcuna reazione al suo interno perde gradualmente la propria energia termica divenendo una nana nera. Comunque il tempo necessario affinché una nana bianca diventi una nana nera è stato stimato superiore all’età dell’Universo (13.8 miliardi di anni).

Adesso che i nostri attori sono in scena ritorniamo alla loro rappresentazione principale: l’esplosione di una Nova. In base alla periodicità del fenomeno e alle caratteristiche con la quale questo processo avviene, si distinguono le Novae classiche e le Novae periodiche.

Artistic view of a nova explosion depicting the binary stellar system. Credit: David A Hardy and STFC

La Nova classica è un processo in cui una stella inattiva, come una nana bianca costituita da un nucleo di Carbonio e Ossigeno, assorbe (grazie all’elevata gravità superficiale) del materiale come l’Idrogeno dalla stella compagna con la quale costituisce un sistema binario. L’Idrogeno fluisce sotto forma di disco dalla stella secondaria alla nana bianca per poi depositarsi sulla superficie di quest’ultima. L’Idrogeno e anche un po’ di Elio vengono compressi e producono un aumento di temperatura degli strati sottostanti di circa 10 Milioni di Kelvin. Questo dà luogo alla combustione di Idrogeno in Elio nello strato superiore, comportando una repentina reazione nucleare. Le conseguenze di questo processo sono un aumento di luminosità e l’espulsione di materiale che si espande progressivamente nello spazio circostante. Alcune Novae raggiungono velocemente la loro luminosità massima, vi restano per pochi giorni per poi calare di un fattore 10 in circa tre mesi, come è accaduto per la Nova Persei 1901.

Queste sono le “Novae veloci”. La luminosità della stella coinvolta può variare da 6 fino a 19 magnitudini rispetto al livello originario. Le “Novae lente” raggiungono il massimo punto di luminosità in un periodo di tempo di qualche settimana o mese, successivamente diminuiscono la propria intensità gradualmente mediante delle fluttuazioni (evidenziando in questo modo un secondo picco di luminosità) per poi ridurla velocemente. La luminosità di queste Novae si riduce di un fattore 10 in circa 150 giorni.

GK Persei 1901 - view of the ejecta a century after the nova explosion. Credit: Adam Block/NOAO/AURA/NSF

In più alcune Novae lente mostrano una luminosità minima per un periodo compreso tra 2 e 5 mesi: molto probabilmente la condensazione di polveri attorno alla stella prodotti dall’esplosione non permette il passaggio della luce visibile. Il caso più conosciuto è la Nova Herculis 1934.

Vi sono inoltre le “Novae molto lente” che raggiungono un massimo di luminosità in diversi anni per poi diminuire la propria intensità in intervalli di tempo analoghi. Il caso più noto coinvolge RT Serpentis nel 1915 che ha aumentato la propria magnitudine fino ad un valore 10 e rimanendo costante per circa 10 anni. Ha infine raggiunto una magnitudine 14 nel 1942.

Le Novae periodiche sono simili alle Novae classiche, ma diverse analisi hanno evidenziato un’emissione di energia proveniente dall’esplosione superiore a quella che si osserva visivamente. In genere si ha un aumento di luminosità dalle 4 alle 9 magnitudini e il periodo di tempo dell’esplosione dura decine di anni. Una Nova ricorrente è RS Ophiuchi la quale è esplosa per sei volte in più di un secolo, negli anni 1898, 1933, 1958, 1967, 1985 e 2006. Questa ha aumentato la propria magnitudine da 12.5 a 4.8, raggiungendo il picco massimo in 24 ore per poi diminuire in un centinaio di giorni. RS Ophiuci ha brillato debolmente per circa 700 giorni dopo ogni esplosione.

Hubble Space Telescope imaged the double-star system T Pyxidis. This high-resolution image shows that the shells are more than 2,000 gaseous blobs packed into an area that is 1 light-year across. Resembling shrapnel from a shotgun blast, the blobs may have been produced by the nova explosion, the subsequent expansion of gaseous debris, or collisions between fast-moving and slow-moving gas from several eruptions. False color has been applied to this image to enhance details in the blobs.

Sono state classificati due tipi di Novae periodiche: Novae periodiche di Tipo A, ossia improvvisi esplosioni termonucleari che coinvolgono una nana bianca e che vengono osservate per più di una volta; Novae periodiche di Tipo B, dovute principalmente ad un’instabilità ed un’esplosione del disco di accrescimento, tipico delle stelle U Geminorum.

Con questo bagaglio di informazioni sicuramente osserveremo con altri occhi la Nova Delphini 2013 che promette di dare spettacolo ancora a lungo.

Sotto una pioggia di stelle - Giulia Alemanno

Come ogni estate, aspettiamo la pioggia di stelle della notte di San Lorenzo per esprimere i nostri desideri e affidare i nostri sogni a quelle tracce luminose che appaiono nel cielo. “E’ una notte come tutte le altre notti. E’ una notte con qualcosa di speciale….. Vedo stelle che cadono nella notte dei desideri” canta Jovanotti.

Da sempre i desideri sono stati connessi alle stelle. Lo dice il nome stesso: de + sidera che in latino vuol dire proprio stella. Le stelle cadenti hanno affascinato tutti. Molti poeti hanno dedicato loro versi:

“Quale per li seren tranquilli e puri discorre ad ora ad or subito foco, movendo li occhi che stavan sicuri, e pare stella che tramuti loco, se non che da la parte ond'e' s'accende nulla sen perde, ed esso dura poco...” scriveva Dante

In realtà le tracce luminose che osserviamo in cielo hanno ben poco a che fare con le stelle. Si tratta piuttosto di frammenti e polveri disseminate dal passaggio di una cometa. Le comete sono corpi minori del Sistema Solare, le cui dimensioni variano da qualche chilometro a qualche decina di chilometri ed hanno un nucleo formato da ghiaccio, ossido e biossido di carbonio, ammoniaca e acido cianidrico il tutto impastato con granuli metallici e polveri rocciose (silicati in particolare), grafite, polisaccaridi e polimeri organici. L’immagine ottenuta dalla sonda Giotto, che nel 1986 entrò nella chioma della cometa Halley, ha rivelato un nucleo particolarmente scuro, con un albedo molto basso, probabile conseguenza della copertura della superficie da parte di molecole organiche pesanti depositate dopo la sublimazione dei ghiacci sottostanti. Le comete possono essere di due differenti tipi:

  • Comete a corto periodo – che va da una decina di anni fino al massimo a duecento anni. Provengono dalla Fascia di Kuiper. Si tratta di una regione del Sistema Solare composta da un numero elevato di corpi minori (più di un migliaio quelli scoperti ad oggi), detti anche corpi trans-nettuniani poiché situati oltre l’orbita di Nettuno, da una distanza di 30 UA (UA. = unità astronomica = distanza media Terra – Sole, pari circa a  1.5*108 km) fino a 50 UA. circa.

  • Comete a lungo periodo – pari a migliaia, decine di migliaia e forse anche milioni di anni. Provengono dalla Nube di Oort, dal nome dello scopritore, l’astronomo olandese Jan Oort che per primo ipotizzò la presenza di questa nube agli estremi confini del Sistema Solare. La nube di Oort è situata, infatti, a una distanza pari circa a 50000 UA. ed è sede di milioni di nuclei cometari. Ciò che porta questi oggetti, così lontani dal Sole, verso l’interno del Sistema Solare è la “regina” delle forze: la gravità. Talvolta, infatti, delle perturbazioni gravitazionali prodotte da stelle poste nelle vicinanze e l’azione mareale della Galassia creano sconvolgimenti all’interno della nube e spingono qualche componente di essa verso le regioni interne del Sistema Solare. Alcune di queste comete vengono poi “intrappolate” dall’attrazione gravitazionale del Sole e si inseriscono pertanto in un’orbita chiusa ed ellittica attorno ad esso. Altre, invece, si muovono su orbite paraboliche o iperboliche, avvicinandosi al Sole per poi allontanarsi per sempre. Queste ultime fanno parte di una terza categoria costituita dalle comete non periodiche.

Quando questi corpi rocciosi si avvicinano al Sole, subiscono un gigantesco processo di evaporazione degli elementi volatili che vanno a formare la chioma, una specie di atmosfera che circonda il nucleo, e la coda. La coda costituisce la caratteristica più spettacolare delle comete, si estende per qualche milione di km ed ha una densità molto bassa per cui la Terra attraversando tale coda non avverte nulla. Questo ci riporta immediatamente indietro nel tempo, al 1910, anno in cui la Terra attraversò la coda della famosa cometa Halley, dal nome di Edmund Halley, astronomo inglese, il quale studiando l’astro, nel 1682, scoprì la sua periodicità, pari circa a 76 anni. L’evento, annunciato dai giornali dei vari Paesi, scatenò uno stato di panico collettivo. Tutto iniziò quando l’astronomo francese Camille Flammarion (1842-1925), pubblicò un articolo nel quale spiegava i vari modi in cui i gas della cometa avrebbero potuto potenzialmente portare alla fine del mondo. “Ce n’erano per tutti i gusti, anche quello dell’alterazione della concentrazione dell’azoto nell’aria che, se non altro, avrebbe avuto il merito di far morire tutti tra le risate, grazie all’euforia che tale squilibrio provoca nel nostro cervello.”, ha scritto Margherita Hack. La reazione fu eclatante: molti si gettarono dalla finestra perché non riuscivano ad aspettare il momento del passaggio, altri invece cercavano in tutti i modi di sfuggire alla morte comprando pillole anticometa, maschere antigas e addirittura bottiglie “gonfiate di aria purissima” dall’industria Michelin. D’altra parte per lungo tempo le comete erano state interpretate come presagio di sventure, associate spesso a fenomeni mortali come le epidemie di peste. Era opinione comunemente diffusa che le comete portassero guai, tranne alcune rare eccezioni come la nascita di Cristo. Anche se alcuni astronomi ritengono che il passaggio della cometa, in questo caso, non si sia mai verificato realmente. Fu solo in seguito al dipinto di Giotto “Adorazione dei Magi”, raffigurante la cometa sulla capanna della Natività, che essa entrò a far parte dell’iconografia del Natale.

Le comete presentano in realtà due code:

  • una coda costituita da polveri che assume una colorazione giallastra;

  • una coda di ioni, costituita da plasma, di colore bluastro a causa delle emissioni del CO ionizzato. Quest’ultima interagisce direttamente con il vento solare ed è più veloce della prima. Le due code sono soggette sia all’attrazione gravitazionale sia alla forza repulsiva della pressione di radiazione. E’ a causa di quest’ultima che le code si dispongono in direzione opposta al Sole.(Hack, 2010)  

G. Rhemann image of C/1995 O1 (Hale-Bopp) exposed on 1997 March 27Copyright © 1997 by Gerald Rhemann (Austria) This image of comet Hale-Bopp was obtained by Rhemann on 1997 March 27.78. He was using a 190/255/435mm Schmidt camera and Kodak Gold 400. The exposure time was 8 minutes.

A ogni passaggio vicino al Sole il nucleo della cometa diventa sempre più piccolo. Essa, infatti, lascia una scia di polveri lungo la sua orbita. Queste ultime quando incontrano la Terra, sono chiamate meteore poiché entrando nell’atmosfera terrestre si incendiano lasciando una traccia luminosa al loro passaggio, da cui deriva appunto il nome di “stella cadente”.   La Terra, in determinati periodi dell’anno, attraversa delle regioni dello spazio ricche di queste “tracce” di cometa che entrando nell’atmosfera danno luogo a veri e proprio sciami meteorici. Tra i più noti abbiamo proprio lo sciame delle Perseidi, il cui nome deriva dal fatto che la direzione sulla volta celeste dalla quale sembrano provenire le meteore è quella della Costellazione di Perseo. Un tempo il massimo di frequenza di questo sciame cadeva proprio nella notte di San Lorenzo e il Santo fu inevitabilmente tirato in ballo. « San Lorenzo, io lo so perché tanto di stelle per l'aria tranquilla arde e cade, perché si gran pianto nel concavo cielo sfavilla... » (Giovanni Pascoli). San Lorenzo, fu messo al rogo all’età di soli 33 anni nella notte del 10 Agosto 258, per volere dell’imperatore Valeriano. Quest’ultimo emanò un editto secondo il quale tutti i vescovi, presbiteri e diaconi (come San Lorenzo) dovevano essere uccisi. Le stelle cadenti in quella notte vennero così interpretate come le lacrime del Santo.

Oggi il massimo di frequenza si è spostato di ben due giorni, quindi lo sciame delle Perseidi avrà una maggiore visibilità nella notte tra il 12 e il 13 Agosto. Le Perseidi hanno origine dalle polveri seminate dalla cometa Swift - Tuttle che prende il nome dai suoi scopritori: Leon Swift e Horace Parnell Tuttle. Si tratta di una cometa periodica con un periodo pari circa a 133,28 anni, il cui ultimo passaggio al Perielio (punto più vicino al Sole) è avvenuto nel 1992 e il prossimo è previsto per il 15 Luglio 2126. Il legame tra le Perseidi e la cometa Swift – Tuttle fu reso noto dall’astronomo italiano Giovanni Virgilio Schiaparelli nel XIX secolo.

La responsabile delle tracce luminose osservate in cielo è poi la forza d’attrito tra queste particelle e l’atmosfera che genera un calore sufficiente a eccitare e ionizzare le molecole dell’atmosfera che pertanto emettono la scia luminosa. “Quanno me godo da la loggia mia quele sere d'agosto tanto belle ch'er celo troppo carico de stelle se pija er lusso de buttalle via, ad ognuna che casca penso spesso a le speranze che se porta appresso.” diceva Trilussa.

 Se queste polveri viaggiano nella stessa direzione della Terra, penetrano nell’atmosfera del nostro pianeta ad una velocità pari circa a 36000 km/h. Se invece, Terra e polveri viaggiano in direzioni opposte, quest’ultime raggiungono una velocità di 25000 km/h (Hack, 2010). Le meteore con una magnitudine pari circa a -3, ovvero le più brillanti, vengono chiamate bolidi, in base alla definizione dell’International Meteor Organization. I corpi che non sublimano completamente nell’atmosfera prendono il nome di meteoriti. Questi ultimi hanno dimensioni maggiori rispetto alle meteore e precipitano al suolo creando talvolta grandi crateri d’impatto, come il Meteor Crater in Arizona, che ha una profondità pari circa a 170 m e una larghezza di 1200 m. In base alla loro composizione le meteoriti si dividono in meteoriti ferrose, costituite prevalentemente da agglomerati di cristalli di Ferro e Nichel e meteoriti rocciose, costituite prevalentemente da silicati.   Le meteore possono essere osservate anche in altri periodi dell’anno.

http://s1.ibtimes.com/sites/www.ibtimes.com/files/styles/picture_this/public/2012/10/04/2011/08/12/146059-perseid.jpgAstronomer Fred Bruenjes recorded a series of many 30 second long exposures spanning about six hours on the night of 2004 August 11/12 using a wide angle lens. Combining those frames which captured meteor flashes, he produced this dramatic view of the Perseids of summer. Although the comet dust particles are traveling parallel to each other, the resulting shower meteors clearly seem to radiate from a single point on the sky in the eponymous constellation Perseus. Fred Bruenjes/NASA

Abbiamo altri sciami meteorici tra i quali:

  • lo sciame delle Orionidi, nel mese di Ottobre, con massimo di visibilità attorno al 22, dovuto alle polveri della cometa di Halley;

  • lo sciame delle Leonidi, attorno al 17 Novembre, dovuto alle polveri lasciate dalla cometa Tempel-Tuttle;

  • Le Liridi, tra il 15 e il 20 Aprile, provenienti dalla cometa C/1861 G1 Thatcher;

Oltre a questi esistono molti altri sciami più deboli e meteore “sporadiche”non legate a particolari progenitori. E’ stato calcolato che ogni anno il nostro pianeta attrae in media 40000 tonnellate tra meteore e meteoriti, molte delle quali finiscono in fondo agli oceani o nei deserti.

Ritornando alle nostre Perseidi, quest’anno possiamo considerarci abbastanza fortunati, perché l’assenza della Luna in cielo faciliterà l’osservazione. Il 6 Agosto, infatti, è Luna Nuova e nelle notti a seguire la Luna tramonterà prima della mezzanotte proprio quando il numero delle meteore inizierà ad aumentare, poiché l'osservatore si trova sulla parte della Terra che avanza lungo la propria orbita verso le polveri della cometa. Per osservare il maggior numero di meteore possibile è consigliabile recarsi in luoghi bui, lontani dall’inquinamento luminoso delle città, quindi anche in spiaggia per i più romantici, e di aspettare notte fonda. Soprattutto, ricordiamo, nella notte tra il 12 e il 13 Agosto. Quindi desideri pronti, le nostre meteore stanno arrivando! “Stella, se ci credi davvero, tutti i desideri possono avverarsi.” Barbarén

La costellazione della Lira - Giulia Alemanno

La Lira è una piccola ma molto interessante costellazione boreale situata tra Ercole e il Cigno. Nelle notti d’estate è semplice individuare questa costellazione dal momento che Vega, la sua stella più brillante, è quasi allo Zenit e costituisce il vertice nord- occidentale del Triangolo Estivo, un famoso asterismo che nell’emisfero boreale appare appena dopo il tramonto da Giugno ed è visibile fino ai primi giorni di Gennaio. Le altre due stelle del Triangolo Estivo sono Altair, stella a della costellazione dell’Aquila, e Deneb, la stella più brillante della costellazione del Cigno.
Triangolo EstivoVega, anche chiamata a Lyrae, è la quinta stella in splendore di tutto il cielo, la seconda se si considera soltanto l’emisfero boreale celeste. Si tratta di una stella bianca con una massa pari a due masse solari e una luminosità 37 volte maggiore rispetto a quella del Sole. Ha una temperatura superficiale di circa 10000 gradi Kelvin ed è definita dagli astronomi “la stella più importante nel cielo dopo il Sole”. Il suo carattere di stabilità ha fatto sì che essa venisse assunta come modello di riferimento per la misura di alcuni parametri caratteristici delle stelle come ad esempio la magnitudine (splendore della stella). A Vega è stata pertanto assegnata una magnitudine di ordine 0. Essa appartiene alla classe spettrale A0. Le stelle, infatti, vengono classificate in base all’analisi del loro spettro, ovvero della distribuzione energetica della radiazione emessa dalla stella. La classe spettrale è assegnata in ultima analisi sulla base delle caratteristiche prodotte dalla sua temperatura superficiale. Per saperne di più visitate l’Astro-Percorso a tema.

Vega, nonostante le sue regolarità, ha riservato delle straordinarie sorprese. Nel 1983, grazie alle osservazioni compiute dal satellite IRAS (Infrared Astronomical Satellite) a lunghezze d’onda comprese tra 12 e 100 μm, si scoprì che Vega emette nell’infrarosso molto più di quanto ci si aspettasse. Questo fenomeno fu interpretato come conseguenza della presenza di una nebulosa protoplanetaria nell’intorno della stella, ovvero di un corpo più freddo ma anche molto più esteso della stella stessa che veniva in qualche modo riscaldato dalla radiazione da essa emessa.
Infine, un’altra caratteristica che rende affascinante la storia di questa stella è che essa, a causa del moto di precessione dell’asse terrestre, indicherà la direzione del nostro Nord tra circa 13700 anni. Infatti, per effetto del moto conico dell’asse terrestre, la posizione del Polo Nord non è stata e non sarà sempre indicata dalla Stella Polare. Tra circa 5000 anni toccherà alla stella a Cephei, tra 13700 anni circa a Vega, per poi tornare a coincidere con la Stella Polare solo tra 25700 anni circa.
costellazione lyra
Le altre stelle principali della costellazione della Lira sono:
- β Lyrae (anche detta Sheliak in arabo che significa arpa), la seconda in splendore della costellazione, è una stella di classe spettrale B7, della quale Margherita Hack ha scritto: “Una mia vecchia conoscenza che ho potuto studiare a lungo utilizzando i primi satelliti in grado di dare spettri stellari nell’ultravioletto, ed è stata una delle prime a dare delle sorprese inaspettate”.
Prima degli studi nell’ultravioletto si sapeva che β Lyrae era una stella doppia, appartenente alla categoria delle binarie ad eclisse, coppie di stelle il cui piano orbitale contiene la nostra visuale. Ogni volta che le due stelle vengono a trovarsi allineate con l’osservatore una stella eclissa l’altra. Dallo studio delle eclissi si possono ricavare informazioni sui raggi e sulle luminosità relative delle due stelle. Nel caso di β Lyrae, le due stelle si eclissano ogni 12,9 giorni, ma si riusciva a osservare una sola stella dalla temperatura di circa 13000 gradi. Studiando il moto orbitale della stella visibile, si scoprì che essa ha una massa pari a circa 3 masse solari, mentre l’altro oggetto del sistema ha una massa pari a 13 masse solari. Quindi contrariamente a quanto accade per le stelle “normali”, è la stella più piccola ad essere la più luminosa.
La serie di osservazioni di Beta Lyrae, protrattesi dal 1973 fino alla fine degli anni Settanta, sono state un esempio di esaltante collaborazione internazionale, di utilizzo di vari tipi di satelliti americani e europei, di simultanee osservazioni dello stesso oggetto dai telescopi a Terra, di scambi di idee e di risultati delle misure tramite telefono e posta, in un’epoca in cui non c’era ancora la posta elettronica, e i nastri magnetici su cui erano registrate le osservazioni dallo spazio viaggiavano da est ad ovest e da ovest ad est in aereo.” (Hack, 2010).

- RR Lyrae è una stella variabile pulsante che ha dato il suo nome ad un'intera classe di stelle, le Variabili RR Lyrae. Si tratta di variabili regolari che passano da un massimo ad un minimo splendore in un periodo costante, minore di un giorno (Hack, 2011).
RR Lyrae al suo massimo è appena oltre la visibilità ad occhio nudo (magnitudine 7.1). Le RR Lyrae appartengono tutte alla stessa classe spettrale A0 ed hanno una temperatura superficiale di 10000 gradi kelvin. Il tipo spettrale si sposta verso F, G o K all’aumentare dello splendore e della lunghezza del periodo. Queste variabili sono chiamate pulsanti poiché la variazione di luminosità è prodotta da oscillazioni delle parti più esterne della stella, associate a variazioni della sua temperatura superficiale.
Anche dette variabili degli ammassi globulari, queste stelle presentano tutte lo stesso splendore intrinseco pari a 100 volte quello del Sole. Questo è il motivo per il quale esse sono utilizzate per determinare la distanza tra noi e l’ammasso in cui si trovano. Lo splendore intrinseco è quello splendore che avrebbero tutte le stelle se fossero alla stessa distanza noi, assunta convenzionalmente pari a 32,6 anni luce. Dalla misura dello splendore apparente è possibile determinare la distanza sapendo che il rapporto tra splendore apparente e assoluto è pari al quadrato di tale distanza diviso 32,6.
Harlow Shapley (1885 – 1972), alla fine degli anni venti riuscì a determinare la posizione del Sole all’interno della Galassia proprio grazie allo studio degli ammassi globulari. Shapley notò che si osservava un maggior numero di ammassi nella direzione della costellazione del Sagittario. Da ciò dedusse che il centro galattico doveva trovarsi in quella regione e utilizzò poi le variabili RR Lyrae per misurarne la distanza. Ottenne un valore pari circa a 50000 anni luce, di gran lunga maggiore al valore oggi comunemente accettato, compreso tra 25000 e 27000 anni luce. Tale sovrastima è dovuta alla presenza delle polveri interstellari, scoperte nel 1930, che assorbendo la luce stellare fanno apparire le stelle più deboli e quindi più lontane di quanto siano realmente.

- γ Lyrae è una stella multipla, la principale ha un colore azzurro, una magnitudine apparente di 3,24 ed appartiene alla classe spettrale B9. Si tratta di una stella gigante che ha esaurito l’idrogeno nel suo nucleo uscendo così dalla sequenza principale, una banda continua di stelle che appare nel diagramma di Hertzsprung-Russell. Si tratta una rappresentazione grafica che mette in relazione la temperatura effettiva (in ascissa) e la luminosità (in ordinata) delle stelle. γ Lyrae viene anche chiamata con Sulafat, nome di origne araba che vuol dire “tartaruga” in riferimento all’origine leggendaria della Lira. Secondo la mitologia greca, infatti, la Lira era lo strumento musicale di Orfeo, creato da Mercurio, figlio di Giove e di Maia, una delle sette Pleiadi. La leggenda racconta che Mercurio creò la Lira utilizzando come cassa armonica il guscio di una tartaruga ai cui bordi tese sette cordicelle. La musica divina di questo strumento permise a Mercurio di rubare cinquanta mucche di Apollo. Questi, una volta scoperto il furto e con esso il responsabile, decise di punire Mercurio. Il piccolo capì il pericolo e iniziò a suonare la Lira. La musica divina estasiò a tal punto Apollo da convincerlo a lasciar andare Mercurio facendosi consegnare in cambio la Lira stessa.
Apollo donò la Lira a Orfeo e da quel momento egli accompagnò tutti i suoi versi con il meraviglioso strumento ricevuto in dono.
Purtroppo però, la storia non finisce qui, perché quando Orfeo sposò Euridice iniziò la tragedia. La bella Euridice per sfuggire da Aristeo, un suo ammiratore, venne morsa da un serpente il cui veleno la condusse alla morte. Orfeo disperato scese negli inferi chiedendo a Proserpina, regina del regno dei morti, di poter riavere Euridice. La musica e i dolci versi convinsero Proserpina, la quale però impose una condizione: nel ritorno dagli inferi Orfeo doveva precedere la sua amata senza mai voltarsi a guardarla. I due amanti erano quasi giunti all’uscita degli inferi quando Orfeo si voltò e Euridice venne risucchiata nel regno dei morti. Orfeo disperato iniziò a vagare senza una meta e declinò molte proposte da parte di altre belle ragazze, le quali offese dal suo rifiuto decisero di ucciderlo. Solo allora Orfeo poté riunirsi alla sua amata, mentre le Muse disponevano la sua Lira in cielo.

- δ Lyrae è una binaria spettroscopica, formata da una stella blu-bianca di sesta magnitudine e una gigante rossa semiregolare la cui magnitudine varia tra 4 e 5. Una binaria spettroscopica è una stella binaria che non può essere risolta in maniera visuale, neanche utilizzando i telescopi più potenti. Questo avviene o perché le stelle sono molto vicine tra di loro o perché sono molto distanti da noi. Ciò che ci permette di risolvere le due stelle è l’analisi dello spettro che mostra chiaramente lo sdoppiamento e lo spostamento periodico delle righe spettrali.

- ε Lyrae è la famosa “doppia - doppia”. Utilizzando anche un piccolo binocolo è possibile distinguere due stelle azzurre. Attraverso strumenti più potenti si nota poi che ognuna di queste stelline è formata in realtà da due stelle.
Un altro oggetto caratteristico della costellazione della Lira è la Ring Nebula, la nebulosa ad anello classificata come M57 nel catalogo Messier. M57Questa nebulosa è il risultato dell’evoluzione di una stella quasi simile al Sole. Osservare questa nebulosa è un po’ come guardare nel futuro della nostra stella perché essa mostra come diventerà il Sole tra circa 5 miliardi di anni, dopo la fase di gigante rossa; al centro di una nube di gas e polveri rimane una stellina piccola e molto calda detta nana bianca. Le nane bianche rappresentano l’ultima fase dell’evoluzione di stelle piccole o medio-piccole, come il nostro Sole. Queste stelle dopo aver concluso la fase di equilibrio, caratterizzata dal processo di fusione di idrogeno in elio, attraversano una fase di instabilità durante la quale gli strati più esterni della stella, riscaldati dall’energia prodotta dalle nuove reazioni di fusione, si espandono. L’involucro esterno della stella si dilata ma nello stesso tempo si raffredda portando la stella ad assumere dimensioni molto più grandi e diventare così una gigante rossa. Quando le reazioni nucleari si arrestano definitivamente, il nucleo non è più in grado di contrastare la forza gravitazionale che provoca il collasso della stella. Quest’ultima perde gran parte della sua massa e si trasforma in nana bianca, un corpo piccolo (il diametro delle nane bianche è paragonabile a quello della Terra) ma molto denso. La materia all’interno della nana bianca è in uno stato degenere: gli elettroni sono separati dai nuclei ma si dispongono intorno ad essi in modo tale da impedire un ulteriore collasso. La nana bianca, non potendo contrarsi ulteriormente si raffredda lentamente e si trasforma così in una nana nera, densa e oscura, non più visibile.

La Via Lattea: la nostra isola nell'Universo (1a parte) - Anna Galiano

Estate è sinonimo di serate all’aperto, di chiacchiere con gli amici e, per gli appassionati di Astronomia, di caccia al tesoro celeste lungo la Via Lattea. Il Sistema Solare fa parte di un grande ammasso di stelle, materiale interstellare e polveri, noto come galassia, che nel nostro caso specifico è, appunto, la Via Lattea. Questa è una galassia a spirale barrata con un diametro maggiore di 100000 a.l. (anni luce); il Sole con i pianeti che gli ruotano attorno, è localizzato in uno dei suoi bracci. La Via Lattea attraversa il nostro cielo notturno come una banda biancastra, poiché le stelle che la compongono le conferiscono la debole nebulosità che ha dato origine al suo nome. Con una estensione di circa 30° nella nostra sfera celeste, la debole luce della Via Lattea può venire facilmente mascherata dall’inquinamento luminoso o dalla luce della Luna. Vi sono, inoltre, alcune zone scure all’interno della banda dovute alla presenza di materiale interstellare che blocca la radiazione luminosa proveniente dalle sorgenti luminose retrostanti.

Via Lattea estivaLa conferma che la nostra galassia è composta da stelle si è avuta nel 1610 quando Galileo Galilei puntò il proprio telescopio e scoprì che l’aspetto nebuloso era in realtà prodotto da una moltitudine di astri molto vicini tra loro, ben al di sotto del potere risolutivo dell’occhio nudo. Indagini moderne stimano la presenza di un numero compreso tra 100 e 400 miliardi di stelle al suo interno. Agli inizi del XX secolo le osservazioni condotte dall’astronomo e astrofisico statunitense Edwin Hubble hanno dimostrato che la Via Lattea è solo una delle tante galassie presenti nell’Universo.

La reale struttura della nostra galassia è ancora oggetto di discussione. Si è certi che questa sia una galassia con un nucleo barrato dalla quale si dipartono dei bracci a spirale logaritmica che racchiudono gas, polveri e stelle, dando origine, così, al disco galattico ed in particolare alla regione denominata thin disk, laddove avvengono i maggior processi di formazione stellare. Nella parte centrale del disco vi è il centro galattico, formato da una gran quantità di vecchie stelle disposte in maniera sferoidale, le quali generano una protuberanza (bulge). Visto dalla Terra il centro galattico, che risulta essere la regione più luminosa della Via Lattea, si trova in corrispondenza della costellazione del Sagittario, in prossimità della sorgente denominata Sagittarius A* caratterizzata da una forte emissione radio. Il moto dei corpi attorno ad essa tradisce la sua natura di oggetto compatto ma con una massa di 4.1-4.5 milioni di volte la massa del Sole, ossia un buco nero supermassivo. L’anticentro galattico, la parte opposta al centro galattico, si trova nella costellazione dell’Auriga.

Gli studi per comprendere la struttura della Via Lattea iniziarono negli anni ‘50 tramite l’indagine spettrale di alcune stelle di tipo O e B (stelle con elevate temperature superficiali) presenti nei bracci a spirale di alcune galassie esterne. I risultati maggiormente soddisfacenti si sono ottenuti però, con le osservazioni nella banda radio. Il mezzo interstellare presente nella nostra galassia è prevalentemente costituito da Idrogeno allo stato neutro, otticamente non osservabile, ma visibile nel radio. Lo stato neutro dell’Idrogeno corrisponde ad un protone e ad un elettrone che occupa lo stato più basso in energia corrispondente al livello 1s. Dall’interazione tra lo spin dell’elettrone e quello del protone tale livello 1s si sdoppia in due sottolivelli: quello con energia maggiore è descritto da elettrone e protone avente lo spin nello stesso verso (Spin totale pari a 1), quello con energia inferiore presenta elettrone e protone con spin opposto (Spin totale nullo). L’elettrone transitando dal livello con energia maggiore a quello con energia minore emette un quanto di energia (fotone) alla lunghezza d’onda pari a 21 cm. Questo è ciò che fu osservato dai radiotelescopi, permettendo così di evidenziare la presenza di Idrogeno e mappare la struttura della nostra galassia. Questa transizione è molto rara, ma essendo lo spazio interstellare costituito da una gran quantità di atomi di Idrogeno, tale riga è facilmente osservabile. La riga di emissione a 21 cm dell’Idrogeno ha permesso di identificare i due bracci principali che costituiscono la Via Lattea: il Braccio di Perseo e il Braccio Scudo-Centauro. Vi sono dei bracci complementari, come il Braccio del Cigno (parte esterna del Norma Arm) e il Braccio del Sagittario ed alcuni secondari, come Carina, e il Braccio di Orione, sede oltre che della Nebulosa di Orione da cui prende il nome, anche del Sistema Solare, il quale giace nella parte interna del braccio ad una distanza di circa 30000 a.l. dal centro galattico.

Dal confronto tra i risultati ottenuti nel campo ottico (utilizzando gli ammassi aperti di giovani stelle che ben descrivono la struttura esterna dei bracci di una galassia a spirale) e quelli acquisiti nell’indagine nelle onde radio (tramite addensamenti di gas molecolare CO, composto da Carbonio e Ossigeno) si è analizzato il Braccio del Cigno e il Braccio di Perseo. Il primo è ben tracciato sia dalle componenti stellari che dagli addensamenti di CO, mentre il Braccio di Perseo è individuato solo dalle componenti CO. La mancanza di tracce stellari nella parte esterna del Braccio di Perseo indica che il braccio Locale, ossia il Braccio di Orione lo stia lentamente perturbando. Si è inoltre notato, in un primo momento, che lungo il piano galattico, ad una distanza di circa 45000 a.l. dal centro galattico, in direzione dell’anticentro, la densità di materiale termina quasi bruscamente. In realtà, osservazioni più dettagliate hanno evidenziato che questa interruzione la si nota in tutte le direzioni; probabilmente tale comportamento è dovuto ad una deformazione del disco galattico. L’assenza di materiale a quelle distanze è solo un’illusione, poiché il disco galattico a circa 43000- 49000 a.l. subisce una deformazione verso il basso. Pertanto per osservare il prolungamento della galassia bisogna considerare latitudini inferiori a 0° rispetto all’equatore galattico. Inoltre, a distanza di circa 65000 a.l. dal centro galattico, sono state osservate stelle giovani, suggerendo che tale zona è una regione attiva di formazione stellare, tutt’altro che priva di materiale.

Gli ultimi risultati, in conclusione, suggeriscono che la nostra galassia abbia in realtà un diametro maggiore di quello sinora conosciuto, circa 130000 a.l..NGC6744Il disco galattico è circondato da astri e ammassi globulari che si estendono per centinaia di migliaia di anni-luce secondo una disposizione sferica, generando l’alone galattico. Il Chandra X-ray Observatory ha dimostrato che nell’alone galattico vi è una grande quantità di gas caldo con temperature comprese tra 1 milione e 2.2 milioni di gradi Kelvin e una massa confrontabile con la massa delle stelle nella galassia.

Una simulazione al computer molto dettagliata realizzata nel 2011 fornisce una spiegazione soddisfacente sulla struttura a spirale della Via Lattea, che sarebbe prodotta principalmente dall’interazione gravitazionale con la vicina Galassia  Ellittica Nana del Sagittario, che pian piano è distrutta ed assorbita dalla nostra galassia.

La Via Lattea, la Galassia di Andromeda, di cui ci occuperemo in un secondo momento data la sua importanza, e altre 70 galassie circa, formano il Gruppo Locale, che insieme ad altri 5 gruppi di galassie, appartiene all’Ammasso della Vergine, componente di una struttura ancora più complessa ed estesa, nota come Superammasso della Vergine. Attorno alla Via Lattea ruotano due galassie più piccole e delle galassie nane, tra le quali la Grande e la Piccola Nube di Magellano. Nell’Universo locale vi sono delle galassie simili alla Via Lattea, ma ce n’è una in particolare con la quale mostra più di un elemento in comune, NGC 6744 nella costellazione del Pavone a circa 30 milioni di a.l. di distanza. La galassia NGC 6744 ha la stessa struttura a spirale, con un diametro pari a 175000 a.l.. Inoltre, una galassia più piccola, NGC 6744A, confrontabile con la Grande Nube di Magellano, le ruota attorno. Per queste somiglianze la galassia a spirale NGC 6744 viene vista come un “fratello maggiore della Via Lattea”,  il “Big brother to the Milky Way”.    

Ad Astra. In ricordo di Margherita Hack - Margherita Maglie

“Qualcuno dirà che manco di realismo, che alimento sogni senza speranza. A queste persone rispondo che è molto più irrealistico avere la pretesa di sapere quali sorprese riserverà il futuro a un ragazzo di appena diciotto anni.”

Avevo diciotto anni e, come tanti altri miei coetanei, avrei voluto rivolgere a Margherita una domanda importante: “E’ più opportuno rincorrere i propri sogni e le grandi passioni, o rassegnarsi al meccanismo socio-economico che ci ingoia dopo aver conseguito una laurea qualsiasi in un campo qualsiasi?” E, come altrettanti miei coetanei, avrei desiderato ricevere di persona LA risposta da Margherita: ”Fai una scelta responsabile, purché sia la tua scelta. Ti piace l’Astronomia? Fai Astronomia.”

Era la gran donna che tutti abbiamo conosciuto, più o meno da vicino. Semplice, diretta, senza peli sulla lingua. Nasce a Firenze nel lontano Giugno 1922; sebbene non le sia mai piaciuto credere al fato e al destino, la sua vita è segnata fin da subito: il suo quartiere a nord di Firenze la ospita all’angolo di via delle CentoStelle. Tenace, curiosa e metodica, non impiega molto a farsi conoscere: dai guai passati durante il periodo del liceo, in pieno Fascismo, alla brillante carriera nell’Astrofisica, iniziata per errore, come lei stessa scrive, presso la facoltà di Lettere: “Mi annoiai subito e capii di aver fatto un errore madornale....Mi precipitai in segreteria e decisi al volo di cambiare facoltà. Stavolta tutto mi era chiaro.

Allieva del matematico Giovanni Sansone, tanto temuto da generazioni di studenti, ricorda che l’unico trenta sul suo libretto è in Astronomia: ma questo, come lei stessa ribadisce, non è altro che puro caso. Si laurea nel Gennaio 1945, con una tesi incentrata sullo studio delle Cefeidi, stelle che presentano variazioni di luce incredibilmente regolare, “dei veri e propri orologi cosmici”. Da allora le sue giornate sono interamente dedicate all’osservazione al telescopio. Viaggia in lungo e in largo per i continenti, collaborando con diversi importanti centri di osservazione, fra i quali  l’Institut d’Astrophysique, in cui viene a contatto con Daniel Chalonge, coinvolto in un progetto di classificazione delle stelle, l’osservatorio a Utrecht, dove lavora con Marcel Minnaert sull’interpretazione degli spettri stellari, e quello di Berkeley in cui grazie all’aiuto di Struve conclude importanti osservazioni su Epsilon Aurigae. Vince la cattedra di astronomia all’Università di Trieste e, finalmente, come tutti sappiamo, la direzione dell’osservatorio cittadino. Si tratta di una vera rivoluzione per i ricercatori triestini, confinati fino ad allora in un ambiente angusto e privo di stimoli: borse di studio, relazioni internazionali con altre università ed altri osservatori. Efficienza e umanità. Una boccata d’aria fresca in un’Italia ancora arida.

La pensione arriva nel 1997, ma non porta alcun riposo: la Hack continua a dedicarsi, da scienziata nata, ad appuntamenti e conferenze. Per lei “divulgare ha una profonda valenza democratica, poiché prima di tutto vuol dire condividere”. E così fino al giorno della sua morte, il 29 Giugno, in seguito a problemi cardiaci.

Non saprei se definire più grande la perdita dovuta alla sua morte o se la ricchezza di cui ci ha dotati durante la sua intera esistenza. “A me le grandi domande su quel che ci aspettava dopo la morte non mi interessavano un granché: l’aldiqua era decisamente più divertente”.

Adesso il testimone è nelle nostre giovani mani: abbiamo un patrimonio culturale importante da difendere e diffondere con impegno e dedizione e, perché no, siamo liberi di credere che fra quei puntini lassù uno brilli anche per noi. Nei momenti di sconforto, quando il dubbio assale le nostre menti, possiamo solo avere fiducia nella nostra silente e pacifica lotta quotidiana contro l’indifferenza e l’ignoranza; la vera Bellezza non è lì fuori se non è prima in noi e non si cura della differenza fra infinitamente grande e infinitamente piccolo. Siamo tutti “fratelli di zuppa cosmica”, veri figli delle Stelle e della Terra; questo prima di tutto ci ha insegnato lei con il suo esempio e la sua condotta.

Questo breve articolo è per ringraziarti, Margherita, a nome di una comunità di astrofili affamati a cui hai dato pane per anni. Senza i tuoi studi saremmo tutti più poveri, e oggi più che mai mi rendo conto di quanto sia importante che menti grandiose come le tue passeggino tra noi, affannosi e affannati cervelli vuoti da riempire come barattoli.

La costellazione del Cigno - Anna Galiano

Una tra le costellazioni facilmente riconoscibili e dominanti nelle notti estive boreali è la costellazione del Cigno. Come suggerisce il nome, si presenta come un cigno ad ali spiegate che sovrasta uno sfondo costellato da molte deboli stelle della Via Lattea, osservabili in assenza di inquinamento luminoso.
Una parte della costellazione, formata dalla coda e dall’ala occidentale è circumpolare, mentre diviene completamente visibile da giugno (a Nord-Est) a novembre (a Nord-Ovest).
Via Lattea nel CignoIl corpo principale del Cigno è formato da cinque stelle di luminosità intensa, che conferiscono a questa costellazione il nome alternativo di “Croce del Nord”, in opposizione alla “Croce del Sud” visibile nell’emisfero australe.
La coda del Cigno è individuata dalla stella più luminosa della costellazione, Deneb (α Cygni), di magnitudine 1.25 e distante da noi 3000 anni luce. Deneb, insieme con i due astri più brillanti delle costellazioni dell’Aquila e della Lira, rispettivamente Altair e Vega formano un asterismo conosciuto come “Triangolo estivo”, il secondo dopo il “Grande Carro” a venir usato come orientamento nel cielo.

L’ala occidentale della costellazione è individuata da Ruch (δ Cygni), una stella tripla dalla magnitudine complessiva di 2.9, mentre nell’ala orientale si trova Gienah (ε Cygni), una stella gigante di magnitudine 2.45. Le due ali si uniscono su Sadr (ɣ Cygni), un’enorme stella con un raggio di circa 150 volte quello del Sole.
La testa del Cigno è sormontata da Albireo (β Cygni), una tra le stelle doppie più note, con una magnitudine complessiva di 3.35. I due astri, la cui separazione angolare è di 35’’, hanno colori differenti e questo permette di distinguerli anche con telescopi di ridotta risoluzione: la stella primaria ha un colore arancio mentre la secondaria è bianco-azzurra.
Un’altra stella degna di nota è 61 Cygni, distante 11 anni luce: è stata la prima stella doppia di cui è stata calcolata la distanza dalla terra con una buona precisione, avvenuta ad opera di Bessel nel 1838.
Vi è poi 16 Cygni, un sistema stellare triplo composto da due stelle simili al Sole, delle nane gialle (16 Cygni A e 16 Cygni B) e da una nana rossa (16 Cygni C). E’ stato scoperto un pianeta extrasolare orbitante attorno a 16 Cygni B con una massa pari a 1.5 volte quella di Giove.
Poiché questa costellazione giace sulla Via Lattea, racchiude altri affascinanti e misteriosi oggetti celesti:

  • nebulose, tra cui la NGC 6888 (Nebulosa Crescente), NGC 6960 (Nebulosa Velo) e NGC 7000 (Nebulosa Nord America), distante 3° da Deneb e con una luminosità molto tenue;
  • ammassi aperti, come M29 e M39;
  • Cygnus X-1, una sorgente continua di raggi X scoperta negli anni ’70. Tra le varie ipotesi vi è quella che sostiene la presenza di un buco nero nel suo centro.

Vi è una regione oscura che da Deneb si estende parallelamente lungo il corpo del Cigno, nota come “Fenditura del Cigno” (Cygnus Rift). Questa è la conseguenza della presenza di materiale interstellare, come polveri e gas, che assorbono la radiazione luminosa proveniente dalle stelle restrostanti.
Il nome della costellazione è legato alla mitologia greca, più precisamente al mito di Zeus e Leda. Una di queste versioni narra che il re degli dei, invaghitosi di Leda, moglie del re di Sparta Tindareo, volle vincere le resistenze della donna trasformandosi in cigno. Da quell’unione Leda partorì Castore e Polluce, Clitemnestra ed Elena. Castore e Polluce sono le stelle principali della costellazione dei Gemelli di cui ci occuperemo in futuro.
Per visualizzare le mappe e trovare gli oggetti celesti consigliati è opportuno dotarsi di un planetario software come Stellarium

Supermoon 2013 - Giulia Alemanno

La sera del 23 Giugno 2013 il nostro cielo ha ospitato una Supermoon, ovvero una Luna più grande e luminosa del solito. Il termine Supermoon indica, infatti, la coincidenza di Luna piena e perigeo. Secondo i calcoli della NASA la Luna al perigeo appare il 14% più grande e il 30% più brillante rispetto alla Luna piena che si osserva all’apogeo. Prima di parlare della nostra Supermoon vediamo cosa si intende con i termini perigeo e apogeo.

Luna al PerigeoIl nostro satellite compie un moto di rivoluzione attorno alla Terra della durata di 27 giorni, 7 ore, 43 minuti e 12 secondi, passando da una distanza massima di circa 405 696 km circa (apogeo) ad una distanza minima di 363 104 km circa (perigeo). Dalla Terra un osservatore conta un periodo di circa 29,5 giorni tra una Luna nuova e la successiva. Tali distanze sono però variabili a causa dell’interazione gravitazionale della Luna con la Terra, prevalentemente, ed in minor misura con gli altri corpi del Sistema Solare.

Alle ore 7:00 del 24 Giugno 2013, la Luna ha attraversato il perigeo raggiungendo una distanza dalla Terra di soli 356,991 km. Questa distanza non rappresenta un record: nel 2011 la Luna arrivò a una distanza dalla Terra di 356,577 km e nel 1993 di 356,210 km. Per di più essa si trovava nella fase di Luna piena. La coincidenza di plenilunio e perigeo si presenta solo ogni 14 mesi.

Molte notizie riportate in rete affermavano che in questa occasione la Luna sarebbe dovuta apparire rosa, in realtà tale appellativo non è dovuto alla colorazione dell’astro ma ad una terminologia adottata dai nativi americani. La Luna piena del mese di Giugno era stata battezzata strawberry Moon, Luna della fragola. A causa di un errore di trascrizione da parte dei coloni è stata a noi tramandata con il nome di Luna rosa, ma non ha nulla a che fare col reale colore del nostro satellite.

In realtà, quando la Luna è bassa sull’orizzonte appare di colore rossastro. Questo fenomeno è dovuto al fatto che i suoi raggi (raggi del Sole riflessi dalla Luna), devono attraversare uno spessore maggiore di atmosfera rispetto a quanto non facciano quando essa si trova alta in cielo. Tale spessore assorbe in maggiore quantità le radiazioni blu. Pertanto la radiazione che a noi arriva è composta dalle lunghezze d’onda della regione rossa dello spettro. Questo è lo stesso fenomeno che si verifica quando è il Sole ad essere in prossimità dell’orizzonte.

E’ stato molto suggestivo osservare la Super Luna del 23 Giugno fin dal suo sorgere quando ancora bassa all’orizzonte aveva quel caratteristico colore rossastro e per di più appariva più grande. Questo effetto è in realtà dovuto ad una semplice illusione che crea il nostro cervello paragonando la Luna a case, alberi o altri oggetti rispetto ai quali essa sembra più grande. Se, infatti, si scatta una foto alla Luna quando è bassa all’orizzonte e una quando invece è alta in cielo, si può notare che essa presenta sempre le stesse dimensioni, come è evidente nella foto a lato.